I placcaggi di Gulliver

Sono forti, cazzo se sono forti. Più che forti, i migliori. Tutti vestiti di nero, tutti intinti di nero. Come Achille nello Stige, immortali. Solo il cuore porta una felce argentata, forse per far capire che sotto sotto pure loro sono umani. Anche se proprio non sembra. Il Piccolo Padre è lì in panchina. Ha giocato 48 minuti dei suoi, tre quarti d’ora abbondanti di placcaggi, avanzate palla in mano, placcaggi, pacche sulle spalle dei suoi compagni e ancora placcaggi. È uscito sul 22 a 10, quelli neri non segnavano un punto dalla metà del primo tempo. Poi oh, quelli sono di un’altra cilindrata, arrivano altre tre mete nonostante siano quasi in folle. L’unica cosa da aspettare, ma giusto per le statistiche, è la voce metallica delle casse che annuncia il Man of The Match. C’è l’imbarazzo della scelta: ci sarebbe Julian Savea, che ha segnato tre mete. C’è Naholo, che si è rotto una tibia due mesi fa e corre come un levriero. Ci sarebbe Dan Carter, che se non sai chi scegliere con lui non sbagli. La lista potrebbe anche continuare.

No, nessuno di loro. L’altoparlante annuncia Mamuka Gorgodze, 31 anni, professione terza linea. Chiamato Gorgodzilla in Francia, terra di lavoro, perché uno così fa veramente paura. Chiamato Gulliver a casa sua, in Georgia, nonostante lì non girino proprio dei lillipuziani. Piccolo Padre, come lo chiamarono i genitori, ossia Mamuka, che per i genitori si è bambini anche se si pesa 120 chili e si è alti 196 cm. È lui il migliore in campo, nonostante soli 48 minuti giocati, nonostante 43 punti presi e nonostante gli All Blacks davanti. Lui non ci crede, agita le mani come per dire “Ma che cazzo state dicendo?”, i compagni gli tirano delle amorevoli pacche che sfonderebbero la carena di un cinquantino e sembrano i vostri compagni di avventura che hanno assistito al vostro primo bacio con la bella della classe. Tutti dalla vostra, anche contro i tuttineri.

Man of the Match contro quelli. Non male per uno che fino ai 17 anni giocava a basket a discreti livelli. Non è nemmeno difficile crederci, perché la generazione nata negli anni ’80 in Georgia con la palla a spicchi non è per nulla male: ci sono Pachulia, Sanikidze, Markoishvili, Shermadini, tutti passati per l’Europa che conta, qualcuno anche in Italia. Uno con la fisicità di Gorgodze ci potrebbe stare anche bene, arriva anche a guadagnare qualche soldo, solo che ad inizio secolo si fa da parte: “Si, bello il basket, bello far canestro..ma vorrei qualcosa di più fisico”.

Grazie, per uno cresciuto con il Lelo burti, sport in cui bisogna portare una palla di 18 chili dall’altra parte del villaggio nonostante tutti gli abitanti di quel villaggio lo vogliano fermare con le brutte il basket è quasi uno stare sulle punte. E allora pensa al rugby, che del lelo burti, in fondo, è il fratello che ha studiato. Ricambiato. Strappa un contratto coi Lelos, formazione del massimo campionato georgiano, seconda linea. Nel 2003, a soli due anni dal passaggio alla palla ovale, debutta in Nazionale e rischia di partecipare alla Coppa del Mondo australiana, la prima per i caucasici, ma non è ancora il momento.

