Debutto (Storia di Natale)

“Scaldati”.

No, nessuna voce, nessun labiale. Ma vedi il ragazzino alzarsi dalla panca di legno e lamiera, fredda come solo del legno e della lamiera sanno essere a fine dicembre, e cominciare a corricchiare. Ricominciare, per la precisione, che lo stare seduti era solo una pausa. Calzamaglia pesante, maglia della tuta, berretto di lana. Pochi centimetri quadri di pelle regalati al vento freddo. Al di là della linea bianca imperversa la battaglia. Chili e chili da una parte, chili e chili dall’altra, placcaggi, botte, qualche sventagliata. Fiati corti e ben visibili, terreno ghiacciato, sangue rappreso su ginocchia e braccia. Il pallone ovale viaggia da una parte all’altra, sovente cade, si riparte da mischie su mischie. Il ragazzino si scalda. Vorrebbero scaldarsi tanto anche quelli che la partita la stanno guardando, lassù dalle seggioline di plastica e dai gradoni della tribuna. Hanno freddo in campo, pensatevi loro lì, fermi, appollaiati. Ogni tanto si alzano in piedi, si scuotono, restano in movimento. Come se fossero loro i prossimi ad entrare in campo, da un momento all’altro.

Quello che si muove di più è Beppe, senza dubbio.

È frenetico, nervoso, continua a scuotere le gambe, come a volerle sciogliere, come a voler dire che di lì a poco potrebbe dare il suo laggiù, nel rettangolo verde.

No, quel tic ce l’ha sempre avuto. Non gli pesa il freddo, mai avuto grossi problemi col termometro basso. In tanti si girano a guardarlo, ma chi lo conosce sa che in quei momenti Beppe va lasciato stare. Va capito. Perché lo sente a chilometri di distanza che quel ragazzino si è alzato dalla panca. Lo ha sentito da dentro la Club House, ha appena scaricato il pane ancora caldo. Ad ogni partita interna ci pensa lui, fa gli straordinari, “Gli straordinari più belli del mondo”, dice lui. Stavolta si prende una pausa però, perché quel ragazzino se lo vuole proprio coccolare con gli occhi, come la prima volta che l’ostetrica glielo posò tra le braccia. Un quintale di uomo che si scioglie in lacrime non è spettacolo che si vede tutti i giorni, non ci sono confronti con trofei, vittorie o mischie ribaltate che tengano.

Quel ragazzino cresce bene, forte, ma senza il collo taurino del padre. Occhi azzurri e capelli biondi, e chi li ha mai visti per casa? Chi ha più confidenza lo prende bellamente per il culo, “quello non è figlio tuo” “è il figlio del postino”, etc. etc. Beppe ride, che non è permaloso, poi offre da bere al primo terzo tempo utile. Fino a quel marzo maledetto, a quel placcaggio perfetto, forse troppo. Fino a quando sotto le sue callose grinfie di terza linea d’annata non arrivò un ragazzetto un po’ troppo sbruffone. Veloce, velocissimo, ma con una lingua lunga che ve la regalo. È un finale al fotofinish tra madre, moglie e altre parentele meno strette. Beppe è fondamentalmente un buono, ma dopo 60 minuti al ragazzino scappa un rimbalzo della palla e lui gli è addosso. Il tempismo è perfetto, l’avversario ha appena messo le mani sull’ovale che già lo perde. Si rialza stordito, accusa il colpo. Finisce il match. Arrivano terzo tempo e ritorno alla quotidianità.

Qualche giorno dopo, però, arriva una raccomandata: è la notifica di una querela per lesioni, il padre del ragazzino ha colpito come chi ha profonda sete di vendetta.

Si parla di trauma cranico. A Beppe cade il mondo addosso. In tribunale finisce a tarallucci e vino, Beppe si affida a Marco, suo ex mediano di apertura e avvocato che non ha perso la lucidità che aveva quando si trovava davanti i pali.

Il padre del ragazzino sbraita, vuole addirittura il carcere.

Ce ne sono di personaggi così, eh.

Ironia della sorte, il giudice aveva le orecchie a cavolfiore.

Pilone, qualche stagione e chilo fa.

Archiviò il tutto, si chiese chi gli aveva portato davanti quel caso da poco.

Poi ci fu solo la faccia del padre alla frase “se non vuole che suo figlio si faccia male c’è sempre il balletto”. Assolto, e che goduria.

