Giro di boa

Tempo di saluti a questo 2017, a cui mancano ancora poche ore di vita, poi passerà la palla pure lui ad un compagno più fresco e giovane, uno chiamato a fare grandi cose per il prossimi 365 giorni. E allora auguriamo buon anno alla nostra maniera, ma permetteteci un consiglio nella lettura delle prossime righe: mettetevi come sottofondo un classicone dei Pearl Jam, Wishlist, e perdonate se siamo troppo scontati.

Buon anno a chi ha spinto tutto l’anno, sempre in prima linea, scordandosi il motivo del suo agire ma non le sensazioni che ha provato.

Buon anno a chi ci ha provato, a chi ha messo la testa dove altri non avrebbero rischiato un piede.

Buon anno a chi si è visto venire addosso di tutto: palloni, avversari, badilate di fango, arbitri che sono umani e che perciò non vedono bene. Buon anno a chi ha retto e va ancora avanti, nonostante tutto.

Buon 2018 a quelli che sanno che punti e cicatrici bruciano, ma che fermarsi brucia ancora di più.

Buon anno a chi ha deciso di attaccare la linea e provarci, qualsiasi cosa abbia deciso di fare. E in qualsiasi modo sia andata, perché quando rischi di tuo rischi di farti male due volte.

Buon anno a chi si è rotto la faccia contro il muro, ben sapendo che il muro fa male, quando ci vai addosso.

Buon anno a chi è andato in meta, ma buon anno anche a chi il pallone è sfuggito proprio all’ultimo.

Buon 2018 a chi non si è visto, ma si è fatto sentire. Buon 2018 a chi ha capito che quelli che non si vedono è perché lavorano sottoterra, e allora una pacca sulle spalle, anche se non prevista, è sempre un qualcosa di dovuto e meritato.

Buon 2018 a chi ha passato la palla ed è andato a giocare in campi migliori. Buon 2018 a chi quella palla l’ha ricevuta e sa benissimo che sarà dura essere all’altezza, ma farà di tutto per non far rimpiangere l’altrui scelta.

Buon 2018 a chi ancora non ha capito, ma anche a chi ha capito male e sta ancora aspettando.

Infine, buon anno a tutti quelli che sanno che mancano poche ore al 2018. E solo un mese al Sei Nazioni.

“I wish I was as fortunate, as fortunate as me”

Giro di boa

Debutto

“Scaldati”. No, nessuna voce, nessun labiale. Ma vedi il ragazzino alzarsi dalla panca di legno e lamiera, fredda come solo del legno e della lamiera sanno essere a fine dicembre, e cominciare a corricchiare. Ricominciare, per la precisione, che lo stare seduti era solo una pausa. Calzamaglia pesante, maglia della tuta, berretto di lana. Pochi centimetri quadri di pelle regalati al vento freddo. Al di là della linea bianca imperversa la battaglia. Chili e chili da una parte, chili e chili dall’altra, placcaggi, botte, qualche sventagliata. Fiati corti e ben visibili, terreno ghiacciato, sangue rappreso su ginocchia e braccia. Il pallone ovale viaggia da una parte all’altra, sovente cade, si riparte da mischie su mischie. Il ragazzino si scalda. Vorrebbero scaldarsi tanto anche quelli che la partita la stanno guardando, lassù dalle seggioline di plastica e dai gradoni della tribuna. Hanno freddo in campo, pensatevi loro lì, fermi, appollaiati. Ogni tanto si alzano in piedi, si scuotono, restano in movimento. Come se fossero loro i prossimi ad entrare in campo, da un momento all’altro. Quello che si muove di più è Beppe, senza dubbio. È frenetico, nervoso, continua a scuotere le gambe, come a volerle sciogliere, come a voler dire che di lì a poco potrebbe dare il suo laggiù, nel rettangolo verde. No, quel tic ce l’ha sempre avuto. Non gli pesa il freddo, mai avuto grossi problemi col termometro basso. In tanti si girano a guardarlo, ma chi lo conosce sa che in quei momenti Beppe va lasciato stare. Va capito. Perché lo sente a chilometri di distanza che quel ragazzino si è alzato dalla panca. Lo ha sentito da dentro la Club House, ha appena scaricato il pane ancora caldo. Ad ogni partita interna ci pensa lui, fa gli straordinari, “Gli straordinari più belli del mondo”, dice lui. Stavolta si prende una pausa però, perché quel ragazzino se lo vuole proprio coccolare con gli occhi, come la prima volta che l’ostetrica glielo posò tra le braccia. Un quintale di uomo che si scioglie in lacrime non è spettacolo che si vede tutti i giorni, non ci sono confronti con trofei, vittorie o mischie ribaltate che tengano.

Quel ragazzino cresce bene, forte, ma senza il collo taurino del padre. Occhi azzurri e capelli biondi, e chi li ha mai visti per casa? Chi ha più confidenza lo prende bellamente per il culo, “quello non è figlio tuo” “è il figlio del postino”, etc. etc. Beppe ride, che non è permaloso, poi offre da bere al primo terzo tempo utile. Fino a quel marzo maledetto, a quel placcaggio perfetto, forse troppo. Fino a quando sotto le sue callose grinfie di terza linea d’annata non arrivò un ragazzetto un po’ troppo sbruffone. Veloce, velocissimo, ma con una lingua lunga che ve la regalo. È un finale al fotofinish tra madre, moglie e altre parentele meno strette. Beppe è fondamentalmente un buono, ma dopo 60 minuti al ragazzino scappa un rimbalzo della palla e lui gli è addosso. Il tempismo è perfetto, l’avversario ha appena messo le mani sull’ovale che già lo perde. Si rialza stordito, accusa il colpo. Finisce il match. Arrivano terzo tempo e ritorno alla quotidianità.

Qualche giorno dopo, però, arriva una raccomandata: è la notifica di una querela per lesioni, il padre del ragazzino ha colpito come chi ha profonda sete di vendetta. Si parla di trauma cranico. A Beppe cade il mondo addosso. In tribunale finisce a tarallucci e vino, Beppe si affida a Marco, suo ex mediano di apertura e avvocato che non ha perso la lucidità che aveva quando si trovava davanti i pali. Il padre del ragazzino sbraita, vuole addirittura il carcere. Ce ne sono di personaggi così, eh. Ironia della sorte, il giudice aveva le orecchie a cavolfiore. Pilone, qualche stagione e chilo fa. Archiviò il tutto, si chiese chi gli aveva portato davanti quel caso da poco. Poi ci fu solo la faccia del padre alla frase “se non vuole che suo figlio si faccia male c’è sempre il balletto”. Assolto, e che goduria. Solo che la notizia arriva subito al suo capo, in falegnameria. “Non ho scelta, Beppe”.

Cartellino rosso, licenziato.

Era lì dentro da 25 anni, li conosce tutti.

Li conosceva tutti.

Niente, bisogna reinventarsi a 40 anni. È dura ripartire da zero ad un’età in cui qualcosa dovresti già averla in mano. È dura tornare a casa la sera, sentire il bimbo piangere e trattenersi dal versare lacrime sul cuscino. Beppe è umano, non ce la fa. Piange per tutta la notte, non trova pace. In paese in tanti parlano del fattaccio, tutti dicono che Beppe ha ragione, nessuno fa niente. E allora tocca andar via, lavoro non ce n’è e non di sole belle parole può vivere un bimbo.