Dal 2004 diventa titolare quasi inamovibile in seconda linea, se per voi due partenze dalla panchina su 64 partite sono un dettaglio togliete pure il “quasi”. La vita sul parquet gli ha lasciato in eredità una mobilità e una velocità sui primi passi che raramente si vedono in bestioni del genere. E le mani sono calde, delicate, non maltrattano mai l’ovale sebbene abbiano le dimensioni di due pale. È un ragazzo calmo, misurato, con dei valori intoccabili (la nascita dei figli vale più di essere migliore in campo contro gli All Blacks), ma in campo, quando entra in trance agonistica, diventa una furia. Anche troppo, visti i 16 cartellini gialli che si è visto sventolare davanti dal 2007 in poi. Viene cacciato due volte per provocata rissa, ma personaggioni come Nallet, Maestri e altri orchi della mischia di pari stazza imparano che con Gulliver non si scherza. Placca qualsiasi cosa gli passi davanti, e sempre in avanzamento. Quando ha la palla una mano è sempre impegnata a sfrontinare l’avversario. E se non basta la mano arriva tutto il resto del corpo a traino. Più che di placcare un animale del genere qui si parla di immolarsi. In un campionato come quello georgiano uno così è veramente Gulliver, il protagonista del romanzo di Daniel Defoe, che deve essere schienato e legato dai lillipuziani perché ci possa essere un confronto. Ma siccome nessuno lo riesce a legare, né in partita né per le strade di Tbilisi, nel 2005 firma per Montpellier e approda nel Top 14.

In Francia l’asticella si alza, sia perché qui c’è il meglio del rugby europeo (e non solo), sia perché un po’ di puzzetta sotto il naso verso stranieri “non eletti” (e ci buttiamo dentro anche noi) i cuginetti transalpini l’hanno sempre avuta. La perderanno, e anche molto, ma all’epoca un Gorgodze non ancora del tutto sgrezzato si accomoda in panchina. Nel 2007 alla Coppa del Mondo la Georgia fa una signora apparizione: mette in crisi per un tempo i Pumas, rischia di fare il colpo del secolo contro l’Irlanda e batte nettamente la Namibia. La Georgia comincia ad esportare piloni e tallonatori, ha una mischia impressionante per ruvidezza e compattezza, Gorgodze firma per Brive, ma poi cambia idea e torna a Montpellier, dove trova sempre più spazio. Nel 2009 Tim Lane, ct australiano dei Lelos, lo prova in terza linea e a numero 8, alternandolo in quest’ultimo ruolo con Basilaia, altro discreto toro cresciuto a pane e lelo. Dalla terza linea non lo sposta più nessuno.

Anche perché lì dietro a spingere, a placcare e nel caso ad avanzare con la palla in mano c’è più spazio. Ed anche più gusto. Nel 2010 sulla panchina di Montpellier arriva Fabien Galthié, uno degli eroi di Twickenham nel 1999 contro gli All Blacks. Se lo studia bene, poi lo sposta in terza linea. Ecco, allacciatevi le cinture, perché la stagione 2010/2011 è spettacolare: il Montpellier ha una ossatura francese, ci sono tre giovanissime colonne come Ouedraogo, Trinh-Duc e Tomas, un estremo come Thiery e un cecchino come l’argentino Bustos Moyano. Ma il meglio è nella mischia: due georgiani come Gorgodze e Jgenti, pilone, i due francesi Fakate e Rofes (che sarà internazionale per la Spagna), il figiano Matadigo e il Puma Figallo. Una mostruosità di chili e muscoli. Gli uomini di Galthiè restano a lungo nelle prime posizioni, poi hanno un calo nel finale della stagione. Prima dell’ultima giornata sono settimi, fuori dai play off, ma battono col bonus il Tolone e salgono di una posizione. Al barrage battono Castres di un punto, in semifinale trovano il Racing Metro di Pierre Berbizier. È un match incredibile: vanno avanti 23 a 6 Gorgodze e compagni, i parigini sorpassano sul 25 a 23, poi Bustos Moyano indovina i pali da 40 metri. Wisnieski, top scorer del torneo, manca i pali col drop, è finale. Il Piccolo Padre è enorme per sacrificio in difesa nel finale, placca tutto quel che gli arriva a tiro, ma in finale contro il Tolosa la favola dura poco più di un’ora. Il Montpellier non si ripeterà più a questi livelli, Gorgodze si, ma con altri colori. Passerà a Tolone nel 2014, non proprio una squadretta di scappati di casa.

