Il tasso e il rugby

“Hey, you, come in, please!”

Parola più, parola meno. Se qualche panchina nel vostro piccolo l’avete scaldata, queste parole ve le siete sentite dire. Con diverse sfumature, in diverse salse. Con riscaldamento o senza, dipende dalla gravità, di solito. Può capitare che queste frasi non siano così frequenti, nei mondi ovali meno calcati. Può capitare quando a referto i tuoi giocatori risultano essere più di 15, ma meno di 23. E allora si tiene duro, mentre fuori ci si tiene caldi, perché entrare da freddi e farsi male subito potrebbe essere un danno mica da ridere per la tua squadra. E anche perché a Stavanger, sud-ovest della Norvegia, non capita molto spesso che la temperatura si alzi sopra i 15 gradi. In estate.

“Hey, you, come in, please!” Parola più, parola meno. Si alza dalla panchina un cristone di un metro e 90, muscolato, zazzera bionda visibile fin da Oslo. Abbronzato. Beh, non è dato vedere troppa gente abbronzata da queste parti. Ha il numero 18 sulle spalle, maglia giallo e blu, classiche righe orizzontali. Entra tra i trequarti. No, non è un abominio, se di persone in panchina ne hai solo tre. Mancano dieci minuti al termine. L’Oslo Rugby Klubb è in rimonta dopo un brutto primo tempo, ma il risultato non è in discussione. Ci sa fare, il cristone biondo. Sembra quasi giocare in punta di fioretto, cosa che non ti puoi permettere troppo quando sei nelle vicinanze di un pallone che rimbalza strano. Ma da dove è uscito questo? Qualcuno dice che è il fratello del coach, allenatore-giocatore, dal primo minuto lì davanti a dirigere le operazioni, numero 9 sulle spalle e un discreto passato ovale in Australia. Poi, questo qualcuno, si ricorda che coach Nate, come tutti lo chiamano, di cognome fa Cummins. E poi riguarda quella zazzera bionda. A fare due più due ci vuole poco.

Si chiama Nick, Nick Cummins. Forse ne avete sentito parlare.

Festeggia anche lui, perché lo Stavanger Rugby Klubb porta a casa partita e trofeo, 27 a 15 il risultato finale. Ma questo interessa, forse, solo a statistici e affini. La domanda che tutti gli altri si fanno, dagli avversari allo sparuto pubblico presente a chi sta scrivendo questo pezzo, è: ma che ci fa quello lì a Stavanger?

Piano. Il rugby non è sport per tutti, dicono. Bisogna avere fisico, visione di gioco, attributi, propensione al gioco di squadra. Dicono. E hanno ragione. Quello che a volte non dicono è che bisogna essere anche un po’ fuori come un balcone. D’altronde, per inseguire una palla ovale un po’ bisogna conoscere il rimbalzo irregolare, il passo irregolare che ti insegnano gli avventori dell’osteria quando quello dietro al bancone ha fischiato tre volte la fine della contesa. Non necessariamente l’alcool, anche se due o tre birrette a fine partita ci stanno sempre bene. Un po’ matti sì, però. Lo sono in tanti a Stavanger, tra irlandesi che a scuola giocavano con Sexton (Robert Gannon, buon estremo, peraltro), a piloni ex membri dell’accademia di Clermont. Fino a Nathan Cummins, australiano del Nuovo Galles del Sud, discreto utility back. Si stanca dell’Australia, prende e parte per la Norvegia, dove trova lavoro, fidanzata e palle ovali. E già qui ci sarebbe spazio per parlare di matti che viaggiano con il rugby sottobraccio e sottomano. Ma no, non ci si ferma qui, perché il DNA non è un’opinione. No, non è lui quello matto, o meglio, non è lui quello d legare per primo. È proprio la famiglia Cummins a essere tutta, nessuno escluso, simpaticamente sopra le righe. Tutta. Dal padre, malato ma per nulla debole, all’altro figlio, Nick, che qualche giro di un certo tipo nel rugby che conta l’ha fatto, e che adesso mette un numero solitamente da prima linea e va a fare un piacere al fratello tra fiordi e incarnati tendenti all’albino. “Hey, you, come in, please!”

