Capro espiatorio

Troncon prende la palla in mano, sotto la pioggia di Saint-Etienne. Mancano cinque minuti scarsi, l’arbitro ha appena fischiato un calcio di punizione per un intervento troppo garibaldino in maul da parte di un pilone scozzese. Linea dei dieci metri nemmeno toccata, molto angolato, a naso sono più di cinquanta metri. Il capitano si guarda attorno, vede il suo estremo venirgli incontro. Gli parla in francese. David ha un nonno di Sesto al Reghena, provincia di Pordenone, ma la lingua italiana, al di là delle Alpi, si perde ben prima che trascorrano due generazioni e difficilmente si recupera.

-Te la senti?

– Sì.

Coraggio o incoscienza, fate voi.

Perché per affrontare un momento del genere prendendo una decisione così di petto ci vogliono attributi grandi come una casa. Oppure un distacco dalla realtà di quelli da curare con sessanta euro all’ora.

Poi calcia.

David Bortolussi, estremo proveniente dal massimo campionato francese, ci estromette dai quarti di finale. Perché da noi, storicamente, va così. Il carro si riempie quando si vince, ma quando si perde lo tira solamente il capro espiatorio di turno. Perché va chiaramente detto, quella sera di fine settembre abbiamo tutti – chi più chi meno – estratto delle frecce avvelenate dalla nostra faretra dei giorni buoni e le abbiamo puntate contro quella maglia bianca numero 15. Tutti.

Solo che quei quarti di finale li abbiamo cominciati a perdere un po’ prima del fischio finale di Kaplan.

Forse li abbiamo persi di vista quando ci siamo resi conto che avremmo potuto sognare in grande, dopo il nostro miglior risultato di sempre al 6 Nazioni. Perché non avevamo mai vinto in trasferta come ad Edimburgo, e soprattutto perché non abbiamo mai bissato il primo successo come contro il Galles. Risultati storici, a cui va aggiunta la commovente prestazione di Twickenham, paradossalmente forse la nostra miglior partita di quel torneo. L’Italia di Pierre Berbizier è una squadra bella, scanzonata, varia nel suo gioco. Ha almeno due intere prime linee di livello mondiale, due fenomeni in terza, un mediano di mischia dall’intelligenza tattica sopraffina e almeno un paio di trequarti in grado di inventarsi la giocata decisiva.

Tutto quello che serve.

O forse no.

Siamo corti invece, cortissimi. Riusciamo a schierare dei buonissimi XV titolari, ma quando si accende la spia della riserva sono guai. Un esempio su tutti: nell’ultimo match del Sei Nazioni 2007 giochiamo senza Mauro Bergamasco, squalificato. Al suo posto inizia Maurizio Zaffiri, roccioso flanker aquilano, che però si rompe subito. Siamo costretti a giocare per settanta minuti con Simon Picone, mediano di mischia della Benetton, in terza linea. Duriamo un tempo, poi crolliamo. Per ovviare a questa situazione Berbizier e il suo staff cominciano già nel 2006 a guardarsi intorno. Si cercano italiani di seconda o terza generazione. Ce ne sono parecchi in giro per il mondo, vista la robusta storia migratoria italiana. Qualcuno di loro, per la legge dei grandi numeri, un pallone ovale lo dovrebbe saper trattare a modo. Avessero tutti risposto affermativamente avremmo risolto un paio di problemi. Non accetterà, per esempio, il pronipote di Raffaele Romano, nativo di Massa Lubrense ed emigrato a Nelson nel 192. È un ragazzone di due metri e con un 52 e mezzo di piede, particolarmente a suo agio in volo, gli avevano proposto di trasferirsi in Italia, ma disse che voleva provarci prima a Christchurch e con gli All Blacks. Eh, non aveva tutti i torti, Luke Romano. In Federazione Inglese, invece, ancora si chiedono chi abbia avuto la brillante idea di chiedere lumi su un giovane mediano di apertura in forza ai Wasps, tale Danny Cipriani. Probabilmente stanno ancora ridendo. Accettano, tra gli altri, Marko Stanojevic, ala di Bristol dallo scatto bruciante, figlio di un serbo e una italiana, e David Bortolussi, estremo del Montpellier nel Top14, dotato di gran piede. Nel giugno del 2006 battiamo il Giappone e perdiamo contro le Fiji schierando alcuni debuttanti, poi ci prepariamo a puntino per le qualificazioni alla Coppa del Mondo. Il gironcino a tre ci vede opposti a Portogallo e Russia. Segniamo centocinquanta punti in due partite, ma non è questo il punto: ci accorgiamo che due ali come Stanojevic e Robertson, insieme, aumentano a dismisura il nostro potenziale offensivo. Bortolussi ha un piede molto potente e anche discretamente preciso. A novembre teniamo sotto scacco l’Australia a Roma e perdiamo contro i Pumas una partita che potevamo tranquillamente portare a casa, poi si torna al 6 Nazioni dei record.

No, con quei presupposti non possiamo essere una sorpresa, nonostante qualche infortunio di troppo, e infatti facciamo bene.

Però.

C’è un però.

Ce ne sarebbero vari, in verità.

Berbizier, per esempio. Il ct azzurro ha tante qualità, ma non è certo un diplomatico. In un incontro con la stampa, nel 2006, qualcuno gli chiede cosa serva a questa Italia per diventare una grande squadra. “Servono un capitano, un calciatore e tredici giocatori. Presidente, mi servono un capitano e un calciatore”. Marco Bortolami non è troppo distante e non può non sentire. Tra i due, nonostante una riappacificazione dopo le due vittorie con Scozia e Galles, non sarà più come prima. L’aneddotica ovale narra di un vero e proprio tentativo di destituzione del capitano nell’intervallo del test autunnale contro il Canada. Non è elegantissimo nei modi, poi, nell’annunciare la sua partenza a fine Coppa del Mondo. Ha ricevuto una proposta dal Racing Metro, nella seconda serie francese, e non ci pensa due volte. L’effetto sul gruppo azzurro è devastante.