Ma prima c’è il Mondiale neozelandese.

Gorgodze viene nominato Man of the Match contro l’Inghilterra. Il risultato è bugiardo, 44 a 10, con gli inglesi che per un’ora non capiscono nulla in mischia e nei breakdown. Vengono graziati solo dalla tremenda giornata al piede di Kvirikashvili. Alla Scozia serve un grande Dan Parks per vincere, contro i Pumas, re indiscussi con i primi 8 uomini, non è cosa, ma si lotta più di altre volte. Si vince contro la Romania, meta neanche a farlo apposta di Mamuka, che passa attraverso due uomini, uno dei quali attaccato ai suoi piedi, e segna come se nulla fosse. Sarà ancora il migliore in campo.

Ad allenare i Lelos arriva un neozelandese, Milton Haig, ex assistant coach dei Chiefs. Ecco, altro salto di qualità. Moltissimi georgiani ormai giocano in Francia, Top 14 e affini, la svolta è vicina. Debuttano nel rugby che conta in amichevole contro l’Irlanda a novembre 2014, poi per il Mondiale 2015 mettono un cerchietto rosso sul nome “Tonga”: è la prima partita del girone, a Gloucester.

È quiche si fa la storia.

I tongani, se solo volessero, avrebbero potenzialità tecniche e fisiche per tener testa a chiunque, ma se hanno la giornata storta può succedere di tutto. Anche che i georgiani, che tecnicamente ne hanno molto meno, restino attaccati al match con una difesa impressionante per aggressività e avanzamento. E alla mischia, of course. Le Aquile di mare vanno in tilt, Gorgodze sfonda nel primo tempo trovando le guardie completamente distratte. Nella ripresa ricominciano le danze: ritmi bassi, breakdown infernali, e seconda meta georgiana con Tkhilaishvili. I tongani non ci capiscono praticamente nulla. Si svegliano solo nel finale, quando sono in superiorità numerica, riaprono il match. Ma dall’altra parte non ci stanno, e il risultato non cambia più. Spuntano bandiere georgiane ovunque, spunta anche qualche statistica: 201 placcaggi per i georgiani, 27 per Gulliver, che in campo è praticamente ovunque. Indovinate chi è il migliore in campo? Tocca poi ai Pumas, ed è sempre la stessa storia: si regge bene un tempo, poi loro hanno più gambe, finisce tanti a pochi.

Poi ci sono loro, gli All Blacks, che per l’occasione ne mettono tanti a riposo. Si, tutto quel che volete, ma in campo ci sono Dan Carter, Julian Savea, Richie McCaw..andiamo avanti?

Segna subito Naholo, la cui tibia è stata guarita da uno stregone due mesi prima dei Mondiali. Solo che nessuno sa quale sia quella fratturata, pare un Forrest Gump furente su e giù per il campo. Sembra la replica del match contro l’Argentina, quando però Tsiklauri, estremo che da questo momento in poi ha beveraggi pagati in ogni bar di Tbilisi, calcia a seguire e si riscopre da solo verso la meta. Saranno anche gli All Blacks, ma intanto è 7 pari, e questo non glielo toglie nessuno.

Solo che le cilindrate sono diverse, e si vede.

Segnano 4 mete in 22 minuti, vanno 22 a 10. Ma poi per mezz’ora effettiva questi non segnano più. In questi casi, di solito, è sempre una questione di piccole vittorie, di guerriglie che scompigliano i capelli ai giganti o poco più, ma fanno morale. Prendete il calcio del 12 a 10: Gorgodze affonda le mani nel raggruppamento, sembra un escavatore. Puoi essere anche un All Black in odore di titolo, ma quello è tenuto e lo devi lasciare. I tuoi compagni ti vedono e si rincuorano.

È il leading by example, bellezza, e quei 120 chili di uomo li seguiresti ovunque.

Sono piccoli eroismi di grandi cuori, ma alla lunga si pagano.