Il ragazzino, intanto, smette il berretto. Chioma bionda, di un disordine provvisorio e che ineluttabilmente tornerà nei ranghi. I garretti si muovono agili, Beppe li vede e si ricorda di quel giorno in cui tutto cambiò. Il piccoletto avrà avuto si e no 4 anni e sgambettava tra gli stand dell’autogrill. Difficile ricordare quale, sono quasi tutti uguali, soprattutto al nord, soprattutto se fuori imperversano autunno e nebbia, non necessariamente in quest’ordine. Suona il telefono, la brava e dolce Mary prosegue da sola la sua lieve caccia al piccoletto tra scaffali e improbabili confezioni regalo. Dall’altra parte del telefono una voce sconosciuta, quasi impercettibile nel casino di rustichelle e caffemacchiatiintazzagrandeconpannaaparte, tutto attaccato. Sanno tutto di lui, del suo dentro e fuori dal campo, dalla falegnameria e dal tribunale, che hanno un lavoretto umile per lui. Niente di che, ma tranquillo e sicuro. La voce rantola un indirizzo ed un orario, sono una cinquantina di chilometri di strade provinciali e comunali. Una faticaccia, vista la nebbia, ma o così o così. Il placcaggio di Mary intanto ha funzionato, il bimbo se ne sta buono tra le sue braccia, si parte subito. La coltre di nebbia è pesante, invalicabile, ma navigatore e un po’ di colpo d’occhio portano la macchina a riposare in un parcheggio distante dal centro. Centro, parliamone, è una frazione, saranno al massimo 2000 abitanti. L’indirizzo porta ad una minuscola panetteria. Cavolo, saranno le 4 del pomeriggio ma è bella piena. La famiglia entra, Beppe si annuncia, appare un vecchietto gentile ma dallo sguardo risoluto. “Vieni con me”. Non dice altro, poi si fa seguire, Beppe dietro a ruota. Vanno nel retro.

“Ragazzo, mi hanno detto che tu te ne intendi di legname, giusto?”

“Diciamo di si..cosa devo fare?”

“Ah, una cosetta tranquilla. Siamo tra i pochi che hanno ancora il forno a legna qui nei dintorni, io sono troppo vecchio per procurarmene di buona e i miei figli fanno altro. Ecco perché ho pensato a te. Te la senti, ragazzo?”

Beppe non se l’aspettava. Si è visto davanti falegnami con le mani nodose, piloni lanciati in velocità, aperture che placcano. Ha cambiato pannolini, diviso birre con sconosciuti in fredde notti nebbiose, ma mai si sarebbe aspettato che un vecchietto sorridente e con la voce lieve e grattugiata lo mettesse così alle corde. E senza apparente contatto. Ma accetta, diventa un dipendente de “La Casa del Pane” del signor Gabriele e non ci pensa troppo. Mai davanti, mai a contatto diretto con le siorette del paesino, che poi magari si spaventano e non fanno più la pasta al forno più buona del mondo. Dietro, tra legna, fuoco e levatacce a procurare materia prima buona. Impara anche ad impastare, il vecchietto lo prende con sé e gli insegna il mestiere, poco alla volta, ma il ragazzo impara in fretta.

Una mattina di dicembre suona il telefono. È lui.

“Ragazzo, ho una consegna da farti fare. Vieni al negozio. E porta il bimbo”.

Richiesta strana, che c’entra il bambino?

Ne parla anche a Mary, il bimbo ascolta e non sente più ragioni.

“Papà, voglio venire con te!”

Ciao, vince a mani basse. Il vecchio Giovanni li aspetta al solito parcheggio, un gran sacco a terra. “Porta tutto a questo indirizzo, ci vediamo domani”

“Domani? Signor Gabriele, il furgone glielo porto fra un’ora”

“Non preoccuparti, vai tranquillo e portami tutto domani”.

Il bimbo si mette la cintura e se ne sta lì, buono e tranquillo. Beppe si chiede spesso da chi abbia mai preso ‘sto ragazzino, visto che a 4 anni lui già vantava ginocchia sbucciate e gomiti scorticati ovunque. Poi arriva all’indirizzo.

Che strano, un campo sportivo. A chi lo porto il pane qua?

Scarica pane, bimbo e si avvia. Una volta gli avevano parlato di un bar dentro il campetto, magari il pane lo attendono lì. Si, ma cavolo, sono le 6 di sera, chi vuole pane fresco a quest’ora? Poi legge due parole.

Club House.

Poi nota i pali. E quelli che ci giocano sotto.

Cuore in ghiaccio.

“Tu devi essere Beppe! Benvenuto!”

Beppe non parla più, non capisce più nulla. Vorrebbe anche dire qualcosa, ma provateci voi a dire qualcosa, poi recapitate la vostra risposta qui.

“Sono Giovanni, vieni con me. Posa pure il pane, poi gli spogliatoi sono lì fuori, in fondo a destra”

“Sp-spogliatoi?”

“Si, Gabriele non ti ha detto niente? Prova a guardare nel retro del furgone”. Poi dà un buffetto al piccoletto. “Dovrebbe esserci qualcosa anche per il piloncino”

Beppe apre il portellone. Dietro ad un sacco vuoto non aveva notato due borsoni, uno grande e uno piccolo. Riforniti di tutto punto.

“Il signor Gabriele è nostro sponsor, quando ha saputo di te e della tua storia ci ha avvisato subito e ci ha chiesto informazioni. Oh, di te si è parlato e anche parecchio. Certo che ce ne vuole di culo per trovarsi il giudice pilone eh?” Fa l’occhiolino, poi prepara due birre. “Dai, beviamo, appoggia qui e vai a cambiarti, al piccolino ci pensiamo noi”.

Beppe non lo ammetterà mai, ma c’è chi giura e spergiura che quella notte abbia lasciato il cuscino umido di lacrime. Trova nuovi amici, nuovi compagni di birra, diventa proprietario de “La Casa del Pane” quando il buon Gabriele dispiega le ali verso la pensione.

Il bimbo intanto ha messo il caschetto. Al di là della linea bianca imperversa la battaglia. Chili e chili da una parte, chili e chili dall’altra, placcaggi, botte.

Il biondino si è fatto strada in allenamento, ora è giusto che inizi le sue battaglie.

Giovanni lo ha visto crescere, poi è andato da Beppe: “Oh, il tuo ragazzino non sarà un killer come te, ma ha due mani e due piedi che cantano. Io te lo dico, questo fa strada”.

Beppe sorrise. E sorride ancora, il suo piccolino sta entrando in campo.

È sabato 24 dicembre, il rugby (forse) ha una nuova stella.

Beppe lo sa, vede sugli spalti la sua Mary, entrambi sorridono.

Il bimbetto, biondo sotto il caschetto alla Larkham, entra in campo. In tanti non se ne accorgono, qualcuno gli dà una pacca sulle spalle, qualcuno si raccomanda. Qualcuno ha già capito cosa gli aspetta e cosa succederà, se qualcuno dovesse crederci fino in fondo.

