La cinica lotteria dei rigori

Mai vista una roba del genere. Ma proprio mai.

Cento minuti di gioco, ottanta regolamentari e venti di supplementari, nessun vincitore. Certo che capitano i pareggi nel rugby, sono rari ma capitano.

In campionato, almeno.

In una semifinale di Heineken Cup non si erano mai visti. Partite chiuse, combattute, difficilmente bellissime e a viso aperto, ma sempre con un vincitore al termine degli ottanta minuti. Il Millennium Stadium, non pieno ma bello vivace, sta assistendo a una cosa mai vista.

Si decide tutto agli shoot-out, praticamente i rigori calcistici mutuati al rugby.

Pallone su piazzola, linea dei 22. Due pali da centrare, una traversa da superare.

Prima quelli che le tomaie le sanno far parlare, che magari cerchiamo di chiuderla subito.

Poi gli altri, forse.

Senza forse.

Prima quelli che ogni tanto calciano alla disperata, poi quelli che i piedi non se li guardano da un po’.

Tocca al Capitano, al Re di Cardiff.

Martyn Williams, in due parole.

Qualche anno in più rispetto ai tempi d’oro, qualche capello rosso in meno. Chili e presenza fisica sempre uguali. Uno dei cardini del Galles due volte autore dello Slam e uno degli idoli indiscussi di Cardiff. Recordman di presenze in maglia rossa. L’ultima volta che ha visto una piazzola da così vicino, forse, è stato in qualche campo di periferia, in una qualche selezione giovanile, negli anni in cui, prima che Madre Natura decida per te, i ruoli te li sei cuccati più o meno tutti.

Eh, con Martyn Williams dev’essere andata così, qualche capatina tra i centri da giovane deve averla fatta. Quegli angoli di corsa e quella progressione, se non nasci nell’altro emisfero, non è che si vedono così tanto spesso in giro.

O forse quando giocava a calcio.

Difensore centrale, sempre a livello giovanile.

Altri mondi, altri palloni.

Piazzola. Ovale caricato, pubblico di più. Williams qualche volta i piedi addosso ad un pallone li ha messi. Calci di spostamento per lo più, anche qualche perfido rasoterra a mettere in difficoltà le seconde linee di difesa avversarie. Sì, ma la piazzola è un mondo a parte. Ci vogliono concentrazione, battito cardiaco da scalatore consumato sul Pordoi, sangue freddo.

E mira. Tantissima mira.

Hanno sbagliato in tanti, con i pali davanti.

Chiedete a Julien Dupuy, mediano di mischia francese del Leicester. Tanti anni a Biarritz, gioco ordinato e pulito, tanto ritmo. E tanta precisione davanti ai pali. Sì, ma a Cardiff i primi tre tentativi finiscono fuori. Cavolo, avrebbero Toby Flood, da tanti designato come il vero erede di sir Jonny Wilkinson, ma fanno calciare quel francese. Gli inglesi avevano investito qualche soldo in Derick Hougaard, sudafricano entrato dalla parte sbagliata della storia il giorno in cui, alla Coppa del Mondo del 2003, decise di raccogliere uno dei più brutti passaggi mai partoriti da Joos van der Westhuizen. Gli arrivò addosso Brian Lima lanciato a mille come gli omonimi trenini, si rialzò dopo cinque minuti. Gran piede, quell’Hougaard, solo che è infortunato. Male, perché i Blues possono vantare tra i  titolari almeno tre piazzatori con ottime percentuali. Sono andati in vantaggio con una stoccata di Ben Blair, estremo, già titolare con gli All Blacks, capace di segnare quasi 200 punti con i Crusaders negli anni del passaggio di consegne tra Andrew Mehrtens e Dan Carter.

Avercene.

Ne hanno, ne hanno.

Da questo punto di vista sembrano il Brasile del ’70, quello che schierava cinque numeri 10 alla volta. All’apertura c’è Nicky Robinson, sfortunato nel trovarsi davanti, a livello nazionale, un mostro come Stephen Jones. Ma un sinistro così, a livello europeo, lo si è visto poche volte. E all’ala, a fare da apprendistato, c’è un ventenne di belle speranze. È piccolino, è alto “solamente” 178 centimetri, ma è un mago sui palloni alti. Ha già debuttato in Nazionale, dicono sarà l’estremo titolare alla prossima Coppa del Mondo. Si chiama Leigh Halfpenny, ne risentiremo parlare. I Cardiff Blues sono una gran squadra, unica a terminare la fase a gironi dell’Heineken Cup edizione 2008-2009 da imbattuta. E no, non ci sono solo piedi educati lì dietro: ci sono le gambe di Tom James, due centri come Jamie Roberts e Tom Shanklin, una terza linea spaventosa dove, oltre al Capitano Martyn Williams, trovano spazio Xavier Rush e il gigantesco Molitika, che a fine carriera passerà pure per San Donà senza far notare i quasi quarant’anni sulla carta d’identità. Gethin Jenkins, Filise, Bradley Davies. Paul Tito, che è capitano e ha già abbandonato il match dopo soli 9 minuti. Uno squadrone, in grado di battere lo Stade Tolousain ai quarti di finale e di potersi giocare la semifinale di nuovo in casa. Dall’altra parte, però, non è che se ne stiano con le mani in mano: è vero, Dupuy sbaglia tre calci, ma al primo allargamento Flood attacca la linea e scarica l’ovale a Scott Hamilton, spuntato fuori a sirene spiegate da non si sa dove. Meta in mezzo ai pali, stavolta Dupuy fa centro. No, Leicester non se ne sta con le mani in mano, né dispone di una brutta squadra, se è vero si possono permettere di tenere in panca un genio come Aaron Mauger, 46 volte All Blacks. In prima linea gravitano due mostri come Marcos Ayerza e il nostro Martin Castrogiovanni, poi ci sono Ben Kay, Jordan Crane e Tom Croft. Non si sono visti molti avanti in Inghilterra con l’acume tattico e la materia grigia di Tom Croft.

Sono due gran squadre, è giusto che siano lì a giocarsi un posto in finale, contro il Leinster. Dupuy infila un altro calcio, ma a recuperare lo strappo inglese ci pensano due piazzati chilometrici di Halfpenny inframmezzati da uno di Blair, 12 a 10. Il Millennium, dopo qualche minuto di spavento, riprende colore. Dupuy chiude il primo tempo con un altro piazzato, poi si inventa la seconda meta inglese: lunga corsa sul filo della rimessa laterale di Johne Murphy, un paio di raggruppamenti nei 22. Poi il numero 9 francese fa il giocoliere e infila Flood in un buco millimetrico. Capisce tutto Geordan Murphy, capitano irlandese dei Tigers. Fanno a tempo a prendergli la targa, è 20 a 12 in mezzo ai pali. Arrivano altri due calci inglesi, Dupuy sembra aver scaldato il piede.

La partita, quando mancano meno di venti minuti, sembra segnata. E chi li recupera quattordici punti a quella squadra? È da un’ora che i Tigers stanno massacrando i padroni di casa ad ogni raggruppamento, c’è Tom Croft che a momenti cammina su acque che i gallesi a malapena riescono ad increspare.

Erodono metri, non lasciano un minimo di spazio di manovra.

Certo, avranno steccato contro Perpignan e Ospreys nel girone, ma deve succedere veramente qualcosa di insondabile per rimettere in piedi la partita.

Succede, succede.

Si fa male Flood, innanzitutto, che stava facendo un partitone. Poi ci pensano Newby e Geordan Murphy, un giallo a testa, tra il 62’ e il 68’. La terza linea rientra con il punteggio invariato, ma a cambiare è proprio il vento: i Blues prendono coraggio e ci provano. Mancano sette minuti, Jamie Roberts riceve l’ovale sui dieci metri, finta un passaggio e si infila nel buco. Poi naviga, ma non è più raggiungibile.

Non da terrestri, almeno.

Blair, da posizione improba, indovina i pali. Il Leicester riparte dal drop, palla a Cardiff.