E Nick Cummins vola. Matto come un cavallo, o come un tasso del miele, animale che dice di adorare dopo averlo visto in un documentario vincere un duello contro un leone. Il fatto è che lo dice in una intervista andata in diretta pressoché in tutto il mondo ovale conosciuto, e per questo motivo diventa per tutti The Honey Badger. Non se ne pentirà mai. Nick è da subito il Cummins più forte con una palla in mano, ha una discreta velocità di base abbinata a una fame di mete e vittorie che non ha molti eguali nell’emisfero sud. Vede la linea bianca e l’area di meta e non lo fermi più. Implacabile. Gambe da dingo australiano, occhi di Schillaci a Italia ’90. Come a Twickenham, al suo debutto con i Wallabies già dati per spacciati dai media inglesi. Vanno capiti, ogni tanto, gli inglesi. L’Australia vince grazie a una sua meta, ripeterà la performance a Firenze contro gli azzurri. È in perenne stato di grazia, e non solo quando corre spiritato da una parte all’altra del campo. Dategli un microfono in mano e vi farà ancora più felici, estraendo dalla sua personale faretra una serie di frasi non sempre alla portata di tutti. No, niente sofismi spiccioli, solo espressioni troppo intrise di Australia, di emisfero e di Galles del Sud per essere capite appieno da tutti. Come quando affermerà che un suo compagno alle prese con un break down non propriamente facile da dominare era “più sudato di una zingara col mutuo”, come quando dirà di essere stato impegnato (a placcare) come un muratore di Baghdad con una sola mano. O come quando parla del suo amico tasso e chiama la meta “meat pie”, di cui è ghiottissimo e di cui non lascerebbe mai un morso. E come fai a non volergli bene? Come fai a non volergli bene quando sir Clive Woodward gli mette davanti un microfono e lui non dice altro che “The Honey Badger goes vertical”? Ci vuole del cuore pazzesco per parlare così all’unico allenatore europeo a portare a casa la Webb Ellis Cup. Allenatore non propriamente famoso per simpatia e per il suo carattere estroverso. Allenatore che se ne va impettito col microfono, ma che forse non ha capito molto di chi gli si è parato davanti.

E come fai a non volergli bene quando decide di lasciare l’Australia? Certo, se sei un tifoso Force il distacco non lo prendi così bene, ma Nick se ne va dall’amata Australia solo perché vuole guadagnare qualche soldo per il padre, malato da tempo. Se ne va in Giappone, non prima di essere salutato dalla franchigia di Perth in maniera indimenticabile: due squadre di ragazzini giocano un match di esibizione prima dell’incontro dei Force con una non propriamente sobria parrucca bionda. Lo fanno per ricordare le gesta di uno dei più matti mai passati per la franchigia, che quel giorno segnerà una meta e correrà subito ad abbracciare papà. E mai passati per la nazionale australiana, con cui alla fine collezionerà 15 presenze. Poche, ma va considerato il fatto che la sua è stata una generazione di autentici fenomeni capaci di coprire più ruoli. Lui, ala pura, trova poco spazio, ma in quei centimetri di fama fa divertire tutti. In Australia, in Giappone.

Pure a Stavanger, tra i fiordi norvegesi.

“Hey, you, come in, please!”

Non capita molto spesso che da quelle parti la temperatura si alzi sopra i 20 gradi. In estate.

Papà Mark è lì, non ha ancora molto tempo a disposizione, ma si gode il frutto del lavoro di tanti anni di educazione: Nate dirige le operazioni, chiama le giocate, controlla lo stato fisico dei suoi, Nick si gode il match, poi giochicchia per dieci minuti, il tempo di far parte di una delle storie ovali più fredde che abbiate mai sentito raccontare. Una storia di gente fuori come un balcone, ma con una passione e una voglia di vivere che va oltre ogni linea di meta conosciuta. Il rugby non è sport per tutti, dicono. Bisogna avere fisico, visione di gioco, attributi, propensione al gioco di squadra. Quello che a volte non dicono è che bisogna essere anche un po’ fuori come un balcone. Come un tasso del miele che prende e batte un leone in un uno contro uno. Ma è meglio non farselo dire, è la scoperta più bella che si possa fare quando si comincia a capire quanto bello sia farsi riconoscere, calcare tutto quello che ci sta intorno.

Quanto sia bello andare verticali.

Anche nei ghiacci norvegesi.

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