Sono forti, cazzo se sono forti. Più che forti, i migliori. Tutti vestiti di nero, tutti intinti di nero. Come Achille nello Stige, immortali. Solo il cuore porta una felce argentata, forse per far capire che sotto sotto pure loro sono umani.

Ma dov’è finito Gorgodze?

Il Piccolo Padre è lì in panchina. Ha giocato 48 minuti dei suoi, tre quarti d’ora abbondanti di placcaggi, avanzate palla in mano, placcaggi, pacche sulle spalle dei suoi compagni e ancora placcaggi. È uscito sul 22 a 10, quelli neri non segnavano un punto dalla metà del primo tempo. Poi oh, quelli sono di un’altra cilindrata, arrivano altre tre mete nonostante siano quasi in folle. Poi basta, che c’è sempre una Namibia da affrontare e, possibilmente, battere. L’unica cosa da aspettare, ma giusto per le statistiche, è la voce metallica delle casse che annuncia il Man of The Match. C’è l’imbarazzo della scelta, ma stavolta il migliore non veste di nero. L’altoparlante annuncia Mamuka Gorgodze, 31 anni, professione terza linea. Chiamato Gorgodzilla in Francia, terra di lavoro, perché uno così fa veramente paura. Chiamato Gulliver a casa sua, in Georgia, nonostante lì non girino proprio dei lillipuziani. Piccolo Padre, come lo chiamarono i genitori, ossia Mamuka, che per i genitori si è bambini anche se si pesa 120 chili e si è alti 196 cm. È lui il migliore in campo, nonostante soli 48 minuti giocati, nonostante 43 punti presi e nonostante gli All Blacks davanti.

Non se lo aspetta, ha lo sguardo del ragazzino che ha ricevuto il cinquantino in regalo dai suoi nonostante la pagella fosse più da taglio che da promozione. Emozionato, sorpreso e quasi commosso. I compagni gli tirano delle amorevoli pacche che sfonderebbero la carena del cinquantino qui sopra menzionato e sembrano i vostri compagni di avventura che hanno assistito al vostro primo bacio con la bella della classe. Tutti dalla vostra, anche contro i tuttineri.

Tutti con Mamuka, col quale ti puoi confrontare solo se lo prendi, lo fai cadere e lo leghi a terra, solo se fai il lillipuziano. Perché Gulliver lo puoi contenere solo così. Anche se hai una maglia nera addosso e alzerai la Coppa del Mondo.

I placcaggi di Gulliver

Mi fumo un Habana e torno.

Carlin Isles, chi è costui?, si potrebbe chiedere un Don Abbondio qualsiasi, nostro contemporaneo. Un Don Abbondio che non avesse seguito molto il rimbalzo di una palla ovale negli ultimi due giri di calendario. Due parole per chi se lo fosse perso: Carlin Isles da Massillon, Ohio, è la nuova speranza del rugby a stelle e strisce. Nonostante abbia preso dimestichezza con la palla ovale solamente a 23 anni, nel 2012. Nonostante peso e altezza assomiglino più a quelle del vostro compagno di jogging che a quelle di un rugbista in pieno 2016, dato che mette insieme 173 centimetri e 75 chili di muscoli. Cifre che, tradotte in sostanza, magari non saranno il massimo della vita per sopravvivere in un posto sempre più popolato da bruti placcatori e in cui la parola “concussion” risuona sempre più spesso, ma che se appositamente corredati da scatto bruciante e velocità da straccio della patente possono permettere di guadagnarsi una discreta pagnotta anche in questo pazzo mondo ovale. Già, perché il ragazzo corre, eccome se corre: è il trentaseiesimo uomo più veloce degli Stati Uniti nei 100 metri, dove detiene un 10’24’’. A Jackson ha infranto record su record nei 100, nei 200 e nei 400 metri. Staffette? Non ne parliamo.

Nel 2012 Carlin si avvicina al rugby. Ci pensa un po’ su e poi dice “Proviamoci”. Rugby a 7, per il momento, disciplina che a Rio sarà olimpica. Non è un caso: la parola “Olimpiade”, declinata in qualsiasi modo, accende la fiammella della competitività in qualsiasi atleta americano. Più di qualsiasi altra competizione mondiale.