Dicono avrà futuro, dicono potrebbe cambiare tutto. Dicono che uno così poi non l’hanno più visto, altri giurano che un giorno tornerà a sciogliersi un po’ ai bordi di quel campo. Non è dato saperlo.

 

Forse questa storia l’avete già sentita da qualche parte, scritta e raccontata  con parole migliori di queste.

Forse può essere capitata, a voi o a chi avete la fortuna di conoscere.

Forse anche voi siete in giro nella nebbia a cercare qualcosa, o qualcuno, che dia speranza ancora, sotto forma di lavoro, di una birra o di una serata tra risate e schiamazzi. Di una donna, due donne, quante ne volete. Del sorriso dei vostri figli.

E se non l’avete ancora, questo qualcosa, vi auguriamo di trovarlo, prima o poi.

 

Buon Natale a tutti.

Debutto

Cavalieriade

Ogni 9 ottobre, dal 2010 in poi, un ragazzo entra in un Irish Pub. Fidatevi, l’introduzione è importante. Entra e ordina una Guinness. Pinta, ovviamente, le birre piccole tendono all’immoralità. Affronta il bicchiere, sorso dopo sorso, e comincia a ricordare. Qualunque futuro tu abbia in mente, qualsiasi presente tu stia vivendo, in fondo ad un bicchiere di birra c’è sempre un bel ricordo da far riaffiorare. Amori, vite passate, cazzate con gli amici. E sport, tanto sport. C’è chi l’ha visto e vissuto comodamente dalla tv e chi non ha mai potuto fare a meno di entrare in campo e dire la sua. Il ragazzo di cui sopra, ogni 9 ottobre, brinda, armato di Guinness. Brinda a quel dolce pomeriggio di autunno, già segnato eppure ancora tutto da scrivere. Di un 9 ottobre 2010 mai più ripetuto a quei livelli, ma sempre abbastanza in alto nella lista di cose da ricordare se hai visto sfrecciare e messo mano su una palla ovale, qualche volta. Di una squadra italiana che per varie vicissitudini non si ripeterà più in Europa, ma la cui Prima, pur se non rappresentabile per motivi logistici alla Scala, avrebbe meritato palcoscenici simili. Superiori a quelli del Top 10, calcati con buon profitto a partire dal 2009. Una prima stagione brillante, con una mediana di livello superiore (Ugo Gori-Kris Burton), George Biagi in seconda linea, il capitano-allenatore Andrea De Rossi e una batteria di stranieri di ottimo livello: Justin Purll e Cameron Treloar, australiani, e Winston Churchill Mafi, centro tongano con un passato nei Waratahs. Arrivano tutti da Calvisano, arresasi in semifinale al Viadana e a una situazione economica non più sostenibile. Prato è una piazza rugbistica giovane e ambiziosa, nel 2010 arriva quinta in campionato e si guadagna la qualificazione alla Challenge Cup edizione 2010-2011. Il mercato estivo chiama, i migliori vengono ceduti a Treviso e Aironi, i due australiani trovano un contratto migliore in Francia. Restano parecchi ragazzi italiani, Mafi il tongano, Clemens von Grumbkow, fortissimo centro tedesco, e Rima Wakarua, cecchino azzurro dell’era Kirwan. Contro Connacht, Harlequins e Bayonne non possono bastare. Non basterebbe una squadra nuova,a dirla tutta, ma due o tre rinforzi bisogna portarseli a casa. I Cavalieri sistemano la mischia con Wouter Moore, gigantesca seconda linea dei Lions sudafricani, con Noah Soqeta, numero 8 di Southland e con Gabriel Bocca, pilone argentino dei London Wasps. La mediana viene rafforzata con l’arrivo del neozelandese Billy Ngawini, praticamente un Brendan Williams spostato all’apertura. Ecco, diciamo che definire questo giocatore un numero 10 atipico è quantomeno riduttivo: Ngawini ha fatto tutte le trafile del Seven e del League, ha una capacità quasi irritante di battere sul tempo il primo avversario, può giocare in qualsiasi ruolo dei trequarti, ma se vuoi dar ritmo a una squadra giovane, beh, incollargli il numero 10 sulle spalle è veramente cosa buona e giusta. Giovane, già. Sono tanti i “ragazzini” tra i Cavalieri: ci sono alcuni reduci della Nazionale under 20 come Rodwell, Majstorovic, Belardo e Petillo, i prodotti del vivaio come Niccolò Tempestini, il capitano Lorenzo Giovanchelli, Alessandro Lunardi. A livello italiano la squadra è tra le grandi pretendenti ai playoff, stante il passaggio di Treviso e Viadana, ora Aironi, in Pro12. A livello europeo si punta più che altro all’effetto sorpresa, visto che la differenza di cilindrata è veramente notevole. Prendete Connacht, per esempio. Gli irlandesi devono tenere a battesimo i toscani e sono visti in patria come una realtà di sviluppo dei giovani. Sì, sviluppo, certo, ma gente come Ian Keatley, John Muldoon e Brett Wilkinson da noi non l’ha mai vista nessuno. Troy Nathan e Miah Nikora, due habitué della maglia titolare pur senza essere necessariamente due messia al di là della Manica, quando arriveranno in Italia sposteranno parecchi equilibri. A questo si aggiunge l’infortunio alla spalla di Ngawini, talmente serio da dover ricorrere di nuovo al mercato. I dirigenti individuano il sostituto in Edward Lewis-Pratt, ventiduenne inglese dei London Welsh. Ecco, non proprio London Welsh, laggiù non lo hanno rinnovato. Il ragazzino sta giocando a Rosslyn Park, nella National Division One, la terza serie inglese, ma è più conosciuto per essere un fratello d’arte, visto che Cristian Lewis-Pratt è una stellina del Seven inglese. E amico d’arte, visto che è uno dei migliori compagni di sbronze di Danny Cipriani. A Prato si dà da fare, prova ad entrare in sintonia col gruppo. È parecchio estroverso, pure un po’ pazzo, la cosa non guasta. Ma al debutto in campionato contro Venezia, come da palmarés, non è che brilli molto: sta profondo, piatto, non attacca la linea. I calci sono perlopiù discutibili. Per carità, nessuno si aspetta di pescare un Jonny Wilkinson nella lotteria che è il mercato a settembre, ma il ragazzo ha tutti i crismi del giocatore mediocre. Dalla seconda giornata di campionato in regia si sposta Wakarua, con Majstorovic e Chiesa ad alternarsi ad estremo. Al ritorno di Ngawini Ed lascerà Prato, poi abbandonerà presto il mondo del rugby. Organizzerà la serata de I Cavalieri quando circa dodici mesi dopo i toscani giocheranno contro London Welsh, ma questa è un’altra storia. No, non è cosa, Connacht sembra veramente di un altro pianeta. La differenza è parecchio marcata, alcuni sperano di non prendere più di 40, forse 50 punti. Di segnare una meta.  Qualcuno si appella al calore del Lungo Bisenzio, lo stadio del calcio di Prato che ospiterà la partita. Altri, invece, si danno da fare. Prendete Andrea De Rossi, per esempio, coach de I Cavalieri ed ex colonna della squadra. Insieme a Fabio Gaetaniello, suo pari ruolo, contatta Gianluca Guidi, allenatore della nazionale A italiana e possessore di molti dati riguardanti il Connacht e altre squadre celtiche. Guidi viene ad allenare I Cavalieri per qualche seduta. Mostra più volte il derby tra Connacht e Ulster, di scena il 25 settembre a Galway. Keatley e soci non giocano un rugby molto vario: in attacco la squadra procede sempre nel senso, i cambi di fronte li decide solamente, a volte, la linea di fallo laterale. A questo Guidi fa capire un’altra cosa: gli irlandesi soffrono le fasi di non possesso. Quindi quell’ovale bisogna tenerselo in mano.

