L’inizio dell’avventura

“Il Signore è il mio pastore, nulla manca ad ooogni atteeeeeesaaaa”. Il prete batte i polpastrelli su una tastiera che dire usurata è poco, manca anche qualche tasto. Lui sa suonare, dice. Lui sa cantare, dice. Obiezioni respinte, ma siamo una decina di quattordicenni e fra dieci minuti sta tortura finirà, lasciamo che la natura faccia il suo corso. Il prete continua nella sua audizione “In verdissimi parti mi passssie”. Dai che è quasi fatta. Triplice fischio, rompete le righe. Mai amato il catechismo il sabato, soprattutto mezz’ora dopo l’ultima campanella a scuola. Figuratevi se poi un vecchio prete si mette a insegnare vecchi canti in vista della messa del giorno dopo. Canti che puntualmente non vengono mai fatti, visto che il coro dei giovani ha tutt’altro repertorio. E poi c’è la partita. Tutti abbiamo la partita. La mia è diversa da quella degli altri, stavolta non servo a scaldare la panca, posso starmene a casa. Non è che mi piaccia particolarmente la cosa, ma a distanza di anni, con la voglia di giocare che seduceva e troppe volte abbandonava noi poveri panchinari, la “tribuna” o la mancata convocazione non erano poi così male. Saluto gli altri, me ne vado a casa. Relax, tv, nonostante sia febbraio e il sole stia anche facendo la sua discreta figura oggi. Ma è anche vero che non avrei con chi passare il tempo, tutti alla partita, e allora me ne sto tranquillo. Trovo una partita di rugby su Rai Tre, dicono evento da non perdere, si parla di prima volta assoluta della Nazionale.

16 anni dopo, giorno più giorno meno, posso dire che quel giorno non ci capii un cazzo. Italia-ScoziaindirettadalFlaminio, tutto attaccato, è stato l’inizio dell’avventura europea dell’Italia ovale. Certo, tutti gli anni ’90 avevano visto gli azzurri sfidare a più riprese le 5 grandi del rugby continentale: Inghilterra,  Scozia, Galles, Irlanda e Francia prima accettavano la sfida e poi mandavano squadre imbottite di riserve o di giovani, magari senza darci nemmeno la soddisfazione del cap. Poi alcune vittorie, sempre più rispetto accumulato in campo, infine il trionfo di Grenoble contro la Francia. Si, il 5 Nazioni si allarga, ci siamo anche noi. Solo che il 1999 per noi è una annata da dimenticare: a gennaio muore Ivan Francescato, forse il nostro giocatore più rappresentativo e decisivo insieme a Diego Dominguez, quel giocatore in grado di inventarsi qualsiasi cosa in campo. Poi una serie di lotte intestine, un tour terribile in Sudafrica e la cacciata di Georges Coste, vulcanico ct che ci aveva trascinato alle porte del rugby che conta. E poi, per finire, un Mondiale disastroso, tre sconfitte su tre, 101 punti dagli All Blacks, altri 67 dall’Inghilterra (che ad un certo punto si ferma) e poi Tonga. Se ne va anche Mascioletti, vice di Coste, arriva Brad Johnstone, ct neozelandese che aveva dato spettacolo con le Fiji al suddetto Mondiale. Con Johnstone di spettacolo ne vedremo poco, a dire il vero, visto che si attacca alla nostra mischia e la rende tra le più performanti dell’emisfero boreale. Fa debuttare alcune colonne azzurre come Andrea Lo Cicero e Salvatore Totò Perugini e cerca di gestire al meglio alcuni lasciti di Georges Coste. Tra tutti, la mediana. Troncon e Dominguez, l’unico reparto di livello internazionale rimasto, oltre alla prima linea. Diego ha già annunciato il ritiro al termine della stagione, ma ci ripenserà. È diventato un idolo anche in Francia, sponda Stade Français, dove è allenato da un ruvido sudafricano dalla lacrima facile che ha già portato il Sudafrica al record di vittorie consecutive e che qualche anno dopo passerà per l’Italia. Si chiama Nick Mallett, ma questa è un’altra storia. Anche Troncon è andato in Francia, a Clermont, ma nel 2002 tornerà a Treviso. Per grinta e fosforo è praticamente una terza linea aggiunta, cosa che permette a Diego di avere palloni il più delle volte puliti e pronti all’uso. Aggiungete la grinta dell’uno ed il sangue freddo dell’altro e avrete davanti una mediana invidiata da molti, almeno a livello europeo. Per il resto Johnstone al debutto si aggrappa ai veterani rimasti (Giovanelli, Checchinato, Massimo Cuttitta, De Carli, Stoica), al “sudafricano” Visser, al campione del mondo australiano Pini e ai giovani Gritti, Bergamasco e Paoletti.

Dall’altra parte c’è la Scozia che nel 1999 ha vinto l’ultimo 5 nazioni. 3 vittorie e una incompiuta a Twickenham contro l’Inghilterra di Jason Leonard. E di un giovane cecchino biondo, Jonny Wilkinson, schierato a secondo centro. Ne risentiremo parlare. Il XV del Cardo può contare su gente come Bulloch a tallonatore, su una coppia di seconde linee come Grimes (che passerà anche per Padova) e Murray, sul genio di Gregor Townsend all’apertura e su un cecchino come Logan all’ala. E poi Metcalfe e Redpath. E un ct santone come McGeechan, poi a più riprese selezionatore dei British & Irish Lions. Ai Mondiali sono usciti contro gli All Blacks, ma a testa altissima. Sono forti, fortissimi. E irriducibili, come ogni buon scozzese che si rispetti.