Rugby a 7, dicevamo.

Carlin Isles, dicevamo.

Un crac clamoroso. Una velocità di base del genere abbinata ai larghi spazi verdi da difendere fanno del ragazzo dell’Ohio una scheggia imprendibile, a meno che non lo si placchi subito. Ma in pochi lo placcano subito. Poco a poco acquisisce l’antica arte della finta, che non è fine a se stessa. Le gambe non cessano mai di muoversi e non si staccano mai dal terreno. E chi lo ferma uno così? E poi è il tipo di giocatore che fa impazzire gli americani: corsa elegante, avventurosa, accelerazione spettacolosa, passa ovunque ci sia un pertugio. E segna che è una bellezza.

Se ne accorgono in tanti, anche in Europa. Glasgow gli offre un contratto in Pro12, rugby a 15. Ma forse il passo è troppo lungo: qui non ci sono praterie, qui servono senso di posizione e difesa, tanta difesa. Ai Warriors non gioca, viene girato all’Ayr, nel campionato semiprofessionistico scozzese, ma anche qui fatica. Diventa famoso più per una meta non fatta che altro, poi torna in America per giocarsi tutto in vista delle Olimpiadi brasiliane.

Troppo presto per vedere un giocatore di questo tipo nel rugby a 15 di un certo livello.

Troppo presto per vedere un giocatore americano primeggiare a livello mondiale in questo sport.

Aspettate, però.

Perché qualche soddisfazione a livello mondiale gli americani se la sono già presa.

E non serve tornare ad Anversa 1920 o a Parigi 1924, quando il rugby a 15 americano fu d’oro (Giochi Olimpici, guarda caso).

Si potrebbe parlare per esempio di Juan Grobler, da Denver, Colorado, centro di 26 anni che nel 1999 segna una meta storica contro gli Wallabies. No, nessuna vittoria, gli americani perderanno 55 a 19.

Juan Grobler sarà l’unico a violare l’area di meta australiana in quel Mondiale. Non ce l’aveva fatta l’Irlanda, non ce la faranno né il Galles né l’enorme Francia che schiantò gli All Blacks, per dire. Si potrebbe parlare di un certo Ivan Francescato, che proprio agli Stati Uniti nel 1991 segnò una meta delle sue, di quelle cariche di estro, talento e schinche. Ma non basterebbero libri per raccontare quanto ci manchi un giocatore ed un uomo del genere. E allora occhio a questa storia tutta americana, fatta di viaggi e di radici lontane, di corse a perdifiato, di atleti iper-vitaminizzati e di sonore sconfitte. Perché il rugby americano, a certi livelli, ancora boccheggia. Ma qualche soddisfazione se la toglie, come nel 2007.

Gli Stati Uniti approdano al Mondiale come terza squadra americana dietro Argentina e Canada e, di conseguenza, il girone non è dei migliori. Che è un eufemismo grande come una casa, se in quel girone vi trovate di fronte i detentori del titolo, i grandi favoriti e due squadre isolane che non stanno certo troppo a guardarvi negli occhi. Ma gli americani non sono malissimo: all’apertura c’è Mike Hercus, viso strappato a qualche telefilm per adolescenti e buon piede. Gioca in Galles, tra Scarlets e Dragons, ma ha già giocato in Inghilterra, a Sale, ed è uno degli eroi della vittoria nel 2003 contro il Giappone. In seconda c’è Alec Parker, in campo nel giorno di Grobler, in terza gioca il capitano, Todd Clever, praticamente un autoblindo con capelli al vento e una corsa selvaggia, dirompente e avventurosa. Sarà il primo giocatore nato in America a giocare nel Super Rugby. Suo compagno di reparto è Louis Stanfill, che passerà per Mogliano e Vicenza, mentre dietro c’è Chris Wyles, un altro che si farà un bel po’ di stagioni in Europa, soprattutto ai Saracens. Al debutto non fanno male contro gli inglesi. E contro Tonga tengono in piedi la baracca per 70 minuti, prima che Vaki chiuda i conti. Non sono male gli americani, fisicamente tengono bene il campo e menano che è un piacere quando è ora di placcare. Ma le fasi statiche non sono il massimo, e lì le grandi squadre prendono il largo. Contro Samoa soffrono per un tempo le incursioni di Alesana Tuilagi, uno che se vi si rompe il trattore in piena stagione di aratura può fare al caso vostro, anche senza motore. Poi i samoani, come tante volte fanno gli isolani, si assentano per un po’. E gli americani, che sono meno forti ma non proprio sprovveduti, ne approfittano: la palla arriva all’ala, dove un ragazzino di 22 anni e alla terza partita in Nazionale pianta giù con una finta Tuilagi e con due falcate semina Gavin Williams, uno che qualche palla da rugby l’ha vista rimbalzare. Corre per 30 metri, gli altri sembrano fermi.