Nasconderlo, il più possibile.

E fare in modo di rimanere in partita il più possibile. Poi si vedrà.

Solo che quando la palla ovale decide di rimbalzare come vuole lei non c’è nulla da fare: la settimana del match inizia con l’infortunio di von Grumbkow. Non è un bel viatico, ma purtroppo non finisce qui: nel captain’s run, a formazione già annunciata, si ferma Mafi. E questo sì che è un brutto colpo, e non solo perché il tongano è uno dei pochi ad avere una discreta esperienza internazionale: De Rossi e Gaetaniello mettono a centro Majstorovic e il giovane Rodwell, con Tempestini e Vezzosi ali e Wakarua estremo. All’apertura va Chiesa, che sarebbe un centro, al suo fianco Patelli. Poi Soqeta, Cristiano, e Petillo terze linee, Moore e Beccaris seconde, Poloni e Bocca piloni, capitan Giovanchelli tallonatore. In panca, tra gli altri, Lewis-Pratt. La coperta è corta, serve un uomo in grado di giocare in regia. La consegna delle maglie è un momento toccante, in tanti sono al limite della commozione.

Alcuni sanno che momenti del genere capitano una volta nella vita, li vivono a tutta, non lesinando sulle emozioni.

Poi si scende in campo, tutti con la maglia viola.

Viola.

A Prato.

Ecco, se c’è una cosa con cui in Toscana non si può troppo scherzare è proprio l’arte del campanilismo. E portare a Prato una maglia viola, colore storicamente legato alla Fiorentina, non deve essere stato il massimo della vita.

Il match comincia con I Cavalieri che tengono palla il più possibile, nonostante Poloni tenti un calcetto a scavalcare nelle prime battute del match. Il Connacht è più forte, si vede, Keatley segna dalla piazzola e con una meta, ma fa l’errore di non accelerare. Wakarua accorcia, poi Keatley allunga per il 13 a 3 con il quale si chiudono i primi quaranta minuti. La ripresa inizia malissimo, con Upton che schiaccia a terra il 18 a 3. Nella storia del rugby italiano in Europa sono tantissime le partite spezzate dall’accelerata avversaria ad inizio ripresa. Tantissime. Il Lungo Bisenzio, per quanto caloroso ed encomiabile possa essere, non può fare il miracolo, né i rudimenti di Guidi possono poi molto, se le forze in campo sono impari. I padroni di casa hanno il fiatone, Connacht sembra poter chiudere il match da un momento all’altro.

Tra i padroni di casa non ce la fa Rodwell.

De Rossi guarda in panchina, chiama l’inglese.

Chiesa passa a centro, Lewis-Pratt si mette nella stanza dei bottoni.

Non è il migliore dei mondi possibili, lo sappiamo. Lo sa pure chi l’ha visto, timido e impacciato, contro Venezia. Solo che l’inglese entra in campo con l’incoscienza di chi non ha nulla da perdere. Con la pazzia che di solito lo accompagna fuori dal campo: al primo pallone attacca la linea, crea la superiorità al largo e passa. Nell’intervallo si buttano in due, Chiesa e Tempestini. Il primo va un po’ troppo in anticipo, il secondo cattura il pallone e si invola in meta. No, non deve essere male farsi la trafila delle giovanili, giocare in prima squadra e segnare una meta europea per la squadra della tua città.

Wakarua trasforma, 10 a 18.

Non se l’aspettava nessuno. Vuoi vedere che il punto di rottura del match, il tanto temuto momento in cui gli avversari scappano definitivamente, questa volta l’hanno firmato i padroni di casa?

Difficile da pensare, eh.

Sta di fatto però che I Cavalieri prendono coraggio, gettano il cuore oltre l’ostacolo. Gli irlandesi cominciano a capire che forse era il caso di chiuderla prima, la partita. E se resti a mezzo gas per la maggior parte del tempo è difficile poi cambiar marcia senza grossi problemi.

I toscani saranno pure alla prima esperienza, ma capiscono l’andazzo.

Si attaccano alle fasi statiche e mettono pressione con due piazzati di Wakarua, 16 a 18.

Keatley allunga ancora, 16 a 21.

Il Lungo Bisenzio è diviso: c’è chi quel match ora lo vorrebbe portare a casa, c’è chi si accontenterebbe benissimo del punto di bonus. Oh, alla fine mancano dieci minuti, con i chiari di luna europei un punto contro quei mostri è cosa da raccontare ai nipoti. Nel dubbio, lo stadio si fa sentire.

Connacht, invece, il match lo vuole chiudere a tutti i costi. La trasferta italiana era segnata col circoletto rosso, dovevano essere cinque punti belli e abbordabili.

Non volevano vincere, volevano stravincere. Solo che non si passa.

Qualcuno deve aver insegnato ai toscani come si difende contro di loro.

E allora forzano, gli atlantici, cercano lo spazio al largo. Due mete in dieci minuti non sono cosa impossibile.

Azzardano i passaggi.

E li sbagliano.

Uno di questi lo prende Wouter Moore, che peserà pure 120 chili, che sarà pure un lungagnone di 2 metri e 04, ma si fa 50 metri senza nessuno che sia in grado di prenderlo. Wakarua trasforma, è sorpasso.

Mancano due minuti. Il Lungo Bisenzio diventa una bolgia, tanto per far capire che un loro corregionale aveva già illustrato secoli fa, in una opera di discreta rilevanza mondiale, cosa fosse l’inferno. Due minuti sanno ghiacciare come nessun’altra sostanza, quando vuoi che scorrano veloci. Connacht accelera, erode il terreno. Due punti di ritardo, però, permette loro di non essere completamente fuori dai gangheri, concede loro il raziocinio per cercare un calcio di punizione da spedire tra i pali. Sì, ma per avere un calcio bisogna che I Cavalieri facciano fallo, e nessuno ha intenzione di farlo. Sono attimi che buttano fuori tutta l’essenza del rugby, tutta l’essenza della lotta uomo contro uomo, tutto il valore dei centimetri. Connacht avanza lentamente, i padroni di casa non concedono nulla alla disciplina.

Poi Murphy, mediano di mischia del Connacht, si guarda intorno e trova Keatley pronto per il drop.

È l’extrema ratio per gli irlandesi.

L’ovale è ben frustato, la parabola è di quelle buone, ma il calcio si infrange sul palo.