Solo che la notizia arriva subito al suo capo, in falegnameria. “Non ho scelta, Beppe”.

Le logiche del paesino non sempre ricalcano quello che succede altrove, c’è sempre uno strascico di troppo, un ulteriore chiacchiericcio, un buonsenso regalato un tanto al chilo.

Cartellino rosso, licenziato.

Era lì dentro da 25 anni, li conosce tutti.

Li conosceva tutti.

Niente, bisogna reinventarsi a 40 anni. È dura ripartire da zero ad un’età in cui qualcosa dovresti già averla in mano. È dura tornare a casa la sera, sentire il bimbo piangere e trattenersi dal versare lacrime sul cuscino. Beppe è umano, non ce la fa. Piange per tutta la notte, non trova pace.

In paese in tanti parlano del fattaccio, tutti dicono che Beppe ha ragione, nessuno fa niente.

E allora tocca andar via, lavoro non ce n’è e non di sole belle parole può vivere un bimbo.

Il ragazzino, intanto, smette il berretto. Chioma bionda, di un disordine provvisorio e che ineluttabilmente tornerà nei ranghi. I garretti si muovono agili, Beppe li vede e si ricorda di quel giorno in cui tutto cambiò. Il piccoletto avrà avuto si e no 4 anni e sgambettava tra gli stand dell’autogrill. Difficile ricordare quale, sono quasi tutti uguali, soprattutto al nord, soprattutto se fuori imperversano autunno e nebbia, non necessariamente in quest’ordine. Suona il telefono, la brava e dolce Mary prosegue da sola la sua lieve caccia al piccoletto tra scaffali e improbabili confezioni regalo. Dall’altra parte del telefono una voce sconosciuta, quasi impercettibile nel casino di rustichelle e caffemacchiatiintazzagrandeconpannaaparte, così, tutto attaccato.

Sanno tutto di lui, del suo dentro e fuori dal campo, dalla falegnameria e dal tribunale, che hanno un lavoretto umile per lui. Niente di che, ma tranquillo e sicuro. La voce rantola un indirizzo ed un orario, sono una cinquantina di chilometri di strade provinciali e comunali. Una faticaccia, vista la nebbia, ma o così o così. Il placcaggio di Mary intanto ha funzionato, il bimbo se ne sta buono tra le sue braccia, si parte subito. La coltre di nebbia è pesante, invalicabile, ma navigatore e un po’ di colpo d’occhio portano la macchina a riposare in un parcheggio distante dal centro.

Centro, parliamone, è una frazione, saranno al massimo 2000 abitanti.

L’indirizzo porta ad una minuscola panetteria. Cavolo, saranno le 4 del pomeriggio ma è bella piena. La famiglia entra, Beppe si annuncia, appare un vecchietto gentile ma dallo sguardo risoluto. “Vieni con me”. Non dice altro, poi si fa seguire, Beppe dietro a ruota. Vanno nel retro.

“Ragazzo, mi hanno detto che tu te ne intendi di legname, giusto?”

“Diciamo di si..cosa devo fare?”

“Ah, una cosetta tranquilla. Siamo tra i pochi che hanno ancora il forno a legna qui nei dintorni, io sono troppo vecchio per procurarmene di buona e i miei figli fanno altro. Ecco perché ho pensato a te. Te la senti, ragazzo?”

Beppe non se l’aspettava. Si è visto davanti falegnami con le mani nodose, piloni lanciati in velocità, aperture che placcano. Ha cambiato pannolini, diviso birre con sconosciuti in fredde notti nebbiose, ma mai si sarebbe aspettato che un vecchietto sorridente e con la voce lieve e grattugiata da qualche sigaretta nazionale lo mettesse così alle corde.

E senza apparente contatto.

Ma accetta, diventa un dipendente de “La Casa del Pane” del signor Gabriele e non ci pensa troppo. Mai davanti, mai a contatto diretto con le siorette del paesino, che poi magari si spaventano e non fanno più la pasta al forno più buona del mondo. né riuscirebbero a smacchiare quelle macchie che solo loro sanno togliere.

Dietro, tra legna, fuoco e levatacce a procurare materia prima buona. Impara anche ad impastare, il vecchietto lo prende con sé e gli insegna il mestiere, poco alla volta, ma il ragazzo impara in fretta.

Una mattina di dicembre suona il telefono.

È lui.