Sembrano, ma non lo sono. Stanno correndo.

È lui che sembra avere le ruote. E questo non è un trattore, questo ha lo spunto di una fuori serie.

Si chiama Takudzwa Ngwenya, e per scrivere il suo nome mi sono appena slogato due falangi. Ma non credo di essere il solo, visto che americani e non da qualche anno lo chiamano “Zee”. Zee è nato in Zimbabwe, ad Harare, e dal 2003 si trova con la famiglia a Plano, Texas. Il ragazzo ha già giocato a rugby in Zimbabwe, paese di buonissima tradizione ovale, ma qui si accorgono che il ragazzo avrebbe pure i muscoli giusti per far bene con scarpette chiodate e canotta aderente. Il suo coach ai tempi di Plano lo cronometra sui 100 metri, lui schiaffa lì un 10 secondi e 5. Senza mai aver fatto allenamenti specifici.

Il ragazzo però non lo smuovono più dalla palla ovale e lo invitano ad andare a Dallas. Da qui è un volo continuo: Nazionali giovanili, Nazionale Seven, Nazionale Maggiore. È un altro giocatore in grado di infiammare i tifosi americani: veloce, frequenze altissime, sinuoso. Non è nemmeno male in difesa. Le finte non saranno stilisticamente ineccepibili, ma oltre a seguirlo con gli occhi lo devi anche prendere e placcare.

Se ne accorge pure Bryan Habana nell’ultimo match del girone. Le due squadre non hanno moltissimo da chiedere in questa prima fase del torneo: gli Springboks hanno sofferto solo contro Tonga (schierando molte seconde scelte), ma prima avevano dato 59 punti a Samoa e 36 all’Inghilterra. Lasciando a zero i campioni in carica. Le Aquile le hanno perse tutte, anche abbastanza onorevolmente, e cercano una maniera, una qualsiasi, per andarsene a testa alta dall’Europa.

Dopo 35 minuti è 24 a 3 per il Sudafrica, che ora è in attacco e cerca il punto di bonus.

Non che serva granché, hanno già stravinto il girone. E veramente non c’è storia in campo.

Ma a livello morale fa sempre bene conquistare i 5 punti il prima possibile.

Sulla linea dei 5 metri Fourie du Preez cerca un passaggio lunghissimo all’ala, ma Clever salta e intercetta. Si trova davanti Butch James, non propriamente un tenerone, ma lo scaraventa a terra con un frontino e passa oltre. Guadagna una decina di metri ancora, poi serve Alec Parker che in quanto a visione di gioco di solito va bene, ma non benissimo. Però stavolta si sente sul collo il fiato di Schalk Burger, e allora prima di farsi male questa palla è meglio passarla. E la passa a Hercus, che in una frazione di secondo serve fuori, evitando anche l’intervento di Ndungane.

La palla arriva a Ngwenya, siamo ancora nella metà campo americana.

Davanti ci sono Bryan Habana e una bella prateria verde.