Lo stadio tira un sospiro di sollievo, poi esulta.

Se pure l’ultima cartuccia non è stata sufficiente vuol dire che è fatta.

Pino Patelli, il primo a impossessarsi del pallone, calcia fuori.

Sì, ma l’arbitro mica ha fischiato la fine, è touche irlandese.

E via, ancora alla mano. Ma ancora tutti nel senso, con i padroni di casa sfiancati sì, ma ordinati quanto basta. Poi Majstorovic mette le mani in un raggruppamento, l’ultimo degli irlandesi si è isolato.

L’arbitro fischia, è finita.

Prato, tutta la città di Prato, fa festa fino a tardi.

I Cavalieri festeggiano la vittoria, incrociano nella notte i tifosi irlandesi in gita, vincono alcuni giri di birra, ma più che vinti sono guadagnati. Portati a casa con merito da una squadra sì inferiore, ma mai fuori dalla partita. Da un gruppo di ragazzini con denominazione di origine controllata e pure protetta, da una batteria di stranieri magari non di altissimo profilo ma battaglieri e cattivi come la peste. Da un inglese pazzo che forse non sapeva neppure cosa stesse facendo, ma l’ha fatto di un bene..

Il 9 ottobre del 2010 molti tifosi ovali, irlandesi e non, di stanza a Prato ma anche no, hanno offerto qualche pinta ai Cavalieri. Vera e schiumante, ma anche virtuale. Tutte meritate. E da quel 9 di ottobre, ogni anno, un ragazzo entra in un Irish Pub. Entra e ordina una Guinness. Pinta, ovviamente, le birre piccole tendono all’immoralità. Il ragazzo, che di nome fa Niccolò e di cognome fa Tempestini, affronta il bicchiere, sorso dopo sorso. Brinda a quel dolce pomeriggio di autunno, già segnato eppure ancora tutto da scrivere. A un 9 ottobre 2010 mai più ripetuto a quei livelli, ma sempre abbastanza in alto nella lista di cose da ricordare se hai visto sfrecciare e messo mano su una palla ovale, qualche volta. A una meta, la prima di un pratese doc in Europa, immortalata di striscio dai fotografi. A quei Cavalieri che come squadra non sono più lì in alto, ma che forse un giorno torneranno a sognare.

Poi sorride.

La primavera, a ottobre, sa essere più vicina di qualche raggio di sole.

Cheers, Niccolò. Cheers, Cavalieri.

 

Grazie a Niccolò Tempestini, senza il quale questa storia non avrebbe mai potuto vedere la luce.

Cavalieriade

I talenti (sprecati) di Big Gav

Due Sei Nazioni vinti con tanto di Grande Slam, 130 punti in Nazionale in 33 presenze, un Tour dei British & Irish Lions, più di mille punti segnati in carriera pur non essendo quasi mai stato il calciatore designato delle squadre in cui ha militato. Numeri spicci, nudi e crudi per cui chiunque abbia mai litigato con il rimbalzo di una palla ovale metterebbe la firma. Solo che se dovessimo dar retta alla vecchia cara parabola biblica dei talenti, il signor possessore della carriera descritta dovrebbe finire nelle tenebre, tra pianto e stridore di denti. Perché qui si parla di un giocatore baciato dal talento, da tanto talento. Forte, fortissimo, incontenibile. Bello, avventuroso, ribaldo, con un grande futuro davanti, uno che piace, a tutti e a tutte.

E si piace.

Forse troppo.

A 35 anni il ragazzo si batte ancora sul campo, forse più di quanto mai fatto, ma forse sta imparando a sopravvivere in assenza di una grazia che a lungo l’ha sostenuto, anche accantonata tra una bottiglia e qualche serata finita tra le braccia di una qualche Venere provvisoria. E chi lo guarda ha due scelte: la prima è sminuire la sua carriera “che poi tanto non era tutto sto granché”, ma questo lo si lascia fare a chi, forse, il rugby l’ha solo visto da distante, tra la pubblicità dell’adesivo per dentiere e qualche coltello miracoloso. La seconda è incazzarsi, anche un bel po’, perché il talento non è una cosa da sprecare, né da accantonare. Qui da queste parti ci si incazza, con Gavin Henson.

La pasta del ragazzo è buona davvero: nel 2001 è eletto miglior giocatore under 19 del mondo e debutta in Nazionale Maggiore. Certo, non è il Galles migliore, tanti titolari sono in Australia con i Lions, ma il ragazzino ha attirato le attenzioni di un certo Graham Henry, uno che negli ultimi 25 anni ha fatto molti favori alla palla ovale che conta. Il coach neozelandese nel 2001 è l’allenatore del Galles, preso in mano nel 1998 dopo che in Sudafrica si era assistita alla più grossa ecatombe di una Nazionale con le Tre Piume stampate sul petto in giro per il mondo, 96 a 13. Henry a quelle latitudini diventerà molto presto “The Redeemer Coach”, riportando la sua creatura a livelli più consoni. Il giovane Henson a settembre debutta anche da titolare, mediano di apertura contro la Romania. Il ragazzino è ancora acerbo, gli viene tolta anche la pressione dei calci, ma fa vedere che un giorno su di lui si può lavorare. Si fa tutta la trafila della Nazionale A, segnando anche i primi punti, nel frattempo gioca a Swansea e, nel 2003, fa il suo esordio con gli Ospreys. Henson è consistente, sa far tutto: ha appoggi meravigliosi, in corsa sembra non vada neanche a tutta e invece ha già seminato avversari come Tomba usava fare a Schladming e dintorni.

Angoli di corsa? Non ne parliamo.

Può giocare apertura, centro o estremo. Piede devastante, ogni volta sono sberle da 50 e passa metri. E piazza, soprattutto dalla distanza. E chi lo tiene uno così? Ritorna in Nazionale, ma per il Mondiale coach Steve Hansen sceglie altri.

Steve Hansen è QUEL Steve Hansen, ma l’aria britannica non deve avergli giovato molto, se a quel Mondiale rinuncia in un primo momento a un certo Shane Williams. Si rifarà, oh se si rifarà, ma questa è un’altra storia.

Nel 2004 l’esplosione e, cosa più importante, la considerazione internazionale. Il nuovo allenatore, Mike Ruddock, lo schiera fisso a primo centro, dopo averlo provato anche da estremo in estate. Contro il Sudafrica il Galles va in affanno nella prima mezz’ora, poi si sveglia, ma perde 38 a 36, togliendosi la soddisfazione di “mangiarsi” la mischia avversaria nel finale. Gavin segna le sue due prime mete internazionali. La prima è da rivedere tutte le volte che non riuscite a capire cosa sia la “vista periferica”: a 5 metri dalla linea di meta riceve palla da Stephen Jones, cambia angolo, rompe un placcaggio. È questione di centesimi di secondo: vede, o forse sente, arrivare un placcaggio disperato, frena nello spazio di una moneta da un euro, evita e schiaccia.

Avete letto tutto?

Ecco. Lui, a farlo, ci ha messo meno.