“Ragazzo, ho una consegna da farti fare. Vieni al negozio. E porta il bimbo”.

Richiesta strana, che c’entra il bambino?

Ne parla anche a Mary, il bimbo ascolta e non sente più ragioni.

“Papà, voglio venire con te!”

Ciao, vince a mani basse. Il vecchio Giovanni li aspetta al solito parcheggio, un gran sacco a terra. “Porta tutto a questo indirizzo, ci vediamo domani”

“Domani? Signor Gabriele, il furgone glielo porto fra un’ora”

“Non preoccuparti, vai tranquillo e portami tutto domani”.

Il bimbo si mette la cintura e se ne sta lì, buono e tranquillo. Beppe si chiede spesso da chi abbia mai preso ‘sto ragazzino, visto che a 4 anni lui già vantava ginocchia sbucciate e gomiti scorticati ovunque. Poi arriva all’indirizzo.

Che strano, un campo sportivo. A chi lo porto il pane qua?

Scarica pane, bimbo e si avvia. Una volta gli avevano parlato di un bar dentro il campetto, magari il pane lo attendono lì.

Si, ma cavolo, sono le sei di sera, chi vuole pane fresco a quest’ora? Poi legge due parole.

Club House.

Poi nota i pali. E quelli che ci giocano sotto.

Cuore in ghiaccio.

“Tu devi essere Beppe! Benvenuto!”

Beppe non parla più, non capisce più nulla. Vorrebbe anche dire qualcosa, ma provateci voi a dire qualcosa, poi recapitate la vostra risposta qui.

“Sono Giovanni, vieni con me. Posa pure il pane, poi gli spogliatoi sono lì fuori, in fondo a destra”

“Spogliatoi?”

“Si, Gabriele non ti ha detto niente? Prova a guardare nel retro del furgone”. Poi dà un buffetto al piccoletto. “Dovrebbe esserci qualcosa anche per il piloncino”

Beppe apre il portellone. Dietro ad un sacco vuoto non aveva notato due borsoni, uno grande e uno piccolo. Riforniti di tutto punto.

“Il signor Gabriele è nostro sponsor, quando ha saputo di te e della tua storia ci ha avvisato subito e ci ha chiesto informazioni. Oh, di te si è parlato e anche parecchio. Certo che ce ne vuole di culo per trovarsi il giudice pilone eh?”

Occhiolino, poi prepara due birre.

“Dai, beviamo, appoggia qui e vai a cambiarti, al piccolino ci pensiamo noi”.

Beppe non lo ammetterà mai, ma c’è chi giura e spergiura che quella notte abbia lasciato il cuscino umido di lacrime. Trova nuovi amici, nuovi compagni di birra, diventa proprietario de “La Casa del Pane” quando il buon Gabriele dispiega le ali verso la pensione.

Il bimbo intanto ha messo il caschetto. Al di là della linea bianca imperversa la battaglia. Chili e chili da una parte, chili e chili dall’altra, placcaggi, botte.

Il biondino si è fatto strada in allenamento, ora è giusto che inizi le sue battaglie.

Giovanni lo ha visto crescere, poi è andato da Beppe: “Oh, il tuo ragazzino non sarà un killer come te, ma ha due mani e due piedi che cantano. Io te lo dico, questo fa strada”.

Beppe sorrise. E sorride ancora, il suo piccolino sta entrando in campo.

È sabato 24 dicembre, il rugby (forse) ha una nuova stella.

Beppe lo sa, vede sugli spalti la sua Mary, entrambi sorridono.

Il bimbetto, biondo sotto il caschetto alla Larkham, entra in campo. In tanti non se ne accorgono, qualcuno gli dà una pacca sulle spalle, qualcuno si raccomanda. Qualcuno ha già capito cosa gli aspetta e cosa succederà, se qualcuno dovesse crederci fino in fondo.

Dicono avrà futuro, dicono potrebbe cambiare tutto. Dicono che uno così poi non l’hanno più visto, altri giurano che un giorno tornerà a sciogliersi un po’ ai bordi di quel campo. Non è dato saperlo.

 

Forse questa storia l’avete già sentita da qualche parte, scritta e raccontata  con parole migliori di queste.

Forse può essere capitata, a voi o a chi avete la fortuna di conoscere.

Forse anche voi siete in giro nella nebbia a cercare qualcosa, o qualcuno, che dia speranza ancora, sotto forma di lavoro, di una birra o di una serata tra risate e schiamazzi. Di una donna, due donne, quante ne volete. Del sorriso dei vostri figli.