Habana è uno che due o tre ovali li ha schiacciati a terra dopo essersi sciroppato il campo in velocità, fa i 100 in 10 e 83, non è propriamente fermo in volata. E nemmeno in difesa è uno sprovveduto, perché temporeggia quel tanto che basta per portare Ngwenya all’esterno e far riorganizzare la difesa.

Non cade nemmeno alle sue finte.

Tatticamente fa tutto quel che deve fare e, fidatevi, 9 volte su 10 l’ala avversaria, se costretta nel canale, va giù senza troppi complimenti.

Solo che stavolta Habana si trova davanti uno che frusta i garretti, pennella una curva alla Usain Bolt e va oltre.

Il sudafricano prova il tuffo disperato, ma quel razzo lì è già impegnato a fare un’altra curva e a mettere la palla a terra sotto i pali.

Lo stadio di Montpellier, che già di suo tifava Stati Uniti, viene giù.

Ngwenya lo vidi giocare a Viadana contro gli Aironi in un match storico, la prima vittoria della franchigia in Europa. Zee segnò una meta rompendo un placcaggio di Tebaldi. Da fermo. Ma poi, col passare dei minuti, andò un po’ alla deriva, come la sua squadra quel giorno. Vidi invece giocare a Treviso una volta Topsy Ojo, ala dei London Irish e giocatore molto simile a Ngwenya, anche se le punte di velocità erano diverse. Ma il senso di ineluttabilità che veniva alla gradinata quando quel numero 14 muoveva le gambe e andava oltre era qualcosa di incredibile. Praticamente inarrestabile sul lanciato, proprio come quel giorno a Montpellier.

Per la nuda cronaca gli Springboks nel secondo tempo vanno oltre ancora 6 volte, perché la partita dura 80 minuti e gli Stati Uniti, a questi livelli e contro questi avversari, tendono a bruciare energie e ossigeno dai due lati, consumandosi in metà del tempo. O poco più. Regalando fiammate inenarrabili, ma anche polmoni in riserva troppo presto.

A dicembre, però, qualcuno si ricorda della meta di Zee Ngwenya, e agli IRB Awards vince il premio come miglior meta del Mondiale e dell’anno.

Niente male per un carneade, vero?

Un carneade che nel frattempo si è visto cercare dalle squadre europee. Lo vogliono i Saracens di Eddie Jones, che gli offrono un contratto di stage. Ma lo cerca anche il Biarritz, che gli propone un contratto di due anni. Che diventeranno 8, facendosi conoscere e riconoscere in giro per l’Europa. Come quando si inventa una meta di 90 metri contro gli Ospreys, o come quando semina metà Saracens per il campo e va sotto i pali. Si diverte e fa divertire.

Fino al 2016, poi si torna a casa.

Stati Uniti.

San Diego, per la precisione, dove la franchigia locale del nuovo campionato professionistico di rugby lo vuole a tutti i costi. Perché nel frattempo gli americani hanno deciso di fare le cose sul serio, e allora via con una competizione domestica di alto e altro livello. E lo si può dire tranquillamente, da qui a qualche anno, se tutto va bene, gli americani saranno un avversario serio per tutti.

Intanto pensano alle Olimpiadi, dove il rugby a 7 può regalare qualche speranziella di podio.

Poi con il 15, ma ci vorrà un po’ di tempo, che 80 minuti sono lunghi e duri da gestire.

Nel frattempo però gli americani si accontentano di scaldare cuori e far venir giù stadi, di scomodare velocisti, di violare difese che nessuno ha mai violato, anche solo una volta. Di segnare la meta più bella dell’anno a quelli che saranno i campioni del mondo, anche se loro te ne regalano nove nel resto del match.

Perché gente come Carlin, Juan e Takudzwa è gente che una storia da raccontare, un giorno, ce l’avrà.

Come quella volta che ho cambiato sport per sognare ancora un po’.

Come quando sono stato l’unico a segnare una meta all’Australia.

Come quando mi sono fumato Habana.

In attesa di tempi migliori è pur sempre un bell’accontentarsi.

Mi fumo un Habana e torno.