Contro il Giappone fa il suo record di punti in Nazionale, 28, frutto di 14 trasformazioni, poi arrivano gli All Blacks. Il Galles dà spettacolo e a lungo costringe gli avversari ad inseguire, poi però Joe Rokocoko e Kevin Mealamu prendono per mano tutti gli altri e passano avanti. Henson segna due piazzati, uno dalla distanza, ma si perde lo stesso 25 a 26. Per il 6 Nazioni ci sono anche loro.

Il debutto, sulla carta, è da brividi, al Millennium contro l’Inghilterra di coach Andy Robinson, che piano piano sta riuscendo a sostituire le vecchie glorie del Mondiale 2003. Ha trovato anche un numero 10 di ottimo livello, Charlie Hodgson, per provare a sostituire il divino Jonny Wilkinson, che proprio non riesce ad uscire dall’infermeria. Robinson al Millennium fa debuttare un ragazzino di 19 anni appena compiuti, Mathew Tait, stella del Seven e di Newcastle, e lo mette a secondo centro. Il ragazzino è veramente forte, proverà pure a farsi vedere, ma non ha fatto i conti con Gavin Henson: due volte punta il piede per andare all’interno, due volte Big Gav lo prende e se lo porta in giostra. Già, perché abbiamo parlato di appoggi, piede, velocità, ma Henson è mostruoso anche in difesa: placca, eccome se placca. Al Millennium apre le danze la meta di Martyn Williams, uno che se fosse nato al di qua delle Alpi faresti carte false per poterlo clonare: è una terza linea mostruosa per gambe e corsa, ma nel dubbio lo metteresti pure dietro, magari a centro, magari vita natural durante. Williams ha cambio di passo e direzione, usa nel caso anche il piede, è vtra le più veloci terze linee al mondo. Placcaggio terminale di serie. Sarà il giocatore del torneo. Hodgson risponde con tre piazzati, la partita è dura, durissima. A 5 dal termine c’è un calcio per il Galles da metà campo, saranno 52-53 metri,  in diagonale.

Dalla distanza va Henson.

Rincorsa ingobbita, il suo marchio di fabbrica, pallone alto e in mezzo ai pali.

Finisce 11 a 9, è il trampolino di lancio, sia fisico che morale, per il Grande Slam. Gli uomini di Ruddock infatti passeggiano in Italia e Scozia, espugnano Parigi con i drop di Henson e Stephen Jones e battono senza mezze misure l’Irlanda nell’ultimo incontro. È una squadra di fenomeni, dal già citato Martyn Williams a Stephen Jones e Shane Williams, da Dwayne Peel all’estremo Kevin Morgan, passando per Gareth Thomas. Passando, per forza, per Gavin Henson.

È il preludio per un Tour dei Lions in Nuova Zelanda che si prospetta spettacolare.

Ecco, beh, non proprio.

A selezionare gli uomini da Inghilterra, Irlanda, Galles e Scozia è Clive Woodward, che però non sembra aver guardato molto rugby in primavera. Fioccano le convocazioni inglesi, anche di giocatori palesemente fuori forma o comunque meno performanti di altri. I Lions vincono tutti gli incontri di metà settimana, quelli contro le franchigie, ma perdono i tre Test contro gli All Blacks e il match contro i Maori All Blacks. Gavin Henson subisce un paio di infortuni che ne limitano l’utilizzo: segnerà due mete contro Southland e prenderà il cap nel secondo Test contro i neozelandesi. È il giorno del Daniel Carter Show, 33 punti su 48 totali, 2 mete, 4 trasformazioni e 5 piazzati, ciao Lions. E ciao Gavin Henson, che vedrà la Nazionale solo nel Sei Nazioni successivo, ma che per un paio di anni non si riproporrà più agli stessi livelli. Nel 2007 non verrà convocato per la Coppa del Mondo, all’ultimo gli verrà preferito Gareth Thomas, ma Warren Gatland, nuovo ct gallese, lo vorrà per il Sei Nazioni 2008. Il ragazzo è forse al massimo delle sue potenzialità, e anche quel Galles fa paura: arriva un altro Grande Slam, con tanto di vittoria in rimonta a Twickenham nella prima giornata.

Il ragazzo è all’apice della carriera, qualcuno lo paragona, per talento e forza, a Brian O’Driscoll, già compagno di stanza nel tour dei Lions. Sono giocatori diversi, ma a livello di talento puro lo scontro è pari.

Piace a tutti e a tutte.

E si piace, anche un bel po’.

È proprio il grande O’Driscoll a raccontare di come una mattina, in Nuova Zelanda, il suo compagno di stanza Gav abbia occupato il bagno per 3 ore, uscendone completamente depilato e sbarbato, profumato all’inverosimile. Ed è il compagno di Nazionale Dwayne Peel a parlare di quando saltò un allenamento chiave in Nazionale per andare a farsi una lampada. Per poi dover subentrare a sorpresa contro l’Irlanda e non conoscere le chiamate. O di come sia abituato a massaggiarsi le gambe con una nota marca di acqua minerale francese. Certo, sono vizi che un campione può sostenere, a patto di garantire sempre il massimo in campo. Ma tutto ciò non succede, o almeno, non sempre. Nel 2009 Henson si prende un anno sabbatico per viaggiare un po’. Comincia anche la sua carriera televisiva, tra una specie di “Ballando con le Stelle” ed un reality in cui deve arrivare da solo a Capo Nord. Diventa un habitué delle pagine di gossip, che è sempre un bel ragazzo, lascia e si lascia andare. Dà una ritoccata alla sua vita personale, mettiamola così. Poi forse si rende conto che il rugby qualcosa gli aveva dato, e allora torna a giocare: se ne va dagli Ospreys e passa ai Saracens, ma la forma è quello che è e la dirigenza rescinde dopo pochi mesi. Lo prende il Tolone, ma una sera al pub si azzuffa con Matt Henjack, mediano di mischia. Il presidente, Mourad Boudjellal, lo sospende per un po’ e non gli rinnova il contratto a fine stagione. Il 13 agosto 2011 contro l’Inghilterra si gioca comunque un posto ai Mondiali, ma si infortuna ad un braccio e deve abbandonare i suoi sogni. Rob Howley, assistente di Gatland, lo chiamerà per dirgli che senza l’infortunio l’avrebbero anche preso. Ve lo immaginate cosa avrebbe fatto un Henson in discreta forma con QUEL Galles ai Mondiali?

Passa ai Cardiff Blues, ma di ritorno da una trasferta in aereo esagera ancora una volta con l’alcool e prende troppe confidenze con una hostess, il contratto viene rescisso seduta stante. A fine stagione viene acquistato dai London Welsh, squadra neopromossa in Premiership, poi passa a Bath, dove sembra tornare ai vecchi livelli di un tempo. Trova il tempo di farsi atterrare da Carl Fearns, suo compagno d squadra, al pub. A gennaio 2015, non trovando molto spazio, decide di passare al Bristol, in Championship. Big Gav vuole giocare di più, vuole la Nazionale e vuole il Mondiale a cui non ha mai partecipato. Ma anche questa volta deve rinunciare: in uno scontro di gioco si rompe la tibia e deve abbandonare il campo.