Che allarga tutto l’allargabile.

O quasi, perché Jamie Roberts prende l’interno e rompe un placcaggio.

Il Millennium salta per aria, c’è superiorità netta. Roberts fissa l’uomo e serve Tom James.

Sono sessanta metri tondi tondi, gli inglesi la palla non la vedono più.

Blair trasforma ancora, è pareggio.

E adesso?

Nei due supplementari, se si esclude un velleitario drop di Johne Murphy, non succede praticamente nulla.

Fino a due minuti dal termine, quando comincia quella che è una vera e propria corsa agli armamenti. Leicester si ritrova senza calciatori di ruolo in campo, visto l’infortunio di Flood e vista la sostituzione di Dupuy nel secondo tempo.

Dan Hipkiss, secondo centro mai famoso per dei piedi canterini, sanguina dal labbro. È necessario un cambio, torna in campo Dupuy. Nello stesso momento i Blues cambiano Jamie Roberts, bene ma non benissimo alla tomaia. Entra Ceri Sweeney, già nazionale e già apertura di ruolo ai Dragons.

Ottimo dalla piazzola, ça va sans dire.

Poi i supplementari terminano, comincia il ballo dei debuttanti.

Si decide tutto agli shoot-out, praticamente i rigori calcistici mutuati al rugby.

Pallone su piazzola, linea dei 22. Due pali da centrare, una traversa da superare. Prima quelli che le tomaie le sanno far parlare, che magari cerchiamo di chiuderla subito.

Poi gli altri, forse.

Cominciano la serie Blair e Dupuy, segnate un bersaglio a testa.

I Blues sulla carta sono favoriti, hanno in lista quattro giocatori che in potenza potrebbero tranquillamente essere piazzatori designati senza che risultato sul campo e percentuali balistiche cambino di molto. Halfpenny e Robinson centrano i pali, pareggiano a loro volta Sam Vesty e Geordan Murphy, quest’ultimo con qualche brivido.

Leicester termina qui le sue carte pesanti in questo fondamentale, da ora in poi è creatività o quasi.

Tocca a Sweeney intanto, ancora dentro.

Poi Johne Murphy.

È quello che ha provato il drop ai supplementari.

Fuori.

Cardiff, nel tripudio generale, ha il match ball.

Si presenta dalla piazzola Tom James, che qualche allenamento al piede con Neil Jenkins, in Nazionale, l’ha pure fatto. È mancino, sistema la palla. Guarda i pali, rincorsa lenta.

Palla fuori di un bel po’.

E allora non è finito niente.

Pareggia Hamilton, si va ad oltranza.

Segnano Shanklin e Mauger.

Cavolo, gli inglesi hanno Mauger e lo usano solo ora.

Dentro.

L’ovale calciato da Richie Rees compie un Fosbury sulla traversa: bassissimo, si arrampica a fatica, si inarca, va di là. Il Millennium trattiene il fiato per un po’, guarda le bandierine alzarsi, respira.

Newby pareggia, pure con un gran bel calcio.

Mai vista una roba del genere. Ma proprio mai.

No, non il calcio di Newby.

Tutto questo pathos si era abituati a vederlo altrove, lontano da palle ovali e pali a forma di acca.

Tocca al Capitano, al Re di Cardiff. Martyn Williams, in due parole. Qualche anno in più rispetto ai tempi d’oro, qualche capello rosso in meno.

Piazzola.

Ovale caricato, pubblico di più.

Williams qualche volta i piedi addosso ad un pallone li ha messi. Calci di spostamento per lo più, anche qualche perfido rasoterra a mettere in difficoltà le seconde linee di difesa avversarie. Qualche presenza da difensore centrale negli anni delle giovanili.

Sì, ma la piazzola è un mondo a parte.

Ci vogliono concentrazione, battito cardiaco da scalatore consumato sul Pordoi, sangue freddo.

E mira. Tantissima mira.

L’ovale finisce a lato.

E adesso il match ball ce l’ha Leicester con Jordan Crane. Crane a dodici anni ha fatto un provino per il West Bronwich Albion, club calcistico inglese di discreto valore e fascino. Tutta la Cardiff che sa questa storia sta sperando che si sia dimenticato come si fa a colpire decentemente un pallone con quelle strane protuberanze sotto le caviglie.

Pali centrati, è finita.

Gli inglesi esultano, ma sono contenuti. No, non perché sono inglesi e quelle cose lì bisogna farle con moderazione, che son cose da gente di lignaggio più basso. Gli inglesi si battono il cinque, si abbracciano. Poi vanno a salutare Martyn Williams, seduto in mezzo al verde di un campo dal quale vorrebbe volentieri sparire. Lo abbracciano, lo rincuorano a parole.

Non è circostanza, sanno benissimo che poteva capitare pure a loro, che lì la tecnica individuale conta fino ad un certo punto. Non è questione di tecnica, di sangue freddo, di cuori che sanno rallentare. Neppure di mira. È fortuna, tante volte.

Williams uscirà dallo spogliatoio dopo un’ora e mezza, distrutto e senza voglia di parlare con anima viva alcuna.

Né nessuno ha il coraggio di avvicinarlo per dirgli qualcosa. Che gli vuoi dire, poi?

Che un giorno forse andrà meglio?

Trentaquattro anni per un flanker con quelle doti sono tanti.

Volete dirgli che la Regina si ricorderà di lui?

Sì, ma la Corona mica raddrizza storie ovali.

La mira si può allenare. Il sangue freddo c’è.

La fortuna, quella no.

Quella, a Cardiff e dintorni, tornerà.

Come sempre difficile da imbrigliare.

Magari la prossima volta non legatela ad una piazzola.

Martyn Williams ve ne sarà grato.

La cinica lotteria dei rigori

Rebond

Una delle prime cose che ti insegnano quando cominci a giocare a rugby è che il pallone rimbalza male.

Alcuni ti dicono che quello strano ovale sia come un certo tipo di amori, non bisogna tenerlo troppo, ma nemmeno lasciarlo troppo andare, perché poi la sua imprevedibilità potrebbe pure essere tossica.

Non ci credete?

Mi chiamo Clement Poitrenaud, ho totalizzato quarantasette presenze con la Nazionale Francese, quasi trecentocinquanta con lo Stade Tolousain e, in carriera, ho segnato quasi quattrocento punti. Quel pallone mi ha portato tante gioie, mi ha fatto vivere momenti tra i più luccicanti della mia storia ovale. L’ho tenuto stretto tante volte, l’ho passato altrettante, l’ho calciato via con la promessa di tornare a riprenderlo qualche metro più avanti, ma anche per scacciare pericoli, avversari e pressione.

Con me, quel pallone, ha rimbalzato poche, pochissime volte.

Poche, pochissime volte di troppo.

Nel giorno più sbagliato, nel momento peggiore.

Perché una finale di Heineken Cup è un ottimo momento per sbagliare tutto.

Soprattutto se alla fine manca veramente troppo poco per raddrizzare le cose.

Soprattutto se, per buona parte del match, io e i miei compagni abbiamo dovuto inseguire gli avversari, i London Wasps. Che bella squadra, la loro: Lawrence Dallaglio, Joe Worsley, Simon Shaw, quel cecchino di Van Gisbergen. Neppure noi siamo male, tanti di noi hanno contribuito a vincere il Sei Nazioni: Dominici, Heymans, Jauzion, Michalak, Servat. Belli noi, belli loro.

Quasi alla pari.

Meglio, alla pari.

Loro quasi sempre avanti, noi ad inseguire. Una meta di Delaigue, altri piazzati del nostro numero 10. Poi un cartellino giallo a Dallaglio e rientriamo, da 20-11 a 20-20 con un piazzato di Elissalde.

Mancano due minuti e rotti. King, il loro mediano di apertura, calcia a seguire. L’ovale finisce direttamente nella nostra area di meta, nessuno di loro ha gambe e fiato per andarlo a schiacciare. Michalak, tranquillo e pacifico, annulla. Drop per noi dalla linea dei 22. Certo, molto probabilmente la palla finirà a loro, ma dovranno ripartire da lontano. E mica è detto che riescano a tornare da queste parti.