E se non l’avete ancora, questo qualcosa, vi auguriamo di trovarlo, prima o poi.

 

Buon Natale a tutti.

Debutto (Storia di Natale)

Twickenham veste stretto

L’Inghilterra con il sole si dà fino ad un certo punto.

Il cielo delle grandi occasioni, da queste parti, è grigio come certi abiti formali, di quelli che può capitare di sentirsi a disagio quando li si porta. Una, forse due volte all’anno, forse ad un matrimonio, forse ad una cena aziendale, magari anche mai.

Eppure, in mezzo a quei colori tenui e marziali, gli inglesi si sentono a loro agio. Comodi come quando ci si scambia un colpo di bicchiere al pub. E sono ancora più a loro agio se vedono un pallone ovale caracollare da una pare all’altra di un prato verde, meglio se delimitato da pali e linee bianche.

Più a loro agio di tanti altri.

Twickenham, nel grigio, è il tempio che sembra inviolabile.

Soprattutto quando il settore ospiti pullula di italiani.

Mai battuti gli inglesi a rugby, non a livello di squadre maggiori.

Se escludiamo Huddersfield, perché lì, gli inglesi, segnarono solamente alcuni punti in più.

Ma dal 1998 sono passati quindici anni, è giunto forse il momento di riprovarci. Anche perché l’Italia del 6 Nazioni 2013 non è una squadra passata spesso nei nostri cieli: Parisse è in una annata di grazia, la generazione lanciata da Kirwan e Berbizier è al suo apogeo, altri giocatori stanno vivendo periodi di forma mai visti prima. La Benetton Treviso di Franco Smith si sta portando dove nessuna squadra italiana si è (ancora) portata in Europa. E i risultati, in campo, si vedono: a novembre gli azzurri tengono splendidamente il campo contro gli All Blacks e rischiano di far saltare il banco contro l’Australia al termine di una rimonta emozionante. E, a febbraio, la Francia cade all’Olimpico, bastonata più nel gioco che nel punteggio.

Certo, l’Italia è in quella fase della vita in cui non si sa ancora cosa si farà da grandi: contro una non irreprensibile Scozia si perde molto male. Contro il Galles per un’ora giochiamo discretamente, ma poi si aprono due varchi e gli uomini di Gatland scappano.

Poi tocca andare a Twickenham.

L’Inghilterra di Stuart Lancaster è una Rosa a cui manca poco per sbocciare. A novembre nel più famoso campo di cavoli ovale sono caduti pure gli All Blacks e niente sembra far presagire un rovescio contro gli azzurri. I bookmakers, quelli che scommettono pure sul colore della cravatta di Boris Johnson o su quanti “Order” dirà lo speaker della Camera martedì prossimo, non accettano quote al di sotto dei 26 punti di scarto. L’idea in Italia è che il colpaccio vero l’abbiamo mancato nel 2012, sotto la neve di Roma, contro una squadra inglese profondamente rinnovata e dall’esperienza relativa.

Contro quelli lì, il 10 marzo 2013, non è cosa.

Anche perché, fino a qualche ora prima del match, Parisse è dato per squalificato.

Laurent Cardona, arbitro francese, l’ha sentito imprecare in inglese.

Un italiano del Rio De La Plata, da quasi dieci anni in Francia, si mette ad insultare l’arbitro in inglese.

Poliglotta, il ragazzo.

Le accuse cadranno qualche giorno prima, Sergio potrà giocare.

Ma è dura lo stesso.

Per quanto Lancaster abbia infuso nei suoi ragazzi un rugby arioso, sincopato, in cui alcuni intenditori ci hanno visto pure qualche nota di jazz, gli inglesi non hanno mai dimenticato la prima regola aurea del loro gioco: avanzare.

E lo fanno maledettamente bene, a spallate.

