Exitaly

Ebbene, è successo ancora. Gli inglesi, per l’ennesima volta, si sono chiesti il perché della presenza italiana nel Sei Nazioni. Oh, non hanno tutti i torti: non vinciamo una partita dal 2015, e da allora abbiamo “rischiato” di vincere in ben poche occasioni. Non è che siano tanto originali, ma in momenti in cui lo sport è fermo qualcosa te lo devi pure inventare. O reinventare. Altrimenti non si spiegherebbero gli articoli su Cristiano Ronaldo campione di tennistavolo e affini.

Saranno almeno sei o sette anni che ce lo sentiamo dire: siamo poco competitivi, perdiamo sempre, eccetera eccetera. Ma, ripeto, non è questo il problema. La questione si aggrava quando la mozione che ci vorrebbe fuori dal torneo viene ripresa e rilanciata pure a casa nostra.

E non è nemmeno un discorso di giornalisti, che il loro lavoro lo devono pur fare.

È un discorso di addetti ai lavori, gente che sanguina rugby.

Sì dai, andiamo fuori, non ne vinciamo una, ripartiamo dal campionato, andiamo a giocare un torneo con Romania, Georgia, Portogallo e chi volete voi, così almeno una ogni tanto la vinciamo. La cosa non mi stupisce, d’altronde Tafazzi ce lo siamo inventati qui in Italia, mica viene dall’Inghilterra. E parte da presupposti su cui si può discutere con profitto: il progetto che vedeva la Nazionale come traino è vicino ad un binario morto, c’è bisogno di uno scossone interno, bisogna ripartire con un repulisti.

E allora facciamo così, proviamoci. Usciamo dal Sei Nazioni.

Simuliamo la nostra uscita dal torneo europeo a partire dal 2024. Per carità, quella che segue è una proposta perfettibile e che non pretende di essere definitiva. Ma facciamo che decidiamo di uscire noi e che ce ne andiamo a fare un torneo con le altre nazioni europee. Il nostro posto lo prende il Sudafrica, che in Europa ha parecchi giocatori di altissimo livello, giocherà con quelli.

Alt, primo problema. Le altre nazioni europee giocano già un torneo europeo. Non è detto che ci accettino così, perché siamo belli e bravi: c’è pur sempre un trofeo in palio, le squadre diventerebbero dispari, non tutti sarebbero d’accordo, una settimana in più di torneo potrebbe comportare problemi con le convocazioni e con la gestione del gruppo.

Ma facciamo che ci invitino volentieri, d’altronde l’Italia ovale un po’ di appeal a quei livelli ce l’ha.

I primi due anni vinciamo facile, abbiamo giusto qualche difficoltà a Tbilisi, ma il trofeo è nostro.

Poi però, bisogna cominciare a fare i conti con i primi effetti dell’Exitaly (termine foneticamente più orecchiabile di Italexit, passatemelo): gli introiti del secondo torneo europeo non possono più essere quelli derivati dalla partecipazione al Sei Nazioni, gli sponsor latitano, stadi come l’Olimpico non sono più sostenibili né riempibili. Si torna a giocare in stadi più piccoli e caldi come Monigo, il Plebiscito o il Fattori.

Che non è un male eh, ci mancherebbe.

Se non altro la ola da quelle parti si vede meno, si preferisce guardare il rugby.

A questo aggiungete che il CONI potrebbe non essere più così interessato ad elargirci tutti i fondi di cui abbiamo goduto finora. E pure il fatto che il 6 nazioni era torneo di interesse nazionale che prevedeva per legge la visione in chiaro delle partite. No 6 Nazioni, no tv, meno fondi.

Gli effetti collaterali, però, continuano.

Il movimento deve fare i conti con una vena mineraria sempre più secca, visto che le Accademie, a poco a poco, hanno cominciato a spostarsi o a fondersi l’una con l’altra e a chiudere. I pochi fondi rimasti non bastano per tutti. La Federazione pensa a due seconde squadre composte dai migliori giovani e correlate alle franchigie. Le squadre del massimo campionato però si ribellano, perché probabilmente la presenza dei giovani falserebbe il torneo. A proposito di massimo campionato: la vincitrice dello scudetto non ha più il posto garantito nelle coppe europee. Ci si deve giocare il posto con altre squadre di campionati minori: rumeni, georgiani, russi, spagnoli. La lotta per lo scudetto diventa serrata, le squadre che ne hanno la possibilità acquistano giocatori già pronti, soprattutto stranieri, e non investono sui giovani, il più delle volte costretti a stare in panchina o ad andare altrove, nelle serie minori. Qualcuno prova l’esperienza di vita all’estero, altri mollano e vanno a lavorare o a studiare. Alcune squadre cominciano a scricchiolare, è dura andare avanti se alla tanta passione non si associa pure qualche soldo.