Il drop vira tutto a destra. La palla è loro. L’ha appena presa in mano Rob Howley, numero 9 avversario e della nazionale gallese. Non ha troppo spazio, ci sono almeno tre miei compagni di squadra che gli stanno per saltare addosso e la linea di touche è veramente troppo vicina. Se lo portano fuori è touche nostra da metà campo.

Howley, però, calcia.

Non ha un gran rilascio della palla, però l’ovale rimbalza in campo.

Io sono là dietro.

Lungo, è lungo.

E tende ad uscire.

Ma non esce.

E non sembra nemmeno così lungo.

Una delle prime cose che ti insegnano quando cominci a giocare a rugby è che il pallone rimbalza male.

Alcuni ti dicono che quello strano ovale sia come un certo tipo di amori, non bisogna tenerlo troppo, ma nemmeno lasciarlo troppo andare, perché poi la sua imprevedibilità potrebbe pure diventare tossica.

Non ci credete?

Ecco, arriva in area di meta. Alla buon’ora, vorrei quasi dire.

Ora lo prendo e lo calcio via.

No no, nessun calcio a seguire, più distante va e meglio è.

Dai, muoviti.

Lo prendo, ci sono.

Ma mi sfugge dalle mani.

Howley.

Non mi è sfuggito dalle mani, me l’ha proprio scippato.

L’arbitro vuole vederci chiaro, ma io so già che è finita, l’ho visto troppo bene quel gallese.

Ci ha creduto fino alla fine.

Forse è quello il segreto dei rimbalzi: devi crederci, non attendere.

Credo che a Twickenham, in quel giorno di maggio del 2004, mi sia arrivata tra capo e collo la più bella e brutale lezione di vita e di rugby che mi potesse mai capitare. Una di quelle bastonate indimenticabili, una di quelle solenni figuracce che potrebbero stroncare carriere e talenti non ancora del tutto affermati.

Io ho atteso, per una volta non ci ho creduto.

Quel pallone ha rimbalzato poche, pochissime volte.

Poche, pochissime volte di troppo.

Mi chiamo Clement Poitrenaud e da lì sono ripartito.

Le statistiche non le ripeto, sono qua sopra.

Ma da quel giorno, ogni minimo pallone caduto nelle mie vicinanze, l’ho preso al volo.

Abbracciato forte.

L’ho tenuto stretto tante volte, l’ho passato altrettante, l’ho calciato via con la promessa di tornare a riprenderlo qualche metro più avanti, ma anche per scacciare pericoli, avversari e pressione.

Ma non ho più atteso che un ovale decidesse per me.

Rebond

La cinica lotteria

Mai vista una roba del genere. Ma proprio mai.

Cento minuti di gioco, ottanta regolamentari e venti di supplementari, nessun vincitore. Certo che capitano i pareggi nel rugby, sono rari ma capitano.

In campionato, almeno.

In una semifinale di Heineken Cup non si erano mai visti. Partite chiuse, combattute, difficilmente bellissime e a viso aperto, ma sempre con un vincitore al termine degli ottanta minuti. Il Millennium Stadium, non pieno ma bello vivace, sta assistendo a una cosa mai vista.

Si decide tutto agli shoot-out, praticamente i rigori calcistici mutuati al rugby.

Pallone su piazzola, linea dei 22. Due pali da centrare, una traversa da superare.

Prima quelli che le tomaie le sanno far parlare, che magari cerchiamo di chiuderla subito.

Poi gli altri, forse.

Senza forse. Prima quelli che ogni tanto calciano alla disperata, poi quelli che i piedi non se li guardano da un po’.

Tocca al Capitano, al Re di Cardiff.

Martyn Williams, in due parole.

Qualche anno in più rispetto ai tempi d’oro, qualche capello rosso in meno. Chili e presenza fisica sempre uguali. Uno dei cardini del Galles due volte autore dello Slam e uno degli idoli indiscussi di Cardiff. Recordman di presenze in maglia rossa. L’ultima volta che ha visto una piazzola da così vicino, forse, è stato in qualche campo di periferia, in una qualche selezione giovanile, negli anni in cui, prima che Madre Natura decida per te, i ruoli te li sei cuccati più o meno tutti.

Eh, con Martyn Williams dev’essere andata così, qualche capatina tra i centri da giovane deve averla fatta, quegli angoli di corsa e quella progressione, se non nasci nell’altro emisfero, non è che si vedono così tanto spesso in giro.

O forse quando giocava a calcio. Difensore centrale, sempre a livello giovanile. Altri mondi, altri palloni, forse.

Piazzola. Ovale caricato, pubblico di più. Williams qualche volta i piedi addosso ad un pallone li ha messi. Calci di spostamento per lo più, anche qualche perfido rasoterra a mettere in difficoltà le seconde linee di difesa avversarie. Sì, ma la piazzola è un mondo a parte. Ci vogliono concentrazione, battito cardiaco da scalatore consumato sul Pordoi, sangue freddo.

E mira. Tantissima mira.

Hanno sbagliato in tanti, con i pali davanti.

Chiedete a Julien Dupuy, mediano di mischia francese del Leicester. Tanti anni a Biarritz, gioco ordinato e pulito, tanto ritmo. E tanta precisione davanti ai pali. Sì, ma a Cardiff i primi tre tentativi finiscono fuori. Cavolo, avrebbero Toby Flood, da tanti designato come il vero erede di sir Jonny Wilkinson, ma fanno calciare quel francese. Gli inglesi avevano investito qualche soldo in Derick Hougaard, sudafricano entrato dalla parte sbagliata della storia il giorno in cui, alla Coppa del Mondo del 2003, decise di raccogliere uno dei più brutti passaggi mai partoriti da Joos van der Westhuizen. Gli arrivò addosso Brian Lima lanciato a mille come gli omonimi trenini, si rialzò dopo cinque minuti. Gran piede, quell’Hougaard, solo che è infortunato. Male, i Blues possono vantare tra i  titolari almeno tre piazzatori con ottime percentuali. Sono andati in vantaggio con una stoccata di Ben Blair, estremo, già titolare con gli All Blacks, capace di segnare quasi 200 punti con i Crusaders negli anni del passaggio di consegne tra Andrew Mehrtens e Dan Carter. Avercene.

Ne hanno, ne hanno.