Flood, schierato al posto di Farrell, capitalizza al piede, 6 a 0 dopo pochi minuti. Ma non è tanto il risultato, quanto tutto quel che riusciamo a scampare: per poco Brown non riesce a schiacciare dopo aver intercettato un calcio di Venditti. La mischia, per quanto riusciamo a schierare due intere prime linee di valore mondiale, arretra e arranca. Orquera accorcia dalla piazzola al primo sussulto azzurro, poi ci liberiamo dal torpore a cui eravamo stati costretti: Zanni e Parisse scavano un buco gigantesco lungo l’out di destra, entriamo nei 22, ma George Clancy, l’arbitro, ravvisa un tocco in avanti del nostro capitano. Era stato Brown col piede alla disperata, ma l’azione purtroppo muore lì. Nel nostro momento migliore, però, Gori la fa grossa: riceve palla da Parisse da mischia ordinata e calcia basso. L’ovale rimbalza sulle gambe di Flood, che si invola. Ugo lo trattiene per un braccio, Clancy e lo stesso numero 10 non perdonano: giallo e tre punti dalla piazzola.

Si torna a soffrire. Gli azzurri si difendono con unghie, denti e pure qualcos’altro: Garcia, per esempio, è praticamente schierato a uomo su Tuilagi, lo prende sempre e comunque.  Geldenhuys non lo vedi, ma non c’è inglese che non ne senta la presenza. Masi è ovunque, Orquera è palesemente il più mingherlino in campo ma nessuno se ne rende veramente conto.

Sì, bene, ottimo. Ma quanto potremo durare così?

Gli inglesi, infatti, sembrano poter dilagare da un momento all’altro.

Flood centra i pali altre due volte a cavallo dei due tempi, è 15 a 3.

Il cielo di Twickenham, però, questa volta non è l’abito più comodo del mondo.

Magari lo diventerà, magari toglieranno uno spillo fastidioso nei prossimi minuti.

Però nel frattempo Cittadini arrota Vunipola e Orquera accorcia, 15 a 6.

E nell’azione successiva l’aria comincia a farsi pesante: da touche inglese Care sbanana il calcio. L’ovale lo prende Alessandro Zanni. È da anni che non si vede Zanni retrocedere a contatto, non succede nemmeno questa volta. In pieni 22 Gori serve Orquera, che si rende conto che seconda linea di difesa è salita male.

E calcia all’ala.

Si avventa Luke McLean, uno dei giocatori più sottovalutati che abbiano vestito l’azzurro. È meta.

Agli inglesi, il vestito di cui sopra, comincia a prudere parecchio.

Orquera non trasforma da posizione difficile, e purtroppo concede il bis dopo che tre inglesi hanno cercato di fermare Venditti con le cattive e con le cattivissime. Flood poco dopo non ci riserva la stessa premura e ci ricaccia a meno sette, ma gli ultimi quindici minuti sono un assedio azzurro.

I padroni di casa sporcano qualsiasi raggruppamento, Clancy silente approva. I nostri ci provano tutti: Zanni non retrocede mai, Masi non trova nessuno dei suoi sul più bello, Venditti lo devono fermare in tre. McLean semina a più riprese uno come Ashton, magari non il più simpatico della compagnia (dopo i Monty Python lassù si è riso pochino), ma uno con le ali ai piedi. Garcia, che ha placcato qualsiasi cosa gli passasse accanto, adesso fa breccia spesso e volentieri, smentendo un vecchio ct che lo vedeva solamente come un autoscontro.

Poi, però, perdiamo palla in avanti.

Gli inglesi si guardano increduli, si sono salvati.

Si risistemano la cravatta come se nulla avesse rischiato di far cadere certezze su certezze.

D’altronde, il cielo di Twickenham è ancora lì, grigio, rassicurante come un abito formale portato da chi quell’abito lo sa portare.

A Cardiff andrà diversamente, sei giorni dopo.

Il rosso, in certe serate, non lo possono portare proprio tutti.

Gli azzurri, da Twickenham, escono da eroi.

Spettinati, vestiti meglio rispetto a quando avevano varcato la linea degli spogliatoi, ma certi che, quando si diventerà grandi, certi abiti non staranno male.

Speriamo di diventarlo, prima o poi.

Grandi, prima ancora che eleganti.

Poi qualche figurone lo faremo.

Con o senza abito. Con o senza grigio di Twickenham.

Quel che è certo è che saremo bellissimi.

Twickenham veste stretto

Grandi domani

McGeechan ha lo sguardo disperatamente puntuale del britannico fuori dalla zona di comfort: vorrebbe tanto essere altrove, tra le sue viscere sta divampando una fornace di maledizioni, ma i lineamenti del viso, al di là di qualche ruga dovuta alla spossatezza, non traspaiono granché.

Gli chiedono come sia possibile che esista una così grande differenza tra i titolari e le riserve della sua selezione, lui risponde “I can’t”, non ce la fa.