A giugno una selezione azzurra se ne va in Uruguay e Argentina. Ci sono alcuni senatori e molti azzurrabili che si giocano il posto. Non c’è Andrea Scanavacca, uno degli eroi di Murrayfield. Sarà l’unico di quella squadra a non venir nemmeno preso in considerazione per la Coppa del Mondo. L’altra sorpresa sarà l’assenza per infortunio di Nieto, el Chango, pilone dei Saracens tra i migliori delle nostre spedizioni. Peccato che in Inghilterra giochi e pure parecchio. In Sudamerica vinciamo senza brillare contro i generosi Teros, poi perdiamo male contro i Pumas, anch’essi in versione sperimentale. Ad agosto giochiamo a sprazzi contro il Giappone di John Kirwan e veniamo clamorosamente scippati in Irlanda, con l’arbitro che allo scadere convalida una meta di O’Gara che non sta né in cielo né in terra. Quel giorno ci rendiamo conto che se non facciamo cazzate la qualificazione ce la possiamo pure portare a casa, tra un drop chilometrico di Bortolussi, una arata in mischia e una scorribanda di Robertson.

È presto, però.

Il girone è fattibile, dobbiamo affrontare nell’ordine Nuova Zelanda, Romania, Portogallo e Scozia. Tutto lascia pensare ad un percorso ideale, con un picco di forma da raggiungere a fine settembre, proprio in previsione del match – presumibilmente – da dentro o fuori contro gli scozzesi. Il problema, però, è dietro l’angolo. Qualcuno dallo staff propone ai giocatori di girare le spalle all’Haka nel primo match del girone. La direttiva arriva inevitabilmente da Berbizier, che così facendo vorrebbe ricompattare le file azzurre. Il gruppo, se possibile, si spacca ancora di più. Capitan Bortolami decide di far votare i compagni, lo scontro è praticamente alla pari, ma vince l’idea del commissario tecnico. Nella storia, prima di allora, solamente una persona aveva deciso di ignorare palesemente l’haka prima di un match. Aveva pure un po’ a che fare con l’Italia, visto che i suoi avi arrivavano da Montecchio Precalcino, in provincia di Vicenza.

Solo che quello lì, che di nome faceva David e di cognome Campese, sapeva benissimo quel che stava facendo, e quel giorno gli All Blacks li battè praticamente da solo.

Noi, dopo venti minuti, siamo sotto di quasi quaranta punti. Perché se quelli vestiti di nero li fai incazzare devi assicurarti di avere, in caso il talento non fosse quello degli eletti, elmetti a sufficienza. Non va così: Dan Carter e soci si rendono conto che i metri di distanza tra la nostra prima linea di difesa e la seconda sono sufficienti per costruirci un ampio parcheggio, ci bombarderanno lì.

Finisce 76 a 14, è un massacro. Non tanto per le proporzioni del punteggio, quanto per gli strascichi che lascerà nelle teste degli azzurri da lì a Saint-Etienne. Contro la Romania, per esempio, segniamo subito con Dellapé, ma poi spariamo dal campo. I romeni non sono dei fenomeni, nonostante i migliori giochino nel massimo campionato francese, ma contro di noi sembrano a lungo dei campioni. E per fortuna che il loro estremo, una vera catapulta al piede, non ne azzecca una dalla piazzola. A girare il match è la prestazione di Troncon, entrato nella ripresa e in grado di ridare ai compagni linfa e cattiveria perdute. E non va meglio contro i portoghesi, semiprofessionisti a cui un anno prima avevamo affibbiato un eloquente 83 a 0. Va subito a segno Masi, poi Bortolami si fa cacciare per dieci minuti. Mai visto il capitano così nervoso come a questa Coppa del Mondo. Marco paga per tutti, forse, il trovarsi tra l’incudine e il martello nel momento di massima tensione. Sono gli ultimi suoi istanti da capitano in una Coppa del Mondo, nel suo battibecco con un lusitano ha preso un colpo subdolo ma pericoloso alla cervicale, cosa che lo costringerà al collarino. Nel frattempo i portoghesi vanno in meta. Non la possono vincere, non la potrebbero veramente mai vincere, ma ci provano, cosa che a noi non passa nemmeno per la testa. Riusciamo ad allungare solamente al piede, prima che la stanchezza fermi del tutto i nostri avversari, inermi mentre chiudiamo la partita. Potremmo anche cercare il punto di bonus, ma Canale calcia inspiegabilmente il pallone fuori.