Il board celtico, nel frattempo, ha deciso che ci dovrà essere al massimo una franchigia italiana nel torneo. Alla federazione l’idea non dispiace, si pensa che i quaranta giocatori della squadra smantellata confluiranno quasi esclusivamente al piano di sotto. L’altra squadra invece per ora rimane, ma ma per ovviare al problema dei troppi stranieri nel campionato, si decide che la franchigia dovrà mettere a referto almeno una decina di giocatori under 23. La cordata imprenditoriale non ci sta, gli attriti con la federazione si fanno sempre più evidenti. La situazione porta i giocatori già sotto contratto con le franchigie a guardarsi intorno in vista delle prossime stagioni.

Anche i test autunnali non sono più quelli di un tempo: sì certo, nei primi due anni arrivano ancora All Blacks, Springboks e Wallabies, poi però cambia tutto: l’IRB modifica i calendari, da noi ogni tanto arrivano le pacifiche, qualche volta il Canada e gli Stati Uniti, persino il Brasile e il Cile.

Vinciamo, perché vinciamo, ma cominciamo a perdere colpi.

Anche perché alcuni giocatori azzurri già accasatisi all’estero non hanno più tutta questa libertà di movimento nel rispondere alle convocazioni. Era già successo ad alcuni figiani e samoani, ora tocca ai nostri. D’altronde il potere decisionale di certi super club europei è diventato insormontabile per la nostra Federazione, che non può più mettere sul piatto la partecipazione al Sei Nazioni.

Passa qualche mese. Il board celtico ci mette alla porta, al nostro posto arrivano due squadre sudafricane. Risultati scarsi, squadre sempre meno competitive. I giocatori nell’orbita della Nazionale fanno le valigie e se ne vanno quasi tutti all’estero, contrariamente a quanto auspicato da Federazione e club. Francia, Inghilterra, soprattutto serie minori. Al piano di sotto, intanto, le cose non vanno benissimo: i pochi giovani sopravvissuti nella massima serie non trovano spazio. Qualcuno col tempo appende gli scarpini al chiodo, altri scendono nelle categorie inferiori, altri si accontentano della panchina. Riappaiono frotte di giocatori stranieri di terza o quarta fascia, già pronti per vincere il campionato e poi chissà, fra cinque anni, pronti a giocarsi un posto in Nazionale. Si punta a qualche sudafricano che non ce l’ha fatta con le franchigie, soprattutto seconde linee perché ci mancano i giocatori di due metri, ce li hanno fregati tutti il basket e la pallavolo.

La Nazionale, con questi chiari di luna, non può andare benissimo. Tbilisi ci vede soccombere sempre più spesso, contro la Romania arranchiamo. Non riusciamo più a trovare un commissario tecnico disposto a giocarsela con noi. Era venuto Wayne Smith, che amava Silea e Casale sul Sile, ma è tornato a casa dopo che la Federazione se l’è presa con lui per il mancato passaggio del turno all’ennesima Coppa del Mondo. e il prossimo mondiale è ancora tutto da conquistare, visto che l’uscita dal salotto buono ci ha fatto perdere alcune buone occasioni e pure una certa abitudine ad un buon livello ovale. Alla prossima Coppa del Mondo, quindi, ci dobbiamo ancora qualificare: andiamo a giocare ad Andorra, in Croazia, in Olanda. L’ultima generazione di giocatori che aveva avuto a che fare con il rugby europeo che conta si è assottigliata di parecchio, i ragazzi dietro non garantiscono un grande ricambio, né a livello di qualità, né a livello di quantità. Ci qualifichiamo grazie al girone di ripescaggio. Ogni tanto ricominciamo a giocare contro Galles, Scozia e Francia, ma in periodi dell’anno diversi da quanto succedeva tempo fa: maggio, gennaio. Siamo in pratica gli sparring partner contro i quali provare gli schemi. Ci negano il cap, a volte ci mandano contro i ragazzini. E perdiamo male.

All’ennesima batosta georgiana, un 45 a 9 in cui non siamo mai in partita, qualcuno si chiede che ci facciamo in quel torneo. Cioè sì, qualcuna la vinciamo, ma ha senso la nostra presenza se dobbiamo perdere in quel modo?

Se lo chiedono a Tbilisi, e ci sta.

Ce lo chiediamo anche noi, e ci sta un po’ meno.

Forse è il caso di uscire e andare a giocare contro Olanda, Svizzera e altre.

Qualcuno batte i pugni perché insomma, bisognava fare come il Giappone. Eludendo la domanda successiva: “Dove troviamo i signori Yamaha, Kobelco, Toyota, etc. a casa nostra?”

Qualcuno allora alzerà la mano e dirà: “Ma se confluissimo tutto quel che è rimasto sulla Nazionale?”

Lo so, è una simulazione perfettibile, ma terribilmente verosimile.

Qualcuno si ricorderà, forse, di quando si giocava a Murrayfield, a Twickenham, al Millennium Stadium.

E di quando abbiamo deciso di lasciar stare tutto e di tornare indietro di trenta, quaranta anni.

Ai meravigliosi anni ’80, quando eravamo tutti giovani e belli.

Quando i francesi ci schieravano contro i ferrovieri e quando la Romania e l’URSS ci facevano a fette.

Quando Tafazzi non esisteva ancora, e si poteva ancora brevettarlo.

Bei tempi, quelli.

Exitaly

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