Da questo punto di vista sembrano il Brasile del ’70, quello che schierava 5 numeri 10 alla volta. All’apertura c’è Nicky Robinson, sfortunato nel trovarsi davanti, a livello nazionale, un mostro come Stephen Jones. Ma un sinistro così, a livello europeo, lo si è visto poche volte. E all’ala, a fare da apprendistato, c’è un ventenne di belle speranze. È piccolino, è alto “solamente” 178 centimetri, ma è un mago sui palloni alti. Ha già debuttato in Nazionale, dicono sarà l’estremo titolare alla prossima Coppa del Mondo. Si chiama Leigh Halfpenny, ne risentiremo parlare. I Cardiff Blues sono una gran squadra, unica a terminare la fase a gironi dell’Heineken Cup edizione 2008-2009 da imbattuta. E no, non ci sono solo piedi educati lì dietro: ci sono le gambe di Tom James, due centri come Jamie Roberts e Tom Shanklin, una terza linea spaventosa dove, oltre al Capitano Martyn Williams, trovano spazio Xavier Rush e il gigantesco Molitika, che a fine carriera passerà pure per San Donà. Gethin Jenkins, Filise, Bradley Davies. Paul Tito, che è capitano e ha già abbandonato il match dopo soli 9 minuti. Uno squadrone, in grado di battere lo Stade Tolousain ai quarti di finale e di potersi giocare la semifinale di nuovo in casa. Dall’altra parte, però, non è che se ne stiano con le mani in mano: è vero, Dupuy sbaglia tre calci, ma al primo allargamento Flood attacca la linea e scarica l’ovale a Scott Hamilton, spuntato fuori a sirene spiegate da non si sa dove. Meta in mezzo ai pali, stavolta Dupuy fa centro. No, Leicester non se ne sta con le mani in mano, né dispone di una brutta squadra, se è vero si possono permettere di tenere in panca un genio come Aaron Mauger, 46 volte All Blacks. In prima linea gravitano due mostri come Marcos Ayerza e il nostro Martin Castrogiovanni, poi ci sono Ben Kay, Jordan Crane e Tom Croft. Non se ne sono visti molti avanti in Inghilterra con l’acume tattico e la materia grigia di Tom Croft. Sono due gran squadre, è giusto che siano lì a giocarsi un posto in finale, da giocarsi a Murrayfield contro il Leinster. Dupuy infila un altro calcio, ma a recuperare lo strappo inglese ci pensano due piazzati chilometrici di Halfpenny inframmezzati da uno di Blair, 12 a 10 con il Millennium che, do qualche minuti di spavento, riprende colore. Dupuy chiude il primo tempo con un altro piazzato, poi si inventa la seconda meta inglese: lunga corsa sul filo della rimessa laterale di Johne Murphy, un paio di raggruppamenti nei 22. Poi il numero 9 francese fa il giocoliere e infila Flood in un buco millimetrico. Capisce tutto Geordan Murphy, capitano a Cardiff e capitano con il trifoglio sul cuore. Fanno a tempo a prendergli la targa, è 20 a 12 in mezzo ai pali. Arrivano altri due calci inglesi, Dupuy sembra aver scaldato il piede.

La partita, quando mancano meno di venti minuti, sembra segnata. E chi li recupera quattordici punti a quella squadra? È da un’ora che i Tigers stanno massacrando i padroni di casa ad ogni raggruppamento, c’è Tom Croft che a momenti cammina su acque che i gallesi a malapena riescono ad increspare. Erodono metri, non lasciano un minimo di spazio di manovra.

Certo, avranno steccato contro Perpignan e Ospreys nel girone, ma deve succedere veramente qualcosa di insondabile per rimettere in piedi la partita.

Succede, succede.

Si fa male Flood, innanzitutto, che stava facendo un partitone. Poi ci pensano Newby e Geordan Murphy, un giallo a testa, tra il 62’ e il 68’. La terza linea rientra con il punteggio invariato, ma a cambiare è proprio il vento: i Blues prendono coraggio e ci provano. Mancano sette minuti, Jamie Roberts riceve l’ovale sui dieci metri, finta un passaggio e si infila nel buco. Poi naviga, ma non è più fermabile. Non da terrestri, almeno.

Blair, da posizione improba, indovina i pali. Il Leicester riparte dal drop, palla a Cardiff.

Che allarga tutto l’allargabile.

O quasi, perché Jamie Roberts prende l’interno e rompe un placcaggio.

Il Millennium salta per aria, c’è superiorità netta. Roberts fissa l’uomo e serve Tom James.

Sono 60 metri tondi tondi, gli inglesi la palla non la vedono più.

Blair trasforma ancora, è pareggio.

E adesso?

Nei due supplementari, se si esclude un velleitario drop di Johne Murphy, non succede praticamente nulla.

Fino a due minuti dal termine, quando comincia quella che è una vera e propria corsa agli armamenti. Leicester si ritrova senza calciatori di ruolo in campo, visto l’infortunio di Flood e vista la sostituzione di Dupuy nel secondo tempo.

Dan Hipkiss, secondo centro mai famoso per dei piedi canterini, sanguina dal labbro. È necessario un cambio, torna in campo Dupuy. Nello stesso momento i Blues cambiano Jamie Roberts, bene ma non benissimo alla tomaia. Entra Ceri Sweeney, già nazionale e già apertura di ruolo ai Dragons.

Ottimo dalla piazzola, ça va sans dire.

Poi i supplementari terminano, comincia il ballo dei debuttanti.

Si decide tutto agli shoot-out, praticamente i rigori calcistici mutuati al rugby.

Pallone su piazzola, linea dei 22. Due pali da centrare, una traversa da superare. Prima quelli che le tomaie le sanno far parlare, che magari cerchiamo di chiuderla subito.

Poi gli altri, forse.

Cominciano la serie Blair e Dupuy, segnate un bersaglio a testa.

I Blues sulla carta sono favoriti, hanno in lista quattro giocatori che in potenza potrebbero tranquillamente essere piazzatori designati senza che risultato sul campo e percentuali balistiche cambino di molto. Halfpenny e Robinson centrano i pali, pareggiano a loro volta Sam Vesty e Geordan Murphy, quest’ultimo con qualche brivido.

Leicester termina qui le sue carte pesanti in questo fondamentale, da ora in poi è creatività o quasi.

Tocca a Sweeney intanto, ancora dentro.

Poi Johne Murphy.

È quello che ha provato il drop ai supplementari.

Fuori.

Cardiff, nel tripudio generale, ha il match ball.

Si presenta dalla piazzola Tom James, che qualche allenamento al piede con Neil Jenkins, in Nazionale, l’ha pure fatto. È mancino, sistema la palla. Guarda i pali, rincorsa lenta.

Palla fuori di un bel po’.

E allora non è finito niente.

Pareggia Hamilton, si va ad oltranza.

Segnano Shanklin e Mauger.

Cavolo, gli inglesi hanno Mauger e lo usano solo ora. Dentro.

L’ovale calciato da Richie Rees compie un Fosbury sulla traversa: bassissimo, si arrampica a fatica, si inarca, va di là. Il Millennium trattiene il fiato per un po’, guarda le bandierine alzarsi, respira.

Newby pareggia, pure con un gran bel calcio.

Mai vista una roba del genere. Ma proprio mai.

No, non il calcio di Newby.

Tutto questo pathos si era abituati a vederlo altrove, lontano da palle ovali e pali a forma di acca.

Tocca al Capitano, al Re di Cardiff. Martyn Williams, in due parole. Qualche anno in più rispetto ai tempi d’oro, qualche capello rosso in meno.

Piazzola.

Ovale caricato, pubblico di più.

Williams qualche volta i piedi addosso ad un pallone li ha messi. Calci di spostamento per lo più, anche qualche perfido rasoterra a mettere in difficoltà le seconde linee di difesa avversarie. Qualche presenza da difensore centrale negli anni delle giovanili.

Sì, ma la piazzola è un mondo a parte.

Ci vogliono concentrazione, battito cardiaco da scalatore consumato sul Pordoi, sangue freddo.

E mira. Tantissima mira.

L’ovale finisce a lato.

E adesso il match ball ce l’ha Leicester con Jordan Crane. Crane a 12 anni ha fatto un provino per il West Bronwich Albion, club calcistico inglese di discreto valore e fascino. Tutta la Cardiff che sa questa storia sta sperando che si sia dimenticato come si fa a colpire decentemente un pallone con quelle strane protuberanze sotto le caviglie.

Pali centrati, è finita.

Gli inglesi esultano, ma sono contenuti. No, non perché sono inglesi e quelle cose lì bisogna farle con moderazione, che son cose da gente di lignaggio più basso. Gli inglesi si battono il cinque, si abbracciano. Poi vanno a salutare Martyn Williams, seduto in mezzo al verde di un campo dal quale vorrebbe volentieri sparire. Lo abbracciano, lo rincuorano a parole.

Non è circostanza, sanno benissimo che poteva capitare pure a loro, che lì la tecnica individuale conta fino ad un certo punto. Non è questione di tecnica, di sangue freddo, di cuori che sanno rallentare. Neppure di mira. È fortuna, tante volte.

Williams uscirà dallo spogliatoio dopo un’ora e mezza, distrutto e senza voglia di parlare con anima viva alcuna.

Né nessuno ha il coraggio di avvicinarlo per dirgli qualcosa. Che gli vuoi dire, poi?

Che un giorno forse andrà meglio?

Trentaquattro anni per un flanker con quelle doti sono tanti.