Il ragazzo lotta ancora, da settembre è a Newport a fare da stella cometa per i Dragons. A 35 anni forse non è più il ragazzo guascone e sopra le righe che per troppo tempo ha tenuto banco. Forse è maturato, forse no. Gli anni d’oro con la maglia numero 12 del Galles restano nei cuori di tanti, ma il tempo fa brutti scherzi e fa girare avanti le lancette dell’orologio anche se non lo vogliamo. C’è chi si fa sempre trovar pronto, chi meno. C’è chi sta sempre sul pezzo e chi viene sorpreso a fare anche dell’altro. C’è chi sputa polmoni e sangue per avere una possibilità e chi le butta via, una dopo l’altra, per un motivo o per l’altro. C’è chi festeggia per un cap in Nazionale e c’è chi ha fatto due Grandi Slam e ancora ha il motore ingolfato delle Ferrari prese per andare a fare la spesa due isolati più in là.

Due Sei Nazioni vinti con tanto di Grande Slam, 130 punti in Nazionale in 33 presenze, un Tour dei British & Irish Lions, più di mille punti segnati in carriera pur non essendo calciatore designato. Avesse avuto un’altra testa forse non sapremmo chi è Brian O’Driscoll, o forse ne sarebbe venuto fuori un duello di quelli generazionali, non solo a livello sportivo: Coppi-Bartali, Merckx-Gimondi, Beatles-Stones, Agassi-Sampras, O’Driscoll-Henson.

E invece no.

Gavin Henson è stato una cometa luminosissima, più di tante altre, di quelle che passano solo una volta ogni tanto ma di cui conservi sempre il ricordo. Ma ha deciso che un cielo solo, quello ovale, non era sufficiente. Ha ballato, bevuto, scopato, viaggiato. Un giorno ha messo il rugby da qualche parte, tra una bottiglia, una scazzottata, un reality e qualche Venere di una notte soltanto, come si fa con certe fotografie di quando eravamo più giovani e credevamo di avere il mondo in mano, quelle che un giorno riponi in un cassetto con la promessa di passare a riviverle il prima possibile.

Di quelle che ogni volta che le rivedi ti incazzi e ti chiedi perché non sei rimasto così.

Perché con Gavin Henson, e con quelli che cincischiano col proprio talento, ci si può incazzare, almeno per un po’.

I talenti (sprecati) di Big Gav

“Hoy les ganamos”

“Mira la cara de miedo de estos pibes, están petrificados. Hoy le ganamos”.

Agustín Pichot ha 33 anni, lunghi capelli fluenti e sta per intraprendere la sua quarta Coppa del Mondo. Per dire, lui c’era quando Diego Dominguez chiamò la palla nella sua lingua madre e marcò la meta più avvolta nel mistero della nostra storia ovale. Pichot conosce benissimo ogni centimetro dello stadio, gioca in Francia dal 2003, ci giocherà fino al 2009, i ciuffi d’erba di quello stadio non hanno segreti per lui. Li ha sognati, li ha vissuti. Ha sognato pure gli spogliatoi, forse si è ripetuto più volte, tra sé e sé, le parole e le frasi giuste da dire ai suoi compagni. È il capitano designato della squadra, ma non lo noti solo dalla fascia al braccio o dall’autorizzazione a parlare con l’arbitro. No, non è solo questo. Ha in mano idealmente i cuori di tutti i suoi compagni, dal più giovane al più vecchio. Tra questi ultimi, tra quelli che le cicatrici se le portano a spasso da un po’, c’è Mario Ledesma, tallonatore di Clermont e veterano di tre Coppe. Ha solamente un anno in più di Pichot, ma saranno i capelli radi, quella faccia cotta dalle collisioni delle prime linee o la bocca sottile e tirata come la corda di un violino, ma gliene daresti una decina in più. Pichot ha appena visto i francesi uscire dal loro spogliatoio, sono davanti a lui. Si gira verso Ledesma. Li conoscono bene, tanti sono loro compagni di squadra, qualcuno lo affrontano da anni. Non sono i soliti francesi, non sono quelli che si aspettano. Sono duri, rigidi. Non si parlano. “Hanno paura, sono pietrificati. Oggi la vinciamo”.

Ledesma incassa.

Eh, ti pare facile.

I francesi inaugurano il Mondiale a casa loro, è appena terminata la cerimonia d’apertura. Hanno già un bel cammino disegnato davanti, hanno già previsto tutto: i primi del loro girone continueranno a giocare in Francia, i secondi dovranno sudare in quel di Cardiff. Hanno vinto gli ultimi due Sei Nazioni facendo vedere un gioco spumeggiante, spettacolare, con trequarti che vedi quando partono e quando arrivano, ma in mezzo non li becchi mai. Con avanti che muovono bene le mani e che non li sposti nemmeno se ti metti a pregare. E come fai a batterli questi?

Hanno paura però. Puoi essere grande, grosso, velocissimo e sgusciante, ma se vedi gli spettri è un problema serio.

Pichot lo sa, sa che quel match lo vinceranno i Pumas. Forse perché sa da dove arrivano quei suoi Pumas.

Da un ritiro a Pensacola, Stati Uniti, a mettersi fisicamente in bolla. Allenamenti massacranti, senza mai vedere un pallone da rugby. Poi a Newman, primo test-match contro la nazionale cilena, 70 a 14 in scioltezza. Poi l’arrivo in Europa, la sconfitta col Galles e la perdita di Martín Gaitán, centro di Biarritz, vittima di una insufficienza cardiaca, salvato con uno stent in spogliatoio. Poi il passaggio in Belgio con annessa vittoria sulla nazionale locale. Pichot ha vissuto tutti i momenti del suo gruppo, sa che i suoi possono farcela. Sa che Gonzalo Longo tornerà, ne è certo, ma che contro i padroni di casa non ci potrà essere. Sa pure che quel coach, quel Marcelo Loffreda, forse ha avuto l’idea giusta al momento giusto. Al momento di scegliere il mediano di apertura titolare tra Federico Todeschini, eroe di Twickenham appena un anno prima, e Felipe Contepomi, numero 10 di Leinster e tra i più in forma della squadra, decide di puntare tutto su Juan Martín Hernández, estremo dello Stade Français. Ha intuito che quel cristone di quasi due metri, solitamente a suo agio come estremo baluardo della squadra, potrebbe fargli molto comodo nella stanza dei bottoni. No, non è solo questione di una spingardata ambidestra da minimo 50 metri ad ogni colpo di tomaia. E non è nemmeno quella sua capacità innata di disegnare drop che sembrano arabeschi. No, non solo. Hernández vede una partita diversa da quella dei suoi compagni, è come se avesse uno spartito tutto suo. Non è un caso che quando mette a lustro quelle due penne stilografiche solitamente coperte da scarpe tacchettate dalla tribuna il pubblico intoni “Maradò, Maradò”.

Già, un numero 10 con quella capacità al piede, con quella visione e con quei colori tatuati l’hanno già visto.

Solo che era un altro sport.

