Rebond

Una delle prime cose che ti insegnano quando cominci a giocare a rugby è che il pallone rimbalza male.

Alcuni ti dicono che quello strano ovale sia come un certo tipo di amori, non bisogna tenerlo troppo, ma nemmeno lasciarlo troppo andare, perché poi la sua imprevedibilità potrebbe pure essere tossica.

Non ci credete?

Mi chiamo Clement Poitrenaud, ho totalizzato quarantasette presenze con la Nazionale Francese, quasi trecentocinquanta con lo Stade Tolousain e, in carriera, ho segnato quasi quattrocento punti. Quel pallone mi ha portato tante gioie, mi ha fatto vivere momenti tra i più luccicanti della mia storia ovale. L’ho tenuto stretto tante volte, l’ho passato altrettante, l’ho calciato via con la promessa di tornare a riprenderlo qualche metro più avanti, ma anche per scacciare pericoli, avversari e pressione.

Con me, quel pallone, ha rimbalzato poche, pochissime volte.

Poche, pochissime volte di troppo.

Nel giorno più sbagliato, nel momento peggiore.

Perché una finale di Heineken Cup è un ottimo momento per sbagliare tutto.

Soprattutto se alla fine manca veramente troppo poco per raddrizzare le cose.

Soprattutto se, per buona parte del match, io e i miei compagni abbiamo dovuto inseguire gli avversari, i London Wasps. Che bella squadra, la loro: Lawrence Dallaglio, Joe Worsley, Simon Shaw, quel cecchino di Van Gisbergen. Neppure noi siamo male, tanti di noi hanno contribuito a vincere il Sei Nazioni: Dominici, Heymans, Jauzion, Michalak, Servat. Belli noi, belli loro.

Quasi alla pari.

Meglio, alla pari.

Loro quasi sempre avanti, noi ad inseguire. Una meta di Delaigue, altri piazzati del nostro numero 10. Poi un cartellino giallo a Dallaglio e rientriamo, da 20-11 a 20-20 con un piazzato di Elissalde.

Mancano due minuti e rotti. King, il loro mediano di apertura, calcia a seguire. L’ovale finisce direttamente nella nostra area di meta, nessuno di loro ha gambe e fiato per andarlo a schiacciare. Michalak, tranquillo e pacifico, annulla. Drop per noi dalla linea dei 22. Certo, molto probabilmente la palla finirà a loro, ma dovranno ripartire da lontano. E mica è detto che riescano a tornare da queste parti.

Il drop vira tutto a destra. La palla è loro. L’ha appena presa in mano Rob Howley, numero 9 avversario e della nazionale gallese. Non ha troppo spazio, ci sono almeno tre miei compagni di squadra che gli stanno per saltare addosso e la linea di touche è veramente troppo vicina. Se lo portano fuori è touche nostra da metà campo.

Howley, però, calcia.

Non ha un gran rilascio della palla, però l’ovale rimbalza in campo.

Io sono là dietro.

Lungo, è lungo.

E tende ad uscire.

Ma non esce.

E non sembra nemmeno così lungo.

Una delle prime cose che ti insegnano quando cominci a giocare a rugby è che il pallone rimbalza male.

Alcuni ti dicono che quello strano ovale sia come un certo tipo di amori, non bisogna tenerlo troppo, ma nemmeno lasciarlo troppo andare, perché poi la sua imprevedibilità potrebbe pure diventare tossica.

Non ci credete?

Ecco, arriva in area di meta. Alla buon’ora, vorrei quasi dire.

Ora lo prendo e lo calcio via.

No no, nessun calcio a seguire, più distante va e meglio è.

Dai, muoviti.

Lo prendo, ci sono.

Ma mi sfugge dalle mani.

Howley.

Non mi è sfuggito dalle mani, me l’ha proprio scippato.

L’arbitro vuole vederci chiaro, ma io so già che è finita, l’ho visto troppo bene quel gallese.

Ci ha creduto fino alla fine.

Forse è quello il segreto dei rimbalzi: devi crederci, non attendere.

Credo che a Twickenham, in quel giorno di maggio del 2004, mi sia arrivata tra capo e collo la più bella e brutale lezione di vita e di rugby che mi potesse mai capitare. Una di quelle bastonate indimenticabili, una di quelle solenni figuracce che potrebbero stroncare carriere e talenti non ancora del tutto affermati.

Io ho atteso, per una volta non ci ho creduto.

Quel pallone ha rimbalzato poche, pochissime volte.

Poche, pochissime volte di troppo.

Mi chiamo Clement Poitrenaud e da lì sono ripartito.

Le statistiche non le ripeto, sono qua sopra.

Ma da quel giorno, ogni minimo pallone caduto nelle mie vicinanze, l’ho preso al volo.

Abbracciato forte.

L’ho tenuto stretto tante volte, l’ho passato altrettante, l’ho calciato via con la promessa di tornare a riprenderlo qualche metro più avanti, ma anche per scacciare pericoli, avversari e pressione.

Ma non ho più atteso che un ovale decidesse per me.

Rebond