Che la vecchia Lizzy, Sua Maestà, lo nominerà comunque Membro dell’Impero Britannico per i servigi dati al rugby?

Sì, ma l’Impero Britannico non raddrizza storie ovali.

La mira si può allenare. Il sangue freddo c’è.

La fortuna, quella no.

Quella, a Cardiff e dintorni, tornerà.

Incerta nel verde e su un prato di carta.

Difficile da imbrigliare.

Magari la prossima volta non legatela ad una piazzola.

Martyn Williams ve ne sarà grato.

La cinica lotteria

Il drop più brutto del mondo

A ventotto anni una decisione la devi saper prendere. Almeno capire se preferisci caffè o cappuccino per colazione eh, niente di simile al dilemma “filo rosso-filo blu”. Se vivi una vita dignitosa ma tutt’altro che sull’orlo dell’avventura quella (caffè-cappuccino) è una decisione che devi aver già preso. Anche qualcuna in più eh, ma non esageriamo. Se però di quei ventotto anni ne hai passati almeno una ventina su un campo da rugby, qualche idea di come gira e rimbalza il mondo devi pur averla. Soprattutto se graviti nella stanza dei bottoni e su di te ci sono le aspettative di una mischia che si è sfiatata per quel possesso, di un numero 9 che ti ha visto e adottato e di una linea di trequarti che non vede l’ora di sgranchirsi le gambe.

Se sei un mediano d’apertura e hai 28 anni due cose le devi saper decidere.

Fuori e dentro il campo, mi verrebbe da dire.

Perché dove sono nato io, in Nuova Zelanda, il rugby è qualcosa che ti segue ovunque. Mi ricordo quella decisione come fosse ieri. Da una parte un contratto in Inghilterra, tre anni agli Harlequins, un sacco di soldi e la possibilità di capire com’è giocare nel Paese in cui questo sport ha regalato al mondo i suoi primi vagiti. Dall’altro casa mia e la possibilità di giocarmi ancora la maglia più bella e importante del mondo, quella nera con la falce argentata. Già, ho già giocato negli All Blacks. Pure ad una Coppa del Mondo. La più devastante delle Coppe del Mondo, per un neozelandese. Da una parte la possibilità di essere un leader riconosciuto, dall’altra una lotta durissima per vestire di nuovo quella maglia, tra fenomeni all’apice della carriera e giovani leoni che scalpitano. Mica facile, sapete. Perché se sei un mediano di apertura, sei nato nella terra dei Māori negli anni ‘80 e non ti chiami Dan Carter non è mica semplice ritagliarsi minuti importanti. E perché per vestire quella maglia anche solo per due minuti di orologio saresti disposto a tutto.

Ma quel giorno decisi. Inghilterra. Provò a placcarmi anche Graham Henry, ma avevo già deciso. Forse, se fossi rimasto, una Coppa del Mondo l’avrei vinta, ma forse avrei cancellato dal mondo la storia di Stephen Donald, che è un bravo ragazzo e si merita tutto quel che si è guadagnato. E, cosa più importante, non avrei capito quanto è bello rischiare, azzardare, attaccare la linea anche quando non sei su un campo da rugby. Lo devo ammettere però, non sono mancati i momenti in cui mi sono chiesto che ci facessi qui. Londra, a volte, sa metterti nelle condizioni di sentirti solo tra la gente più di quanto possa sentirsi un eremita. Gente cordiale e gentile, per carità, ma l’empatia è un’altra cosa. Allo Stoop però, lo stadio degli Harlequins, c’è un altro clima. Le persone si trasformano. Si lasciano andare, tifano, prendono letteralmente il tuo cuore e lo gettano al di là dell’ostacolo, anche in giornate in cui si starebbe meglio al caldo a fregarsene di quel che accade fuori dalle nostre quattro mura domestiche. Come in quel dicembre del 2008. Una pioggia e una umidità che ve le regalo. Allo Stoop si presentano i francesi dello Stade Français, che avevamo battuto a Parigi appena una settimana prima. Loro erano forti, fortissimi e, giustamente, pure un bel po’ incazzati. il primato del girone è una cosa tra noi e loro. Loro, lo dico di nuovo, fortissimi: Leguizamón, El Mago Hernández, Parisse, i fratelli Bergamasco, Marconnet. Pure noi non eravamo male, visto che c’era gente come Chris Robshaw, Nick Easter e Jordan Turner-Hall, che aveva vent’anni e non capivo come non potesse interessare alla Nazionale inglese. C’ero pure io, mi chiamo Nicholas John Evans. Facciamo Nick e mi giro. A casa mia (ma qualcuno giurava anche fuori dai confini) dicevano fossi il più forte mediano di apertura dopo Dan Carter. Detenevo per molti una sorta di primato tra gli umani, ma giuro che non ho mai capito se tutto questo fosse una serie di complimenti o una dichiarazione di inferiorità rispetto ad altri fenomeni. C’ero quando gli All Blacks si presero la più bella delle rivincite, nel 2004, contro gli inglesi. Trentasei a tre, firmai un calcio di punizione. C’ero però anche in quella Coppa del Mondo del 2007, quando qualcuno decise che contro la Francia non avrebbero giocato tutti i migliori. Segnai 33 punti o giù di lì contro il Portogallo, un’altra manciata contro la Romania, poi tribuna. Il 2008 avrebbe dovuto essere l’anno della mia impennata. Avevo appena lasciato gli Highlanders per accasarmi ai Blues, dove avrei avuto più spazio. Ventilava, a casa mia, l’ipotesi che Dan Carter volesse prendersi qualche mese sabbatico in Europa, lasciando così libera la maglia numero 10 degli All Blacks. Dall’Europa, nel frattempo, arrivavano offerte. La più allettante era quella degli Harlequins, ma avrei voluto vedere quanto spazio avrei avuto nel Tri Nations, poi avrei preso una decisione. Finì che non mi convocarono e me ne andai. Al mio posto convocarono Stephen Donald, che aveva fatto una grande annata coi Chiefs ma che poi non si ripeterà a quei livelli. Se ne andò anche Carter, a Perpignan, ma si fece male quasi subito. Agli Harlequins dicevano sarei stato un leader, uno dei giocatori di maggior talento e di maggiore personalità, uno che in campo sa prendere sempre ottime decisioni. Per loro la prova di tutto questo era l’avere scelto gli Harlequins. Io non ne ero così sicuro, ma qualcosa dentro di me diceva che era giusto provarci.

I francesi, dall’altra parte del campo, hanno palesemente il dente avvelenato, una incredibile voglia di rivalsa. La garra dei tanti Pumas che giocano con loro, su un campo così pesante, si fa sentire più del solito. Centro i pali subito, poi però sale alla ribalta tale Noel Oelschig, mediano di mischia ex nazionale sudafricano under 21. Segna 11 punti consecutivi, due calci e una meta, vanno sopra il break e abbiamo giocato appena poco più di 20 minuti. Noi non ci stiamo a perdere e risaliamo il campo: segno altri tre punti dalla piazzola. Ve l’assicuro, ad andare per i pali in certe giornate ci vuole coraggio. Centrarli, però, quando il cielo manda giù di tutto e l’umidità comincia ad affittare le tue ossa, è il regalo più bello che puoi fare ai tuoi compagni di squadra. E, allo stesso tempo, il più perfido dei dispetti ai tuoi avversari. E un calciatore deve saper essere fastidioso, se vuole far strada. Poi servo Turner-Hall, che buca la difesa e si fa tutti i 22 in solitaria schiacciando in mezzo ai pali. La partita è durissima, sfiancante, ma equilibrata. Piazza ancora Oelschig, rispondo io, 16 a 14.

Mancano dieci minuti al termine, loro non smettono di attaccare. Noi teniamo bene in difesa, non facciamo falli né andiamo in carenza di ossigeno. Solo che ad un certo punto Oelschig apre la palla a Hernández fuori dai 22. Drop, senza alcun vantaggio da sfruttare, su un campo del genere.