Ecco, no, non ci arriviamo bene a Saint-Etienne. Siamo fragili, involuti, i cugini timidi di quegli atleti in grado di mettere a ferro e fuoco Murrayfield e di mandare in crisi di nervi gli scozzesi. Scozzesi che finora hanno fatto tutto quel che serviva: hanno vinto con autorevolezza contro Romania e Portogallo, hanno perso male con gli All Blacks, ma dando l’impressione di aver tenuto qualche carta nascosta. Contro gli azzurri, tra gli altri, si rivedono capitan Jason Taylor e Dan Parks, assenti a febbraio. Resta fuori Scott Murray, uno dei leader della touche, al suo posto gioca Jim Hamilton, molto più pesante e abrasivo in mischia. Frank Hadden ha un piano molto evidente: pochi fronzoli, si tiene in mischia e cerchiamo di costringerli al fallo. Poi ci pensa Chris. Chris Paterson, uno dei calciatori più letali del rugby europeo. Dà il suo meglio da ala, ma può realmente giocare ovunque: apertura, estremo, volendo anche centro. Contro un giocatore del genere non ci si può permettere alcun fallo veniale, altrimenti sono tre punti quasi automatici.  È stato l’ultimo ad arrendersi al Sei Nazioni contro di noi, è il primo a marcare punti a Saint-Etienne. Due infrazioni, due calci nei primi cinque minuti, sei a zero.  Matematico. Noi siamo nervosissimi, non riusciamo a capire cosa ci stia realmente succedendo. A svegliarci è Mauro Bergamasco, costretto a fermare fallosamente un avversario lanciato in meta. Cartellino giallo, stavolta loro vanno in touche, vogliono mandarci fuori dal match il prima possibile. Solo che in qualche modo ci salviamo. E alla prima occasione utile facciamo male: Pez fuori dai 22 spara nell’alto dei cieli un pallone reso infido dalla pioggia incessante. I nostri centri si gettano sul punto di caduta, Mirco Bergamasco nella foga travolge l’arbitro. Il pallone è una saponetta, lo controlliamo noi. Troncon sulla linea di meta finta il passaggio ed entra di prepotenza, meta e sorpasso. Lo stadio ha un sussulto: la capienza massima è di circa 23000 spettatori, di cui circa la metà tifa Italia. Sono lì dall’alba, hanno preso confidenza con tribune e spalti sin dalla mattina, hanno pasteggiato vicino alle loro macchine più o meno come fecero quelli che se ne andarono a Grenoble a marzo del 1997. Dopo un inizio veramente difficile hanno dimenticato tutto e si stanno sgolando tutti, dal primo all’ultimo, compreso Marcello Lippi, che di Coppe del Mondo qualcosa ne sa.

Sembra l’inizio di una nuova partita, anche perché poco dopo Bortolussi arrotonda dalla piazzola, 10 a 6. Non è così. Perché Hadden ha imparato benissimo la lezione di febbraio: contro questo tipo di Italia non si possono lasciare punti per strada. Quelle nove punizioni calciate in touche a Murrayfield avrebbero potuto far molto comodo se calciate tra i pali, soprattutto in un finale senza rincorse e senza rischio di andare in riserva. E, soprattutto, contro la squadra messa in campo da Berbizier non ci si può improvvisare grandi pirotecnici al largo, ed è questo il motivo per cui Dan Parks è in campo: ogni volta che può, l’apertura di origine australiana ci ricaccia indietro, ci costringe a giocare nella nostra metà campo. Le conseguenze di tutto questo portano la Scozia ancora avanti: due sciocchezze di Troncon e Bergamasco (un placcaggio alto e uno sgambetto) e torniamo sotto. Bortolussi prova due volte da distanza siderale, ma il pallone esce a lato. Paterson, nella ripresa, arrotonda con altri due calci.

È dura, è durissima. Ma negli ultimi venti minuti riusciamo finalmente a scuoterci e a far vedere il nostro miglior rugby dell’ultimo mese: azioni ficcanti, mediana finalmente libera dai legacci tattici, i primi cinque uomini finalmente in grado di far strada. Hines si becca un giallo per un fallo professionale, centriamo i pali per due volte e torniamo a distanza di calcio. La partita diventa un braccio di ferro in cui nessuno dei contendenti riesce a piegare l’altrui resistenza: si gioca prevalentemente a centrocampo, con poche variazioni dovute ai calci tattici di Parks e Paterson da una parte e di Bortolussi e Pez dall’altra. Ramiro ancora non lo sa, ma è al suo ultimo match in azzurro. È forse il giocatore che più ha sofferto il confronto con Sua Maestà Diego Dominguez, essendo stato il primo a prenderne il posto. È stato epurato da Kirwan prima del Mondiale 2003, si è ripreso il posto grazie ad una enorme prestazione contro i Pumas a Belgrano, agli albori della gestione Berbizier. È il numero 10 forse più offensivo che abbiamo avuto negli ultimi vent’anni, in grado di rompere a ripetizione le linee avversarie, ma a Saint-Etienne sta giocando dietro la linea e sta usando praticamente solo la tomaia tattica. I trequarti scozzesi sono grossi, potenti, ma non sono eccessivamente veloci, uno come lui potrebbe far comodo. Ma si continua a calciare.

Gli scozzesi, ad ogni modo, cominciano a perdere colpi. Fanno falli, perdono terreno. È vero, in touche sono più forti, l’assenza di Bortolami si sta facendo sentire più del dovuto, ma non sono più quelli del primo minuto. Manca la lucidità, quella che ti permette di stare al tuo posto in una maul a cinquanta metri dai pali. Linea dei dieci metri nemmeno toccata, molto angolato, a naso sono più di cinquanta metri. Il capitano si guarda attorno, vede il suo estremo venirgli incontro. Gli parla in francese. David ha un nonno di Sesto al Reghena, provincia di Udine, ma la lingua italiana, al di là delle Alpi, si perde ben prima che trascorrano due generazioni e difficilmente si recupera.

-Te la senti?

– Sì.

Lo sappiamo tutti com’è finita.

E lo sappiamo tutti a chi abbiamo dedicato le nostre peggiori frecce avvelenate. Perché se quel calcio fosse entrato staremmo tutti parlando di Bortolussi eroe azzurro, anziché di uno scarso panchinaro francese, e delle non dolcissime parole dedicategli da Pierre Berbizier il giorno della sua prima convocazione (“Si era bono giocava con Fransia”).  Gli avrebbero fatto fare un paio di spot pubblicitari e almeno qualche ospitata televisiva. Sesto al Reghena sarebbe diventata una sorta di Meadsville in salsa italica. Forse parleremmo di una storica Italia ai suoi primi quarti di finale, ad una sfida sulla carta non improba con i Pumas, di un movimento che da lì sarebbe decollato fino a toccare vette inesplorate. Di qualche showgirl che comincia ad impazzire volentieri per una palla ovale.