Il Saint-Denis, stracolmo, sembra portare in braccio i suoi giocatori. Applaude ad ogni possesso francese, spinge i suoi con un calore palpabile. Ne hanno tanto bisogno, lì in campo. Perché Pichot aveva ragione, i francesi sono pietrificati. Forse da un percorso che li vede favoriti obbligatori, o comunque obbligatoriamente sulla cresta dell’onda. Forse da un evento rivelatosi effettivamente troppo anche per loro. Non si sa, non è dato saperlo.

Sta di fatto che i Bleus, quando decidono di giocare a modo loro, non riescono a trovare breccia. Anzi, al primo possesso forzato vengono puniti, Contepomi calcia dentro i primi 3 punti. La tattica adottata dagli argentini non è ancora ben delineata in campo, ma bastano pochi minuti, giusto il tempo del pareggio di Skrela dalla piazzola. I Pumas non hanno la caratura dei francesi. Sono forti, in molti giocano a quelle latitudini, ma sulla carta non avrebbero il passo, soprattutto tra i trequarti, per reggere l’urto. Il French Flair, per dire, è qualcosa a cui non potrebbero resistere. Loffreda e il suo staff, allora, puntano tutto sulla pressione: una difesa asfissiante, una caccia all’uomo che per poco non mette nel sacco l’estremo Heymans. E poi Hernández, che deve aver ricevuto l’ordine di calciare ogni possesso. E, forse, anche quello di far fare un po’ di casino al triangolo allargato francese: il numero 10 argentino sciorina, uno dietro l’altro, una serie di up’n’under che mettono in estrema ambasce Heymans, Dominici e Rougerie. Certo, è una tattica rischiosissima, se questi ricevono bene e hanno due metri puoi solo dirgli ciao, ma se sotto il pallone si presentano sempre due terze linee argentine brutte, sporche e cattive, beh, di palloni puliti la Francia ne vede ben pochi. Al resto ci pensa la Bajadita, l’arte tutta argentina di spingere senza tallonare, ossia di trovarsi davanti la mega offerta della settimana, tre piloni al prezzo di due. Ledesma, Roncero e Scelzo fanno diventare matti gli avversari, stessa cosa nei raggruppamenti, dove Leguizamón e i due fratelli Fernández Lobbe fanno il diavolo a quattro. Contepomi infila due calci abbastanza defilati, lo stadio non fischia più come all’inizio. Sul 9 a 3 lo spartito non cambia: i Pumas hanno praticamente venduto la propria metà campo, la Francia non riesce ad uscire dall’impasse. Poi però, quando Traille riesce ad arpionare l’ennesima candela di Hernández, sembra che l’incantesimo si possa rompere. Traille attacca la linea e serve Martin. Il flanker transalpino ha come minimo tre compagni liberi all’estremo, ci sono tutti i crismi per la più comoda delle mete in mezzo ai pali. Lo passa quel pallone, ma sulla traiettoria si lancia Horacio Agulla, unico giocatore argentino nei paraggi. Agulla serve Manuel Contepomi, fratello di Felipe, anche lui centro. Siamo a metà campo. Potrebbe benissimo cercare un calcetto rasoterra per mettere pressione.

O per guadagnare tempo, una delle due.

Sente invece delle urla provenire da dietro, lui lascia andare l’ovale verso destra.

Dietro di lui si palesa, inaspettato, Ignacio Corleto, professione estremo, che disegna una curva da duecentista e va a schiacciare quasi in bandierina.

Ecco, se già qualche secondo prima l’atmosfera non era quella auspicata per un giorno di festa come quello, ora la paura è parecchio palpabile. I francesi si guardano, poi guardano quegli alieni vestiti di bianco e azzurro. Non riescono a capire dove sia l’errore, dove abbiano sbagliato qualcosa. No, non così, non oggi. Skrela centra due volte i pali, tra i due tentativi Contepomi raccoglie tre punti praticamente dal garage di casa sua, a fine primo tempo i Pumas sono avanti per 17 a 9. Certo, non possono durare ancora per molto a quel ritmo, ma la Francia del Sei Nazioni, quella che si è disegnata una Coppa del Mondo vicino a casa, non può essere sotto. Non senza dare prova della forza dei propri muscoli, non senza uscire dal proprio guscio di paura, guscio bellamente arredato nei primi 40 minuti di partita. Qualche anno dopo proprio i francesi diranno che certe partite, certe situazioni, diventano una questione di uomini con la U maiuscola, e forse già all’inizio della ripresa danno modo di far capire che il vento è cambiato. I Pumas sembrano accusare il colpo, effettivamente non potevano durare troppo, ma i francesi per un quarto d’ora non riescono a far breccia. Poi, d’improvviso, parte una maul travolgente. Devasta tutto quel che si ritrova davanti, fa 30 metri prima che gli argentini, non si è mai capito come, la fermino in prossimità della linea di meta. Il Saint-Denis ruggisce, sostiene e porta avanti i suoi. L’arbitro leva il braccio, è vantaggio francese. Altro scossone del pubblico. I galletti provano a far uscire la palla, i Pumas si difendono stringendo i denti. Le fasi si susseguono, il vantaggio finisce. Poi Christophe Dominici, folletto francese, prova l’avventura solitaria. Viene placcato, poi Ledesma si abbassa, sembra una versione muscolata del Pio XII descritto da Francesco de Gregori in “San Lorenzo”. L’unica differenza però, oltre alle fedine penali, sta nel fatto che mentre il rampollo di casa Pacelli spalancò le ali, il buon tallonatore di Clermont cala le pale dello scavatore.

Tenuto grande come una casa.

Sipario.

“Mira la cara de miedo de estos pibes, están petrificados. Hoy le ganamos”.

Sì, la vincono loro, e la vincono qui. Pichot e le sue urla, Ledesma e il suo grugno da papà della morosa che mai vorreste incontrare(il papà, non la morosa). Tutti i Pumas piangenti durante l’inno, e fidatevi che sono tanti. La vincono loro, perché Parigi tutta, francesi e non, rimane ipnotizzata di fronte a cotanta resistenza, a tale abnegazione davanti alla sofferenza. Parigi tutta, figuratevi quelli in campo: Skrela e Michalak sbagliano un calcio a testa, calci facili, che sbagli solo quando si spegne la luce. Ci provano in tanti a suonare la carica, pure Chabal, l’orco cattivo, che tra tutte quelle facce bianche e azzurre sembra un capitano di ventura, ma finisce per essere il più ossequioso dei chierichetti. Skrela porta i suoi a meno 5, ma l’ultimo serrate muore lì, pochi metri fuori dai 22 francesi. I Pumas si abbracciano tutti, da capitan Pichot, che arringa tutti e che ha in mano idealmente i cuori dei suoi compagni, dal più giovane al più vecchio, da quello del Mago Hernández, a quello di Ledesma, a quello di Nacho Corleto autore della meta.

Di tutti quelli in campo.

Di Martín Gaitán, un cuore salvato in extremis e sempre con loro.

Dei tifosi sugli spalti, da quelli che ci credevano a quelli che sono usciti dal loro personale ateismo ovale.

Forse perché non sapevano da dove arrivassero quei Pumas.

E  forse perché non sapevano ancora dove sarebbero arrivati.

 

“Hoy les ganamos”