Bisogna avere due maroni grandi come palloni da rugby per fare una cosa del genere.

E due piedi della madonna.

Dentro, vanno in vantaggio loro.

Mica facile ribaltarla, ora. Anche perché questi, come noi,  a livello di disciplina sono a posto, non fanno falli stupidi o altro. E io le vedo le facce dei miei compagni: siamo stanchi, abbiamo giocato una grande partita, so che daranno tutto fino alla fine, ma non credo abbiano la sparata da ultimo chilometro nelle gambe. No, non dopo quel drop. Loro devono averlo intuito e ci ricacciano continuamente indietro al piede. Vendono la loro metà campo, anche a costo di calciare troppo lungo. Manca un minuto e mezzo, ripartiamo dai nostri 22 con un drop. L’ovale non si alza, è pesantissimo, però ha una discreta gittata e Parisse è costretto a farlo rimbalzare per non fare avanti. Sergio è una terza linea incredibile, ma questo non sta a significare che non conosca l’uso del piede. Fa due passi, poi calcia il più distante possibile. Il campo è pesante anche per lui, però, e quel pallone esce direttamente. Si scusa con i compagni, noi guadagniamo una touche poco fuori dai 22 francesi. Il pubblico dal campo di solito non lo senti. No, troppa la concentrazione, troppo il bisogno di rimanere ancorati a quel che succede tra quelle quattro linee di gesso. Questa volta, però, il ruggito ci riempie le orecchie. Forse è l’ultima possibilità, cerchiamo di sfruttarla al meglio. La prendiamo, ma gli avanti francesi non ci permettono di costruire la maul. Sono asfissianti, sanno che da quella difesa dipende il risultato dell’incontro. Danny Care, mio dirimpettaio in mediana, mi vede schierato profondo. Vorrebbe darmi la palla per il drop, ma gli dico di no. Quaranta metri di drop con quella poltiglia sotto i piedi li fai solo se ti chiami Frans Steyn. A ventotto anni una decisione la devi saper prendere. Almeno capire se preferisci caffè o cappuccino per colazione. La mia è “drop sì- drop no”. Non facile. Care si sbraccia, fa segno che la benzina sta finendo, che bisogna quantomeno variare. Mi passa la palla, la difesa sale sparata. Errore loro, perché per questa volta vince il no. Trovo il buco e mi ci fiondo, servo all’esterno Turner-Hall, ma l’azione ristagna ancora. Loro si ricompongono e, cosa frustrante a livelli inimmaginabili, non fanno un fallo che sia uno. I ragazzi davanti guadagnano centimetri, si portano dietro chili di avversari e fango. Sono a una trentina di metri, chiamo il drop. Provarci è nei miei pensieri, ma voglio prima vedere come salgono stavolta. Care mi serve, io faccio il gesto di accompagnare la palla al piede, loro salgono.

Male, o meglio, non perfettamente.

È questione di centesimi di secondo, è ancora “drop no”. Buco ed entro nei 22, mi prendono a una decina di metri dalla linea di meta. Sono feroci, il fango freddo sotto di me brucia e pure tanto. Nel frattempo i ragazzi hanno allargato il gioco. Sentono che manca poco, erodono centimetri, siamo sulla linea di meta. Loro però tengono botta. Quando sono schierati non fanno un errore che sia uno. Procediamo nel senso, non si passa. Torniamo indietro alla ricerca di avversari stanchi ed eventualmente mal posizionati, nulla da fare. Ventisette, ventotto fasi.

È il momento, Danny mi sente.

Arrivano pallone e uomini infangati, il più vicino credo sia Parisse.

Drop.

Il più brutto drop della mia carriera.

Il più brutto ed efficace drop della mia carriera.

La palla si arrampica a fatica sulla traversa, poi si lascia cadere come un saltatore in alto dopo un Fosbury venuto bene. Non ho mai esultato pesantemente in vita mia, ma sono lì a correre nel fango come un esagitato. Nigel Owens, intanto, ha chiamato il TMO, non è convinto che il pallone sia passato sopra la traversa. È andato, Nigel, è andato. Lo Stoop è completamente saltato per aria, la partita finisce lì.

Sapete, ho ventotto anni e da una ventina circa il mio migliore amico è un pallone ovale. Due o tre decisioni, in un rettangolo ovale, le so pure prendere. Fuori non lo so. Avrei potuto restare, quando Graham Henry insistette. Diceva che un posto con gli All Blacks me lo sarei giocato di sicuro. Forse, se fossi rimasto, una Coppa del Mondo l’avrei vinta. Ma forse una cosa del genere, in campo, non mi sarebbe mai capitata.  Quel che è certo è che non avrei mai capito quanto è bello rischiare, azzardare, attaccare la linea anche quando non sei su un campo da rugby.

Il drop più brutto del mondo

Punto di bonus

“Tornare senza il punto di bonus equivale a perdere”. Non la tirano tanto per le lunghe, i giornali francesi. Non hanno tutti i torti da quelle parti, pur non potendo proprio fare a meno di spruzzare sulle loro parole una mastodontica dose di grandeur. No, se si parla di rugby e di risultati, hanno ragione loro. Soprattutto se a valicare le Alpi è la loro formazione più forte, fresca di scudo di Brenno e ricca di giocatori di altissimo livello. Il Perpignan è decisamente uno scoglio duro. Hanno battuto il Clermont per 19 a 6, nel nuovo campionato stanno lottando ancora per le posizioni di vertice. Ai catalani brucia ancora tantissimo l’uscita dai gironi di Heineken Cup della stagione passata, a soli due punti dagli Ospreys. Troppi punti buttati in vittorie senza bonus, uno di questi nella prima giornata, quando all’Aimé Giral si erano presentati i Leoni della Benetton Treviso. Tre mete, solo tre mete. Per carità, la vittoria arrivò lo stesso dopo un primo tempo problematico, ma lì cominciarono a svanire i quarti di finale. Il sogno si infranse all’ultima giornata, con gli Ospreys vittoriosi a sorpresa sui Leicester Tigers e i sang et or a fare a polpette i Leoni in quel di Monigo. Quarantotto punti di disperazione, lacrime e sangue, sangue senza oro. Ecco perché i francesi hanno ragione nell’essere ottimisti, sanno che una gita a Treviso può valere altri cinque punti. Deve valere altri cinque punti, visto che Munster e Northampton, altre rivali del girone, non sono propriamente farina adatta per confezionare ostie.

Momento però, perché se è vero che Perpignan arriva a Treviso con tutti i crismi della squadra favorita, è vero anche che i padroni di casa non è che siano rimasti molto a guardare durante l’estate. Ecco, hanno rischiato di stare a guardare, perché l’estate del 2009 è di fatto il più grande spartiacque nella storia del rugby italiano. Se la gioca con Grenoble, solo che stavolta i campi sono deserti e, almeno per Treviso, la faccenda aveva preso una piega parecchio brutta. A luglio si decide, sulla base di un bando federale, quali possano essere le due realtà in grado di entrare dal 2010 in Celtic League. Si presentano in quattro, Treviso sembra essere, per blasone e curriculum, la larga favorita per l’ingresso nel board. A seguire Aironi, più indietro Duchi (zona di Calvisano) e Praetorians (Roma, ma di fatto anche il Sud). Al conteggio dei voti, però, passano Aironi e Praetorians, con Treviso clamorosamente al palo. Fuori. Ad ottobre però due commissioni si mettono a controllare gli effettivi progetti celtici, perché sembra che qualcosa non stia andando per il meglio. Pure il board celtico vorrebbe vedere i dossier. Ne esce che la proposta romana alla voce “finanze” presenti mancanze tali da non permettere l’ingresso nell’Europa ovale che conta. La Benetton, ripescata e con tutte le carte in regola, ringrazia. Anche perché, prima e dopo luglio, ha messo insieme una squadra che è molto più forte di quella vista nella stagione precedente. Con il ridimensionamento di Calvisano in Veneto arrivano Luke McLean, Alessandro Zanni, Leonardo Ghiraldini, Lorenzo Cittadini e Gonzalo Garcia, tutti nazionali italiani. La spesa non finisce qui, perché dal Petrarca arriva Michele Rizzo e dalla Capitolina Sebastian Vermaak, terza linea sudafricana. È di fatto l’ossatura della franchigia che debutterà contro gli Scarlets di lì a meno di un anno. E se già di base, senza acquisti, la squadra sarebbe fortissima, con un mercato così diventa praticamente illegale. In Italia, se si esclude Viadana (che a sua volta sta costruendo per la Celtic), non c’è storia.