La verità, anni dopo, la possiamo toccare con mano. Basterebbe sfogliare qualche pagina di storia del rugby per capire che lì al Rugby Park i suoi Lions non hanno giocato contro dei signori nessuno. Che i ragazzi di Waikato erano qualcosa di più delle mere statistiche che li avevano accompagnati nei taccuini britannici. E che – soprattutto – non bisogna mai sottovalutare un test infrasettimanale in un tour lungo e accidentato nella terra in cui il rugby è diventato un altro sport.

Solo che, nel 1993, quei ragazzi in rosso, giallo e nero, altro non sono che una tappa di avvicinamento all’incontro più difficile e importante, la “bella” contro gli All Blacks. Gavin Hastings e i suoi avevano perso di poco il primo incontro e vinto più nettamente il secondo, di lì a pochi giorni, in quel di Auckland, si sarebbe disputato l’incontro che suggella una carriera.

E allora, in quel di Hamilton, ci va la seconda squadra.

La squadra di solito utilizzata per gli incontri infrasettimanali, quelli con le rappresentative.

A guardare i nomi, a livello europeo è dura far di meglio: McGeechan schiera prima e seconda linea scozzese, Will Carling ai centri, Stuart Barnes all’apertura. Certo, i migliori sono a riposo, ma si sorpassano abbondantemente i 200 caps, ottenuti in tempi in cui gli incontri erano molto più rarefatti rispetto a quello  cui siamo abituati oggi.

Dall’altra parte, invece, i caps sono solo cinque. Tre li inanella Matthew Cooper, estremo o centro. Solido in difesa, non un cecchino al piede. Sarà in campo il giorno in cui i francesi decisero di regalare all’Eden Park di Auckland un ultimo giorno di mortalità, poi quasi entrerà nella storia, sfiorando la qualificazione mondiale con la maglia della Croazia. Gli altri due, uno a testa, appartengono a Brent Anderson, trentatreenne seconda linea, e a Graham Purvis, pilone destro.

Cinque caps.

Strano, se consideriamo che qualche mese prima hanno sbaragliato la concorrenza in NPC.

Più di qualcuno, però, ha preso parte a qualche tour.

Altri si sono ritrovati una bella colonna davanti.

Più di qualche altro ha deciso di rimanere, nonostante in Europa le offerte non fossero propriamente poche.

Si dice, però, che parecchi di quelli di Waikato abbiano materia grigia da vendere.

L’apertura, dicono, e pure il numero 8.

Quello esagerato, però, se chiedete a Hamilton e dintorni, è il tallonatore.

Lo chiamano Sumo, il ché vi dovrebbe dire molto sulla sua mobilità fisica. Ma a livello di concentrazione, di capacità di entrare nel match e di analisi di avversari e compagni è argenteo.

Non sbaglia un colpo, nemmeno fuori dalla mischia.

Non di rado, infatti, va dai suoi trequarti con una nuova giocata per loro.

La giocata, il più delle volte, finisce nel taccuino.

Al Rugby Park il pubblico è parecchio caldo, ma i Lions non hanno nemmeno il tempo di rendersi conto di quel potentissimo sedicesimo uomo. Quarantanove secondi e Wilson ha già schiacciato in bandierina.

No, non finisce qui.

Per ottanta minuti gli uomini di McGeechan sembrano il pugile che non riesce ad uscire dall’angolo. Ma non è che non abbiano le forze, non hanno proprio il tempo di levarsi dalle corde. I ragazzi di Waikato sono furenti e furiosi, in mischia quel tallonatore non fa vedere l’ovale ai cinque scozzesi che gli si parano davanti, al resto ci pensano gli altri: Duane Monkley, per esempio, numero 7. È un moto perpetuo, non dà tregua a nessuno dei suoi avversari. Segna due mete una più bella dell’altra, la seconda dopo una lunga sgroppata del numero 8, quelli vestiti di rosso non lo prendono mai.

E poi, dietro, quell’apertura non sbaglia un colpo.

Dicono che nella linea dinastica alla Corona, cioè alla maglia numero 10 nera, sia il quinto. Forse il sesto. Solo che ti viene da pensare che un paio di quelli che lo precedono vengano da Marte, perché altrimenti non si spiega.