L’inizio del match è equilibrato, i nostri avanti sembrano poter sopraffare la mischia scozzese, ma commettiamo due falli abbastanza sciocchi. Sentiamo l’emozione, e ci mancherebbe. Logan ci grazia entrambe le volte, poi è Townsend a sbloccare il punteggio con un drop da 35 metri. Ci svegliamo, Dominguez centra i pali due volte, andiamo in vantaggio. Ma la prima vera ingenuità la paghiamo carissima: brutto passaggio scozzese, noi lo battezziamo in avanti e ci fermiamo. L’arbitro però non è dello stesso avviso e l’azione continua, con Bulloch che buca una difesa ferma. I tantissimi scozzesi scesi a Roma si fanno sentire, qualcuno agita il kilt, ma è presto. Dominguez punisce altre due volte gli scozzesi prima del riposo, siamo avanti 12 a 10, siamo più forti davanti e Dominguez è un Re Mida mica da ridere. Ma troppe volte si è vista l’Italia durare un’ora, poco più, e poi spegnersi. O partire piano e rimontare nella ripresa, come a Monigo due anni prima, sempre contro la Scozia. 25 a 21, con lo stadio di Treviso che quasi viene giù alla meta di Paolino Vaccari.

La ripresa parte con questo dubbio: “Quanto dureremo?”. Risponde il dottor Diego Dominguez da La Tablada, laureato in Teorie e Tecniche della Tomaia Educata: due drop e un piazzato in 13 minuti. Logan sbaglia altri due piazzati, andiamo in fuga, oltre il break. Townsend centra i pali una volta, ma gli scozzesi non ci capiscono più granché. Diego mette un altro drop e un altro piazzato, andiamo sul 27 a 13, due mete trasformate di vantaggio. La furia scozzese è palpabile, la partita diventa una lotta senza quartiere, l’Italia difende bene, benissimo, e qui dobbiamo prendere, alzarci e abbassare il cappello di fronte a Marco Rivaro da Genova, professione avvocato. Non lo conoscono in molti eh, ma è l’unico italiano ad avere mai giocato il Varsity Match tra Cambridge e Oxford. Centro dei London Irish, nei quali aveva cercato fortuna e che nei quali, per una serie di infortuni e casi della vita, riesce a ritagliarsi un posto in squadra. A fine carriera per lui ci saranno solo 4 caps in azzurro, ma contro una Scozia furente fa tutto quel che deve fare: tira due, tre, quattro placcaggi durissimi ai vari Metcalfe, Longstaff e Bulloch. Dicono si sia sentito il tonfo sordo dell’atterraggio fino in tribuna, da brividi. I palloni recuperati diventano tanti e Diego li rimanda di là, tante volte nei 22. Semplice e perfetto. E allo scadere arriva la ciliegina sulla torta: serie di avanzamenti nei 22 scozzesi, poi è Ciccio De Carli a far breccia ed andare oltre per la prima meta italiana al 6 Nazioni. Non è una storia qualunque, quella del pilone romano. È un pilone diverso da altri della sua generazione, molto più mobile. E veloce. Ad Aberhavon ancora si chiedono perché a Roma facessero giocare pilone un’ala. A Brad Johnstone ha dato disponibilità solo per questo incontro, poi volerà a prendersi cura del figlio adottivo. Perché essere uomini significa anche sacrificare le gioie, sportive e non, in nome di qualcosa di più grande. Dominguez trasforma. Non sappiamo se il buon Sandro Pertini fosse anche appassionato di rugby, ma qui un suo “Non ci prendono più” ci starebbe molto bene. Arriva una meta scozzese, la trasforma Chris Paterson, un altro di cui sentiremo parlare più avanti, ma non c’è più tempo. È trionfo azzurro, anche la principessa Anna, grande appassionata di rugby, se ne va con lo sguardo teso. Il Flaminio si riscopre azzurro, dopo la lunga “invasione” scozzese. Saranno ancora Dominguez (no, alla fine niente ritiro per lui nel 2000) e De Carli a farci vincere il successivo match del 6 Nazioni, ma solo nel 2003. Nel mezzo anni bui, un John Kirwan in più nel motore e una nuova generazione d’oro. Ma forse di tutto questo è meglio parlarne un’altra volta.

Quel giorno, 16 anni fa, spensi la televisione. Dura essere adolescenti e non capire un cazzo, ma te ne rendi conto sempre dopo. La passione per la palla ovale mi aveva detto, forse, per la prima volta “ciao”. Si sarebbe ripresentata più tardi, giusto per farmi capire che non sarebbe finita così, tra un “Il Signore è il mio pastore” e un “La messa è finita, andate in pace”.

No no, siamo solo all’inizio, fidatevi. E mettetevi comodi.

L’avventura è appena iniziata.

L’inizio dell’avventura

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