In Europa però, fino a prova contraria, è durissima.

Troppa, la differenza con le altre squadre. Ogni tanto ci scappa il colpo (la vittoria contro Bath nel 2004, il colpo di Newport del 2007), per il resto sono batoste, come quando i London Wasps vengono a saccheggiare il Veneto e se ne vanno con un 71 a 5 quantomeno terminale. E Perpignan non ha nessuna voglia di essere da meno. I catalani schierano una squadra fortissima, c’è Jerome Porical estremo, figlio e nipote di giocatori che con la stessa maglia hanno vinto tutto quel che si poteva vincere. Fortissimo, una facilità di corsa quasi irridente, un piede con mirino di serie. Certo, a livello mentale non è un fenomeno, qualche pausa ogni tanto se la prende, ma uno così se trova due metri è letale. Ci sono Nicolas Mas e Guilhem Guirado in prima linea, Chouly e Henry Tuilagi in terza, Maxime Mermoz a primo centro. Più di qualcuno di loro se ne va in tribuna di fianco ad un coach che, baffo in resta, di lì a qualche anno impareremo a conoscere. Piove su tutto il Nord Italia, piove su Treviso. Qualcuno vorrebbe tirar fuori dal taschino l’obiettivo, vergato nero su bianco, della dirigenza trevigiana. Due vittorie in Heineken. Figuriamoci.

Eh, però piove.

Al netto della corazzata Munster i match cerchiati in rosso si restringono. Northampton, come tutte le inglesi,  sulla carta in trasferta non rende come tra le mura amiche. E quella è una.

L’altra, sempre considerando Monigo il fortino di riferimento, non può che essere contro i sang et or.

Smith, e/o chi per lui, quella pioggia deve averla chiamata da un po’ di giorni. Lascia fuori infatti Brendan Williams, folletto australiano in grado di squarciare difese ed eludere placcaggi come nessun altro in squadra riesce a fare. Al suo posto mette McLean, molto più pesante. Ai centri ci sono Garcia e Sgarbi, alle ali Mulieri e Vilk. Cavalleria?

No, cingoli ben oliati.

Eh, ma così troppo forti in campo aperto, i francesi.

Sì, ma chi ha detto che si vuole giocare in campo aperto?

La tattica, sin dai primi minuti, è chiarissima: difesa stretta e metà campo difensiva venduta al miglior offerente. Due obici al piede come Goosen e McLean per far ripartire idealmente i francesi – Porical su tutti –  da Perpignan o giù di lì. Al resto ci pensano la pioggia, che lava tutto e fa scivolare dalle mani francesi possessi su possessi, e a sorpresa pure i sang et or, che ce la mettono proprio tutta per flagellarsi. Sin dalle prime fasi, infatti, cercano di fare la voce grossa nei raggruppamenti e in mischia. Poi, a difesa avversaria cotta a fuoco lento, si possono pure allargare le maglie e portare a casa punti pesanti. Non è una tattica di per sé sbagliata, ma per giocare così, oltre ad avere gente che svernicia gli avversari sul lanciato e che con la testa è già due o tre azioni avanti, devi avere pure delle fasi statiche superiori. Devi prenderti i centimetri, prima dei metri. I francesi sono nettamente superiori dietro, hanno cavalli che neanche ci sogniamo. Nessuno di loro però, Brunel in testa, ha mai calcolato il vero valore dei primi otto uomini di casa. Perché Treviso sfodera una prova stratosferica in chiusa, con Ghiraldini e Rizzo che prendono e arano in mischia chiusa gente come Mas e Guirado prima e  Tincu, che è un signor pilone romeno, poi. Da lì non si passa, e nemmeno in difesa: Zanni, Vermaak, Garcia e gli altri rispolverano letteralmente il Piave, non lasciano respirare la mediana francese neppure per un attimo. Ma non finisce qui, perché le battaglie aeree sono tutte vinte con una scioltezza che non era immaginabile alla vigilia. Viene spontaneo tirare giù il cappello al passaggio di quel tale numero 5, caschetto chiaro a renderlo poco riconoscibile. Viene da Nelspruit, Sudafrica, ma dal 2007 è a Treviso ad insegnare ai suoi l’antica arte della touche, oltre che a fare da propulsore di una mischia che indietreggerà ben poche volte fino al 2015. Si chiama Casparus Cornelius Van Zyl, lo chiamano tutti Corniel e va bene così, le falangi ringraziano, Treviso tutta ancor di più. Non è solo questione di touche, di blocchi o di studio delle mosse avversarie, nei raggruppamenti lo si vede di solito dettare ritmi e canali da colpire. Ne sbaglia pochi, molto pochi, e lo seguono in tanti. I pochi palloni in grado di uscire al largo, quelli potenzialmente letali, cadono.

Dentro e fuori dal campo.

La pioggia è democratica, con l’ombrello in mano gli arabeschi vengono così così.