E invece, per colpa di David Bortolussi, siamo usciti.

Perché è stata solamente colpa sua. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo,
come lacrime nella pioggia di Saint-Etienne.

E chi dice il contrario non sa nemmeno com’è fatto, un carro dei vincitori.

E nemmeno un capro espiatorio.

Capro espiatorio

Brock fa le valigie

“Ragazzo, sarò franco. Sei il quinto mediano nella mia gerarchia, stando così le cose vedrai la tribuna anche nei test di metà settimana. Vedi tu cosa fare”.

John Mitchell ha un discreto curriculum da giocatore e allenatore, c’è poco da dire. È uno dei soli tre giocatori ad aver giocato, capitanato e allenato gli All Blacks nell’arco di una sola vita. Ha una cultura sportiva e ovale enorme, si è a lungo ispirato a Phil Jackson, coach NBA che ha vinto qualcosina nella sua carriera e che ha lasciato qualche massima di un certo spessore. Solo che, chi ha avuto a che fare con Mitchell, si è reso conto di aver a che fare con almeno due persone racchiuse nello stesso corpo: una brillante, avanti di anni dal punto di vista della gestione di una squadra, coraggiosa, l’altra più complessa, introversa, molto meno comprensibile dal lato umano. La prima è quella che ha portato a testare il livello di alcool nel sangue dei suoi giocatori. Per carità, è il primo a bersi due birre al pub, ma in campo si va sobri e in forma. L’altra è quella che ha tagliato fuori dagli All Blacks gente come Taine Randell, Scott Robertson, Jeff Wilson e soprattutto Chris Cullen senza nemmeno la cortesia di una chiamata. Quella che lascerà in panca un certo Dan Carter quando i suoi All Blacks avranno estremo bisogno di uno che la buttasse dentro con buona frequenza.

E quella che presenta al ragazzo la cruda verità proprio quando tutto sembrava andar meglio.

Perché il ragazzo in questione è uno che si è fatto tutta la trafila delle nazionali australiane, è arrivato ad un passo dal titolo mondiale under 21, ha conquistato la convocazione per la Nazionale Seven, ma che sul più bello ha dovuto patire ripetutamente problemi all’inguine. Nel 2005 era nella rosa dei Reds, ma non riesce quasi mai a scendere in campo. E, a fine stagione, lo staff gli dice che per la stagione 2006 hanno già scelto un ragazzino che sta facendo il fenomeno al piano di sotto, tale Berrick Barnes. Per lui, al massimo, in programma ci sarebbe una bella dose di panchina. Arriva quindi ai Force, franchigia appena nata e alle prese con le difficoltà di chi debutta in un torneo in cui gravitano squadre più scafate. Si perde spesso, manca amalgama, tanti ragazzi sono alla prima esperienza a questo livello. Giornata dopo giornata le prestazioni migliorano, fino a che i Force si prendono la soddisfazione di costringere al pareggio i Crusaders futuri campioni. Il ragazzo segna la seconda meta appena un minuto dopo il suo ingresso in campo e finalmente può sorridere.

Peccato che, due giorni più tardi, i Force annuncino l’acquisto di Matt Giteau per la stagione 2007.

E allora Mitchell, che di quei Force è l’allenatore, parla chiaramente al giovane.

Ecco, col senno di poi siamo bravi tutti. Saremmo tutti in grado di vincere una Coppa del Mondo allenando la Namibia. E, a ben guardare le possibilità in mediana di quella squadra, quel ragazzo non l’avremmo messo al quinto posto. Certo, in un florido vivaio di talenti in grado di giocare ad alto livello almeno in due ruoli nevralgici, ecco, un mediano di apertura puro parte svantaggiato. Ma non certo dietro a James Hingeldorf, visto anche a Viadana e ben presto tornato al rugby domestico australiano. Non dietro a Lachlan McKay, un cap con l’Australia, anche lui fuori dai radar dell’alto livello dopo il 2008. Almeno alla pari con Ryan Cross, gran giocatore anche nel league. Forse solo Matt Giteau lo avrebbe sopravanzato, dopo anni di panchina alle sue spalle nelle giovanili.

Nel 2006, però, a fare le valigie è Brock James, venticinquenne di Victoria. È una di quelle storie destinate a passare per un mare di delusioni, prima di emergere in un cielo di successi. Non andrà altrettanto bene ai Force, che arriveranno sì settimi nel 2007, ma poi si inabisseranno tra stagioni anonime e un John Mitchell incapace di tenere insieme lo spogliatoio.

A luglio del 2006, però, Brock non ha una squadra. Nell’emisfero sud è difficile, nel pieno dell’inverno australe, trovare rose di livello ancora in via di allestimento. Taranaki se lo riprenderebbe anche subito, dopo la buona vena del 2004. Ma non ci sono possibilità di salire al piano di sopra, la NZRU ha posto il veto sui giocatori non neozelandesi nelle franchigie. Non è facile: la scelta è tra una stagione senza contratto e una carriera fuori dai grandi palcoscenici.

L’empasse si sblocca quando si fa vivo Vern Cotter. Cotter ha appena lasciato i Crusaders, dove allenava la mischia, per accasarsi a Clermont, in Francia. Clermont ha una buona squadra, ma è a corto di mediani di apertura dopo il ritorno a casa di Stephen Jones, desideroso di giocarsi a Llanelli le sue chance di convocazione per la Coppa del Mondo dell’anno successivo. L’allenatore neozelandese aveva già pensato di portare con sé Cameron McIntyre, back-up di Dan Carter proprio ai Crusaders desideroso di trovare un po’ di minutaggio tutto per sé, ma Castres fa un’offerta migliore e se lo porta a casa.