Il primo tempo si chiude sul 26 a 3, ma il risultato potrebbe essere anche più rotondo. Cooper non ha una gran giornata al piede, per esempio. E, dall’altra parte del campo, qualche sacrificio riesce a rendere meno disumana la tariffa.

Nella ripresa il copione non cambia: i Lions subiscono, Waikato potrebbe dilagare ma pecca di generosità. Segnano Collins, meraviglioso secondo centro che giocherà con i Maori All Blacks, e il tallonatore di cui sopra. Lo vedi, ha un ventre sfrontato, il passo macilento di chi è costretto a fare jogging la domenica mattina, ma nessuno lo riesce a placcare. Anche perché, per l’ennesima volta, si è presentato all’appuntamento con l’ovale come nemmeno il Filippo Inzaghi dei bei tempi d’oro.

Per i Lions segnerà Will Carling, capitano di giornata, a fischio finale ormai imminente.

McGeechan, a fine partita, ha lo sguardo disperatamente puntuale del britannico fuori dalla zona di comfort: vorrebbe tanto essere altrove, tra le sue viscere sta divampando una fornace di maledizioni, ma i lineamenti del viso, al di là di qualche ruga dovuta alla spossatezza, non traspaiono granché.

“I can’t”, non posso spiegare che è successo la dentro.

Difficile eh, se si è nel 1993 e se quegli avversari, così dannatamente irraggiungibili nel rettangolo verde, non sono stati visionati granché nei mesi precedenti.

D’altronde una squadra così, con solamente tre giocatori che hanno visto la felce argentata vicino al loro cuore e nemmeno così tante volte, mica sembrava così pericolosa.

La verità, anni dopo, la possiamo toccare con mano. Basterebbe sfogliare qualche pagina di storia del rugby per capire che lì al Rugby Park i suoi Lions non hanno giocato contro dei signori nessuno. O meglio, che quegli avversari così imprendibili, prima nel concetto e poi sul campo, mica erano destinati a rimanere dei buoni giocatori.

Duane Monkley, per esempio, qualche anno dopo, è diventato un apprezzato allenatore.

Di ottimo livello eh, ma nemmeno il migliore di quelli scesi in campo quel giorno.

Prendete quel tallonatore, per esempio.

Sumo, esatto.

Quello che inventava le giocate dei suoi trequarti pur rimanendo ancorato ad una mischia.

Anche lui diventerà un allenatore di una certa rilevanza, se è vero che ventiquattro anni dopo, dopo un lungo viaggio a cavallo delle migliori panchine europee, i Lions in Nuova Zelanda li guiderà lui. Si chiama Warren Gatland, nel suo ufficio privato ha ancora una sedia gialla, rossa e nera.

Oppure quel numero 8. Due gambe chilometriche, un’eleganza da destriero, un rilascio della palla soffice come una nuvola. Sei anni più tardi, non ancora quarantenne, riceverà una chiamata di quelle che lasciano il segno, visto che all’anagrafe il ragazzo è registrato come John Eric Paul Mitchell e avrà il coraggio di mettere assieme la più grossa quantità di talento offensivo e di sfrontatezza mai visti a queste latitudini.

Oppure quel mediano d’apertura.

Un numero 10 straordinario per leadership, senso dell’ordine e inventiva.

Spaventosamente sottovalutato in patria, considerato uno dei tanti da troppi allenatori e avversari, McGeechan in primis.

Per fortuna qualcuno laggiù, in quell’isola chiamata Nuova Zelanda, non si è fatto scappare Ian Foster troppo a lungo.

Uno di quelli che hanno sgomitato a lungo, imprigionato in una carriera normale.

Come Warren, come John.

Sapendo che, forse, un domani, sarebbero diventati dei giganti.

A Waikato sì, che se ne intendono.

Grandi domani

Rebond

Una delle prime cose che ti insegnano quando cominci a giocare a rugby è che il pallone rimbalza male.

Alcuni ti dicono che quello strano ovale sia come un certo tipo di amori, non bisogna tenerlo troppo, ma nemmeno lasciarlo troppo andare, perché poi la sua imprevedibilità potrebbe pure essere tossica.

Non ci credete?

Mi chiamo Clement Poitrenaud, ho totalizzato quarantasette presenze con la Nazionale Francese, quasi trecentocinquanta con lo Stade Tolousain e, in carriera, ho segnato quasi quattrocento punti. Quel pallone mi ha portato tante gioie, mi ha fatto vivere momenti tra i più luccicanti della mia storia ovale. L’ho tenuto stretto tante volte, l’ho passato altrettante, l’ho calciato via con la promessa di tornare a riprenderlo qualche metro più avanti, ma anche per scacciare pericoli, avversari e pressione.