No, non si può fare una stagione con un solo numero 10 di spessore internazionale, ossia il figiano Seremaia Bai. E allora James viene ingaggiato praticamente seduta stante.

Gli scetticismi durano il tempo di un paio di partite, poi in tribuna si comincia a darsi di gomito. No, un numero 10 del genere in Australia non poteva interessare. Uno così, a fare i conti con un secondo playmaker con la voce grossa, sarebbe stato veramente sprecato. Brock James, nonostante i problemi di orientamento che possono avere gli australiani che rimangono troppo distante da una spiaggia per troppo tempo, è un mediano di apertura che sembra fatto apposta per il gioco dell’emisfero nord. Meglio, sembra fatto apposta per un certo tipo di rugby francese: vario, divertente, scanzonato. Non sai mai cosa possa partire da quella centralina. Ha un piede che è come la mano di Mario Brega, po esse fero e po esse piuma. Può mandare nel panico qualsiasi triangolo allargato con lunghi calci tattici, può gettare nello sconforto seconde linee di difesa troppo arretrate con calcetti a scavalcare.

Non parliamo dei pali.

Può correre, può depositare passaggi che sembrano endecasillabi.

Ecco, magari non è un drago in difesa, ma con il panico che semina in attacco uno così non può non giocare.

Uno così fa vincere le partite.

Anche perché per le prime tre stagioni a Clermont è il capocannoniere del Top14, cosa non semplicissima se in Francia in quegli anni gravitano sir Jonny Wilkinson e Robocop, alias Roman Teulet, il giocatore più prolifico di sempre nella storia del campionato francese. E fa il diavolo a quattro pure in Challenge Cup, dove trascina i suoi al titolo segnando dodici punti in finale.

Uno così le partite le fa vincere.

Ecco, non proprio tutte.

Perché Clermont, tra la prima e la seconda decade del ventunesimo secolo, si dimostra squadra col braccino: tanto brava e splendida in stagione quanto maldestra e pasticciona nelle fasi finali. Vinceranno il primo titolo nel 2010, dopo dieci finali perse. Il finale di stagione di Brock, però, non è dei migliori: dopo un girone eliminatorio da leader, è il principale responsabile della sconfitta ai quarti di Heineken Cup contro il Leinster, in quella che forse è la sua peggiore prestazione di sempre sul suolo europeo: manca quattro calci di punizione, tre drop e una trasformazione, per un totale di ventitré punti, in una partita dominata dai Les Jeunards a Dublino. Brock perde la lucidità negli ultimi minuti, sbaglia calci che non butterebbe fuori nemmeno da bendato, sta di fatto che da lì a fine stagione la responsabilità dei calci se la prenderà Morgan Parra. Si prenderà una discreta rivincita nella semifinale del campionato francese, segnando nei supplementari contro Tolone un drop da 60 metri che scaverà il solco definitivo.

Rimane a Clermont fino al 2016, poi si trasferisce a La Rochelle. Chi l’ha visto a Treviso, in occasione di un incontro di Challenge Cup, racconta di un campione che per forza di cose non poteva più avere le gambe dei bei giorni, ma che quel pallone lo metteva sempre e solo dove voleva lui. Passerà pure per Bordeaux, poi tornerà sull’Atlantico a vestire il giallo nero, fortemente voluto dal nuovo coach, Ronan O’Gara, uno che qualche partita da numero 10 l’ha giocata, in carriera.

Non è sempre il primo mediano nella gerarchia dell’irlandese, se la batte alla pari col neozelandese Ihahia West e con Jules Plisson, talento francese che forse ha già dilapidato le sue fiches internazionali.

A fine stagione, molto probabilmente, farà di nuovo le valigie.

Non si sa dove andrà, né se giocherà ancora a rugby.

In qualsiasi posto decidesse di andare, comunque, emergerà in un cielo di successi.

Speriamo senza passare prima per altri mari di delusioni, infortuni o allenatori in alcune circostanze forse troppo frettolosi.

Noi, col senno del poi, vinceremmo i Mondiali con la Namibia.

In cabina di regia, per un Brock James, ci sarà sempre posto.

Non sappiamo se in panchina metteremmo mai John Mitchell.

Spiace, è la cruda verità.

Brock fa le valigie

Exitaly

Ebbene, è successo ancora. Gli inglesi, per l’ennesima volta, si sono chiesti il perché della presenza italiana nel Sei Nazioni. Oh, non hanno tutti i torti: non vinciamo una partita dal 2015, e da allora abbiamo “rischiato” di vincere in ben poche occasioni. Non è che siano tanto originali, ma in momenti in cui lo sport è fermo qualcosa te lo devi pure inventare. O reinventare. Altrimenti non si spiegherebbero gli articoli su Cristiano Ronaldo campione di tennistavolo e affini.

Saranno almeno sei o sette anni che ce lo sentiamo dire: siamo poco competitivi, perdiamo sempre, eccetera eccetera. Ma, ripeto, non è questo il problema. La questione si aggrava quando la mozione che ci vorrebbe fuori dal torneo viene ripresa e rilanciata pure a casa nostra.

E non è nemmeno un discorso di giornalisti, che il loro lavoro lo devono pur fare.

È un discorso di addetti ai lavori, gente che sanguina rugby.

Sì dai, andiamo fuori, non ne vinciamo una, ripartiamo dal campionato, andiamo a giocare un torneo con Romania, Georgia, Portogallo e chi volete voi, così almeno una ogni tanto la vinciamo. La cosa non mi stupisce, d’altronde Tafazzi ce lo siamo inventati qui in Italia, mica viene dall’Inghilterra. E parte da presupposti su cui si può discutere con profitto: il progetto che vedeva la Nazionale come traino è vicino ad un binario morto, c’è bisogno di uno scossone interno, bisogna ripartire con un repulisti.

E allora facciamo così, proviamoci. Usciamo dal Sei Nazioni.

Simuliamo la nostra uscita dal torneo europeo a partire dal 2024. Per carità, quella che segue è una proposta perfettibile e che non pretende di essere definitiva. Ma facciamo che decidiamo di uscire noi e che ce ne andiamo a fare un torneo con le altre nazioni europee. Il nostro posto lo prende il Sudafrica, che in Europa ha parecchi giocatori di altissimo livello, giocherà con quelli.

Alt, primo problema. Le altre nazioni europee giocano già un torneo europeo. Non è detto che ci accettino così, perché siamo belli e bravi: c’è pur sempre un trofeo in palio, le squadre diventerebbero dispari, non tutti sarebbero d’accordo, una settimana in più di torneo potrebbe comportare problemi con le convocazioni e con la gestione del gruppo.

Ma facciamo che ci invitino volentieri, d’altronde l’Italia ovale un po’ di appeal a quei livelli ce l’ha.

I primi due anni vinciamo facile, abbiamo giusto qualche difficoltà a Tbilisi, ma il trofeo è nostro.

Poi però, bisogna cominciare a fare i conti con i primi effetti dell’Exitaly (termine foneticamente più orecchiabile di Italexit, passatemelo): gli introiti del secondo torneo europeo non possono più essere quelli derivati dalla partecipazione al Sei Nazioni, gli sponsor latitano, stadi come l’Olimpico non sono più sostenibili né riempibili. Si torna a giocare in stadi più piccoli e caldi come Monigo, il Plebiscito o il Fattori.

Che non è un male eh, ci mancherebbe.

Se non altro la ola da quelle parti si vede meno, si preferisce guardare il rugby.

A questo aggiungete che il CONI potrebbe non essere più così interessato ad elargirci tutti i fondi di cui abbiamo goduto finora. E pure il fatto che il 6 nazioni era torneo di interesse nazionale che prevedeva per legge la visione in chiaro delle partite. No 6 Nazioni, no tv, meno fondi.

Gli effetti collaterali, però, continuano.

Il movimento deve fare i conti con una vena mineraria sempre più secca, visto che le Accademie, a poco a poco, hanno cominciato a spostarsi o a fondersi l’una con l’altra e a chiudere. I pochi fondi rimasti non bastano per tutti. La Federazione pensa a due seconde squadre composte dai migliori giovani e correlate alle franchigie. Le squadre del massimo campionato però si ribellano, perché probabilmente la presenza dei giovani falserebbe il torneo. A proposito di massimo campionato: la vincitrice dello scudetto non ha più il posto garantito nelle coppe europee. Ci si deve giocare il posto con altre squadre di campionati minori: rumeni, georgiani, russi, spagnoli. La lotta per lo scudetto diventa serrata, le squadre che ne hanno la possibilità acquistano giocatori già pronti, soprattutto stranieri, e non investono sui giovani, il più delle volte costretti a stare in panchina o ad andare altrove, nelle serie minori. Qualcuno prova l’esperienza di vita all’estero, altri mollano e vanno a lavorare o a studiare. Alcune squadre cominciano a scricchiolare, è dura andare avanti se alla tanta passione non si associa pure qualche soldo.

Il board celtico, nel frattempo, ha deciso che ci dovrà essere al massimo una franchigia italiana nel torneo. Alla federazione l’idea non dispiace, si pensa che i quaranta giocatori della squadra smantellata confluiranno quasi esclusivamente al piano di sotto. L’altra squadra invece per ora rimane, ma ma per ovviare al problema dei troppi stranieri nel campionato, si decide che la franchigia dovrà mettere a referto almeno una decina di giocatori under 23. La cordata imprenditoriale non ci sta, gli attriti con la federazione si fanno sempre più evidenti. La situazione porta i giocatori già sotto contratto con le franchigie a guardarsi intorno in vista delle prossime stagioni.

Anche i test autunnali non sono più quelli di un tempo: sì certo, nei primi due anni arrivano ancora All Blacks, Springboks e Wallabies, poi però cambia tutto: l’IRB modifica i calendari, da noi ogni tanto arrivano le pacifiche, qualche volta il Canada e gli Stati Uniti, persino il Brasile e il Cile.

Vinciamo, perché vinciamo, ma cominciamo a perdere colpi.

Anche perché alcuni giocatori azzurri già accasatisi all’estero non hanno più tutta questa libertà di movimento nel rispondere alle convocazioni. Era già successo ad alcuni figiani e samoani, ora tocca ai nostri. D’altronde il potere decisionale di certi super club europei è diventato insormontabile per la nostra Federazione, che non può più mettere sul piatto la partecipazione al Sei Nazioni.

Passa qualche mese. Il board celtico ci mette alla porta, al nostro posto arrivano due squadre sudafricane. Risultati scarsi, squadre sempre meno competitive. I giocatori nell’orbita della Nazionale fanno le valigie e se ne vanno quasi tutti all’estero, contrariamente a quanto auspicato da Federazione e club. Francia, Inghilterra, soprattutto serie minori. Al piano di sotto, intanto, le cose non vanno benissimo: i pochi giovani sopravvissuti nella massima serie non trovano spazio. Qualcuno col tempo appende gli scarpini al chiodo, altri scendono nelle categorie inferiori, altri si accontentano della panchina. Riappaiono frotte di giocatori stranieri di terza o quarta fascia, già pronti per vincere il campionato e poi chissà, fra cinque anni, pronti a giocarsi un posto in Nazionale. Si punta a qualche sudafricano che non ce l’ha fatta con le franchigie, soprattutto seconde linee perché ci mancano i giocatori di due metri, ce li hanno fregati tutti il basket e la pallavolo.