Con me, quel pallone, ha rimbalzato poche, pochissime volte.

Poche, pochissime volte di troppo.

Nel giorno più sbagliato, nel momento peggiore.

Perché una finale di Heineken Cup è un ottimo momento per sbagliare tutto.

Soprattutto se alla fine manca veramente troppo poco per raddrizzare le cose.

Soprattutto se, per buona parte del match, io e i miei compagni abbiamo dovuto inseguire gli avversari, i London Wasps. Che bella squadra, la loro: Lawrence Dallaglio, Joe Worsley, Simon Shaw, quel cecchino di Van Gisbergen. Neppure noi siamo male, tanti di noi hanno contribuito a vincere il Sei Nazioni: Dominici, Heymans, Jauzion, Michalak, Servat. Belli noi, belli loro.

Quasi alla pari.

Meglio, alla pari.

Loro quasi sempre avanti, noi ad inseguire. Una meta di Delaigue, altri piazzati del nostro numero 10. Poi un cartellino giallo a Dallaglio e rientriamo, da 20-11 a 20-20 con un piazzato di Elissalde.

Mancano due minuti e rotti. King, il loro mediano di apertura, calcia a seguire. L’ovale finisce direttamente nella nostra area di meta, nessuno di loro ha gambe e fiato per andarlo a schiacciare. Michalak, tranquillo e pacifico, annulla. Drop per noi dalla linea dei 22. Certo, molto probabilmente la palla finirà a loro, ma dovranno ripartire da lontano. E mica è detto che riescano a tornare da queste parti.

Il drop vira tutto a destra. La palla è loro. L’ha appena presa in mano Rob Howley, numero 9 avversario e della nazionale gallese. Non ha troppo spazio, ci sono almeno tre miei compagni di squadra che gli stanno per saltare addosso e la linea di touche è veramente troppo vicina. Se lo portano fuori è touche nostra da metà campo.

Howley, però, calcia.

Non ha un gran rilascio della palla, però l’ovale rimbalza in campo.

Io sono là dietro.

Lungo, è lungo.

E tende ad uscire.

Ma non esce.

E non sembra nemmeno così lungo.

Una delle prime cose che ti insegnano quando cominci a giocare a rugby è che il pallone rimbalza male.

Alcuni ti dicono che quello strano ovale sia come un certo tipo di amori, non bisogna tenerlo troppo, ma nemmeno lasciarlo troppo andare, perché poi la sua imprevedibilità potrebbe pure diventare tossica.

Non ci credete?

Ecco, arriva in area di meta. Alla buon’ora, vorrei quasi dire.

Ora lo prendo e lo calcio via.

No no, nessun calcio a seguire, più distante va e meglio è.

Dai, muoviti.

Lo prendo, ci sono.

Ma mi sfugge dalle mani.

Howley.

Non mi è sfuggito dalle mani, me l’ha proprio scippato.

L’arbitro vuole vederci chiaro, ma io so già che è finita, l’ho visto troppo bene quel gallese.

Ci ha creduto fino alla fine.

Forse è quello il segreto dei rimbalzi: devi crederci, non attendere.

Credo che a Twickenham, in quel giorno di maggio del 2004, mi sia arrivata tra capo e collo la più bella e brutale lezione di vita e di rugby che mi potesse mai capitare. Una di quelle bastonate indimenticabili, una di quelle solenni figuracce che potrebbero stroncare carriere e talenti non ancora del tutto affermati.

Io ho atteso, per una volta non ci ho creduto.

Quel pallone ha rimbalzato poche, pochissime volte.

Poche, pochissime volte di troppo.

Mi chiamo Clement Poitrenaud e da lì sono ripartito.

Le statistiche non le ripeto, sono qua sopra.

Ma da quel giorno, ogni minimo pallone caduto nelle mie vicinanze, l’ho preso al volo.

Abbracciato forte.

L’ho tenuto stretto tante volte, l’ho passato altrettante, l’ho calciato via con la promessa di tornare a riprenderlo qualche metro più avanti, ma anche per scacciare pericoli, avversari e pressione.

Ma non ho più atteso che un ovale decidesse per me.

Rebond