La Nazionale, con questi chiari di luna, non può andare benissimo. Tbilisi ci vede soccombere sempre più spesso, contro la Romania arranchiamo. Non riusciamo più a trovare un commissario tecnico disposto a giocarsela con noi. Era venuto Wayne Smith, che amava Silea e Casale sul Sile, ma è tornato a casa dopo che la Federazione se l’è presa con lui per il mancato passaggio del turno all’ennesima Coppa del Mondo. e il prossimo mondiale è ancora tutto da conquistare, visto che l’uscita dal salotto buono ci ha fatto perdere alcune buone occasioni e pure una certa abitudine ad un buon livello ovale. Alla prossima Coppa del Mondo, quindi, ci dobbiamo ancora qualificare: andiamo a giocare ad Andorra, in Croazia, in Olanda. L’ultima generazione di giocatori che aveva avuto a che fare con il rugby europeo che conta si è assottigliata di parecchio, i ragazzi dietro non garantiscono un grande ricambio, né a livello di qualità, né a livello di quantità. Ci qualifichiamo grazie al girone di ripescaggio. Ogni tanto ricominciamo a giocare contro Galles, Scozia e Francia, ma in periodi dell’anno diversi da quanto succedeva tempo fa: maggio, gennaio. Siamo in pratica gli sparring partner contro i quali provare gli schemi. Ci negano il cap, a volte ci mandano contro i ragazzini. E perdiamo male.

All’ennesima batosta georgiana, un 45 a 9 in cui non siamo mai in partita, qualcuno si chiede che ci facciamo in quel torneo. Cioè sì, qualcuna la vinciamo, ma ha senso la nostra presenza se dobbiamo perdere in quel modo?

Se lo chiedono a Tbilisi, e ci sta.

Ce lo chiediamo anche noi, e ci sta un po’ meno.

Forse è il caso di uscire e andare a giocare contro Olanda, Svizzera e altre.

Qualcuno batte i pugni perché insomma, bisognava fare come il Giappone. Eludendo la domanda successiva: “Dove troviamo i signori Yamaha, Kobelco, Toyota, etc. a casa nostra?”

Qualcuno allora alzerà la mano e dirà: “Ma se confluissimo tutto quel che è rimasto sulla Nazionale?”

Lo so, è una simulazione perfettibile, ma terribilmente verosimile.

Qualcuno si ricorderà, forse, di quando si giocava a Murrayfield, a Twickenham, al Millennium Stadium.

E di quando abbiamo deciso di lasciar stare tutto e di tornare indietro di trenta, quaranta anni.

Ai meravigliosi anni ’80, quando eravamo tutti giovani e belli.

Quando i francesi ci schieravano contro i ferrovieri e quando la Romania e l’URSS ci facevano a fette.

Quando Tafazzi non esisteva ancora, e si poteva ancora brevettarlo.

Bei tempi, quelli.

Exitaly

Monsieur 3000

Il più grande concittadino che abbia mai avuto è il protagonista di un’opera teatrale diventata parecchio famosa, ma mica veniva da Bergerac, quello lì. Rostand aveva modellato il suo Cyrano ispirandosi alle gesta di uno scrittore parigino alquanto libertino, scrittore che portava nel cognome le presunte conquiste di alcuni suoi antenati. In Dordogna non credo ci sia mai venuto. Io qui invece ci sono nato e cresciuto, tra campi di tabacco e una incredibile voglia di rugby. Mio padre era un buon giocatore nelle categorie giovanili, ma poi si dovette arrendere ad una meningite e si riciclò come elettricista. Fu lui ad assemblare i miei primi pali con dei tubi di plastica, nel giardino di casa, quando si rese conto che avrei tanto voluto ripercorrere i suoi passi ovali.

Quanto tempo ho passato davanti a quei pali.

Quanti palloni ho calciato lì in mezzo, mi veniva pure bene.

A Bergerac ci sono nato, dicevo.

Cresciuto mica tanto, se consideriamo che supero di poco il metro e sessanta, ma mica è mai stato un problema. Era difficile per gli avversari, questo sì, perché mica se l’aspettavano che quel nanetto potesse essere pericoloso. Né che fosse così letale con un pallone sulla piazzola. Feci tutta la trafila ovale a Bergerac, poi un anno a Perigueux, una ventina di chilometri da casa mia, in Federal 1. Chi dice che le categorie inferiori francesi non siano campionati di livello, evidentemente, a questi livelli non ha messo manco il naso. Ci sono ragazzini che hanno già giocato nelle nazionali giovanili e che stanno facendo di tutto per emergere, ci sono giocatori nel pieno di una carriera infarcita di vicissitudini, ci sono vecchi lupi di mare che ne sanno una più del diavolo. E ci sono migliaia di spettatori ogni fine settimana.

No, non è facile emergere lì.

Parto come mediano di mischia di riserva, ma ben presto divento titolare e segno 148 punti in una stagione. La squadra del mio paese, anch’essa in Federal 1, mi riprende un anno dopo. Non resto per troppo tempo vicino a casa. A metà stagione vengo contattato da alcuni emissari del Castres, squadra della massima serie. Mi vogliono assolutamente nella loro rosa per la stagione successiva.

E come fai, a 23 anni, a dire di no alla massima vetrina rugbistica nazionale?

Mi ritrovo nella stessa squadra di gente come Ibanez, che sarà poi capitano della Nazionale, di Spanghero, di Greg Townsend, di tantissimi giocatori francesi di cui non puoi capire fino in fondo l’altissimo livello finché non ci giochi almeno dieci minuti insieme. Debutto da titolare contro Narbonne, altra squadra zeppa di campioni. Argentini, soprattutto: ci sono Roncero, Corleto, ma soprattutto Quesada. Dicono sarà una sfida tra me e lui, perché la responsabilità dei calci la danno a me.

Gonzalo Quesada contro Romain Teulet.

Nemmeno nei miei sogni più belli.

Non è una partita facile: siamo più forti noi, li costringiamo ad essere molto indisciplinati, ma appena cerchiamo di allargare il solco intercettano un pallone e pareggiano. Non può durare così, non si va avanti di sola fortuna per ottanta minuti, e infatti così non sarà. Prendiamo tutti i calci possibili, a cavallo dei due tempi mando tra i pali quattro palloni che ci portano sopra break. Dirigo la mischia con qualche sbavatura, ma senza nemmeno rovinare tutto, difficile rovinare tutto con quei fenomeni lì davanti. Vinciamo 42 a 20, quel giorno mi guadagno ufficialmente due soprannomi: Le Lutin, lo gnomo, dovuto ai miei scarsi centimetri, e Robocop, per via di una preparazione al calcio in cui i miei movimenti ricordano le rigidità dell’androide del cinema.

Due soprannomi e il titolo di uomo del match.

Potrei già essere a posto così.

Non siamo la squadra più forte del lotto, ma di stagione in stagione saliamo di livello. Nel 2003 vinciamo la prima edizione del Parker Pen Shield, coppa europea destinata alle squadre eliminate nel primo turno della Challenge Cup. Noi ci arriviamo dopo aver perso sia in casa che in trasferta con la Benetton Treviso, poi battiamo tutti. Vinco anche la speciale classifica dei marcatori. Certo, non è la più prestigiosa coppa europea, ma nel primo decennio di questo secolo era dura affrontare e battere costantemente le squadre inglesi, rocciose, durissime. Mai viste delle mischie del genere. Negli anni lo staff mi chiede di giocare estremo, sia perché vogliono sfruttare fino in fondo il mio gioco al piede, non solo dalla piazzola, sia perché si sono accorti che, nonostante un apparente svantaggio nel recupero dei palloni volanti, non ho paura di alzarmi in volo e combattere.

Ricevo offerte anche da altre squadre, ma non ci penso nemmeno. Castres mi ha cercato e voluto quando ero distante dal grande rugby, si merita i miei anni migliori. Nel 2010 raggiungo i 2000 punti e vinco il trofeo del miglior marcatore del Top14, cosa non facile se i tuoi avversari, negli anni, sono diventati campioni del calibro di Brock James e Jonny Wilkinson. La squadra è forte, fortissima, e nel campionato successivo giochiamo al meglio le nostre carte. Finiamo il torneo in crescendo e ci classifichiamo terzi, il che significa doversi giocare a casa nostra la semifinale per il titolo contro i ragazzi di Montpellier, arrivati sesti. Bella squadra, la loro: Gorgodze, Matadigo,Trinh-Duc, Santi Fernández. Noi schieriamo gente come Capo Ortega, Tekori, McIntyre a numero 10, ragazzi che hanno giocato in Nazionale come Ducalcon e Andreu.

Andiamo subito in vantaggio, ma Bustos Moyano, trequarti argentino, ha il piede caldo. Altra meta per noi, altri due calci per lui, 14 a 15. Ne piazzo uno a un quarto d’ora dalla fine, di nuovo avanti noi, lui piazza da metà campo. Gli entra qualsiasi cosa. Ho la possibilità di portare a casa la partita a tre dal termine, ma il calcio mi esce stretto.

È il terzo che sbaglio in una partita, mai successo.

Siamo fuori, davanti al nostro pubblico.

Se mi chiedete quale sia il più grande rimpianto della mia carriera non è il fatto di non essere mai stato preso in considerazione dalla Nazionale nei miei anni migliori. Quello mica dipendeva solo da me, alla fine degli anni ’70 sono nati una bella sfilza di fenomeni, più forti del sottoscritto. No, la più grande delusione è tutta in quel pomeriggio di maggio, perché lì la responsabilità era mia e quella giornata storta non doveva accadere.

Non lì, almeno. Non in quel momento.

Perché, quel giorno, avrei barattato tutti i 3000 punti che avrei realizzato in carriera con almeno tre dei nove gettati nel vento di Castres.

Ci siamo rifatti due anni più tardi, nel 2013. Ancora un barrage in casa contro Montpellier, poi battiamo Clermont in semifinale e il Tolone di Wilkinson in finale. La mia carriera da giocatore si chiude nel 2014, a 36 anni. Philippe Saint-André, commissario tecnico della Nazionale, mi chiama subito come allenatore dei calciatori. È la mia unica esperienza con il galletto sul cuore, se escludiamo l’esperienza da rockstar con i French Barbarians, in casa contro Tonga nel 2010 e in Giappone nel 2012.

Ma va bene così, mi sono divertito tantissimo a Castres, città e squadra che hanno creduto in me.

A Perigueux, la mia prima esperienza fuori casa, in un campionato di un livello inimmaginabile per chi non ci ha mai giocato.

E a Bergerac, dove sono cresciuto tra pali fatti di tubi di plastica, piantagioni di tabacco e concittadini immaginari.

Perché Rostand il suo Cyrano lo fece nascere qui, ispirandosi però ad un parigino libertino.

Ma se mi fate avere una piazzola e un pallone, forse, anch’io so toccare.

Monsieur 3000