Treviso va avanti con due calci di Goosen, che ha 35 anni ed ha annunciato il ritiro a fine stagione, ma uno così lo vorresti portare a clonare domani mattina, perché una sostanza e una classe del genere alle nostre latitudini sono passate ben poche volte. Sei a zero a fine primo tempo, con Perpignan caduto completamente nella trappola trevigiana e incapace di segnare un solo punto. Nemmeno un calcio piazzato dalla distanza, nulla. Non riesce ad allargare, se va nello stretto non trova spazi, Cazenave e Laharrague, nei pochi possessi puliti, si trovano di fronte a stretto giro di posta gente come Zanni, Garcia, Goosen che di fatto in difesa è una terza linea aggiunta, Van Zyl. Si respira di più all’ultimo campo base prima del K2. Altro che quattro mete e punto di bonus, qui bisogna portare a casa la pelle. Brunel, che ai tempi di Laporte seguiva gli avanti francesi, non deve essere di gran compagnia, lassù in tribuna. E però cambia Guirado e Chobet dopo 10 minuti. Guadagna subito un piazzato che Porical trasforma, ma da lì in poi Treviso, con Allori, Di Santo e Vidal, ricomincia a macinare. Non si detta più legge come nel primo tempo, ma di là non si passa. Goosen centra i pali ancora, poi manca un piazzato da metà campo con un coefficiente di difficoltà pauroso, roba che se va a segno viene giù tutto, a cominciare dai quasi tremila spettatori. Vista tutta l’acqua, capace che gli diano pure la medaglia olimpica dalla piattaforma. Se decidi di prendere calcio del genere, però, significa anche che i tuoi hanno bisogno di rifiatare.  Di due minuti di aria e di mani sui fianchi, che non andrebbe mai bene mettere le mani lì, ma chi se ne frega. Perpignan è Perpignan, a venti minuti dal termine è una squadra spaventata a morte, scesa in Italia con l’intento di raccogliere 5 punti discretamente facili e inciampata nei suoi stessi errori. Non sono morti però i francesi, hanno lividi ovunque e la faccia di chi quel burrone lo sta vedendo parecchio da vicino, ma sanno benissimo che un 9 a 3 dopo tutte quelle botte prese può aprire le porte al migliore dei finali. Hanno visto pure loro che i Leoni sono stanchi, che non possono reggere ancora per molto quei ritmi. Cominciano ad accelerare, non ancora alla disperata, ma guadagnano metri. Non è facile tenere il passo ora, una meta subita in questi casi significherebbe far saltare tutto in pochi minuti, col morale che punta alla riserva molto più delle energie fisiche. Sarebbe tanto bello, però, e neanche sotto sotto, zittire le polemiche estive e dimostrare che il palcoscenico europeo lo si può tenere più che discretamente. Certo, quel che si è visto per un’ora è stato meraviglioso, ma vuoi mettere vincerla, una partita del genere? Zanni forse se lo chiede, e forse proprio per questo strappa una touche capitale nell’economia del match, con tanto di pubblico che si infiamma e sospinge ancora un po’ i suoi su per il pendio. La stanchezza è tanta, i polmoni sono intossicati dalla fatica, i riposizionamenti non sono più quelli del primo tempo. Ne approfitta Porical, che a 8 dal termine fa partire un contrattacco dai suoi 22. Punta la destra, scambia con altri due suoi compagni. La difesa trevigiana è trafitta, tampona quanto può, ma è in ritardo di una battuta e permette all’estremo di segnare in bandierina. Monigo si zittisce, è bastata una fiammata. Parte invece il coro dei catalani, scesi con quattro pullman e qualche striscione, dati per dispersi per 72 minuti. La trasformazione non è facile, Porical studia il vento. Laterale, l’ovale sarà irrimediabilmente deviato verso destra da Eolo e compagni. Il calcio infatti è tutto a sinistra, ma vuoi la stanchezza, vuoi l’importanza del momento, sta di fatto che all’estremo viene il braccino. Il calcio non è potente e ben presto si arrende a vento e intemperie varie, lasciando Treviso avanti di uno. Monigo diventa una bolgia, tra francesi che ci credono e locali che ci credono ancora di più. I presenti possono ricordarsi, ora o in qualsiasi momento glielo chiediate, fase per fase, passaggio per passaggio, infarto mancato per infarto mancato. I placcaggi di Zanni, che sei stanco per lui eppure erige ancora barricate. Il boato del pubblico per Corniel, nominato Man of the Match, che un po’ ti incazzi pure perché li eleggeresti tutti insieme, in blocco. I francesi che allargano tutto, questa volta sì alla disperata, ma che ancora non riescono a non commettere errori. E poi un fischio, quello di Dave Pearson, quello della vittoria. Sul campo e pure a suon di carte bollate. Il primo lo sentono tutti, gli altri sono inesorabilmente coperti dalle urla, dagli abbracci, dai catalani a terra con l’umore e con le membra. A sapere di dover rincorrere già dall’inizio un girone già difficile di suo. Si incontreranno di nuovo le due squadre, da deluse, nell’ultima giornata: gli uomini di Brunel, già eliminati, segneranno 5 mete. Treviso, che si è tolta la soddisfazione di condurre a Thomond Park, casa di Munster, e a Northampton, andrà solamente vicina a bissare il successo del debutto. Succederà proprio contro gli inglesi a Treviso.

È il preludio di quello che verrà, di giornate europee, di rose sempre più competitive e di francesi (ma non solo) ben inquadrati da Paolo Conte. E di quello che, nonostante al ritorno da una giornata di pioggia i vestiti siano zuppi e si abbia solamente voglia di una doccia e di una coperta, si vorrebbe succedesse ancora. Sia che splenda il sole, sia che dal cielo di Monigo cada giù di tutto, dalla grandeur preventiva allo scudo di Brenno. Passando per il punto di bonus, che in fin dei conti i francesi hanno portato a casa. L’hanno nascosto in uno dei quattro autobus, si dice non l’abbiano mai più spostato di lì.

Punto di bonus

La cinica lotteria dei rigori

Mai vista una roba del genere. Ma proprio mai. Cento minuti di gioco, ottanta regolamentari e venti di supplementari, nessun vincitore. Certo che capitano i pareggi nel rugby, sono rari ma capitano. In campionato, almeno, spesso. In una semifinale di Heineken Cup non si era mai visto. Partite chiuse, combattute, difficilmente bellissime e a viso aperto, ma sempre con un vincitore al termine degli ottanta minuti. Il Millennium Stadium, non pieno ma bello vivace, sta assistendo a una cosa mai vista.

Si decide tutto agli shoot-out, praticamente i rigori calcistici mutuati al rugby.

Pallone su piazzola, linea dei 22. Due pali da centrare, una traversa da superare.

Prima quelli che le tomaie le sanno far parlare, che magari cerchiamo di chiuderla subito.

Poi gli altri, forse.

Senza forse.

Tocca al Capitano, al Re di Cardiff. Martyn Williams, in due parole. Qualche anno in più rispetto ai tempi d’oro, qualche capello rosso in meno. Chili e presenza fisica sempre uguali. Uno dei cardini del Galles due volte autore dello Slam e uno degli idoli indiscussi di Cardiff. Recordman di presenze in maglia rossa. L’ultima volta che ha visto una piazzola da così vicino, forse, è stato in qualche campo di periferia, in una qualche selezione giovanile, negli anni in cui, prima che Madre Natura decida per te, i ruoli te li cucchi tutti. Eh, con Martyn Williams dev’essere andata così, qualche capatina tra i centri da giovane deve averla fatta, quegli angoli di corsa e quella progressione, se non nasci nell’altro emisfero, non è che si vedono così tanto spesso in giro.

Non a Cardiff, almeno.

O forse quando giocava a calcio. Difensore centrale, sempre a livello giovanile. Altri mondi, altri palloni, forse.

Piazzola. Ovale caricato, pubblico di più. Williams qualche volta i piedi addosso ad un pallone li ha messi. Calci di spostamento per lo più, anche qualche perfido rasoterra a mettere in difficoltà le seconde linee di difesa avversarie. Sì, ma la piazzola è un mondo a parte. Ci vogliono concentrazione, battito cardiaco da scalatore consumato sul Pordoi, sangue freddo. E mira. Tantissima mira.

Hanno sbagliato in tanti, con i pali davanti. Chiedete a Julien Dupuy, mediano di mischia francese del Leicester. Tanti anni a Biarritz, gioco ordinato e pulito, tanto ritmo. E tanta precisione davanti ai pali. Sì, ma a Cardiff i primi tre tentativi finiscono fuori. Cavolo, avrebbero Toby Flood, da tanti designato come il vero erede di sir Jonny Wilkinson, ma fanno calciare quel francese. Gli inglesi avevano investito qualche soldo in Derick Hougaard, sudafricano entrato dalla parte sbagliata della storia il giorno in cui, alla Coppa del Mondo del 2003, decise di raccogliere uno dei più brutti passaggi mai partoriti da Joos van der Westhuizen. Gli arrivò addosso Brian Lima lanciato a mille come gli omonimi trenini, si rialzò dopo cinque minuti. Gran piede, quell’Hougaard, solo che è infortunato. Male, i Blues possono vantare tra i  titolari almeno tre piazzatori con ottime percentuali. Sono andati in vantaggio con una stoccata di Ben Blair, estremo, già titolare con gli All Blacks, capace di segnare quasi 200 punti con i Crusaders negli anni del passaggio di consegne tra Andrew Mehrtens e Dan Carter. Avercene. Ne hanno, ne hanno. Da questo punto di vista sembrano il Brasile del ’70, quello che schierava 5 numeri 10 alla volta. Gli altri, al massimo, facevano la staffetta. All’apertura c’è Nicky Robinson, sfortunato nel trovarsi davanti, a livello nazionale, un mostro come Stephen Jones. Ma un sinistro così, a livello europeo, lo si è visto poche volte. E all’ala, a fare da apprendistato, c’è un ventenne di belle speranze. È piccolino, è alto “solamente” 178 centimetri, ma è un mago sui palloni alti. Ha già debuttato in Nazionale, dicono sarà l’estremo titolare alla prossima Coppa del Mondo. Si chiama Leigh Halfpenny, ne risentiremo parlare. I Cardiff Blues sono una gran squadra, unica a terminare la fase a gironi dell’Heineken Cup edizione 2008-2009 da imbattuta. E no, non ci sono solo piedi educati lì dietro: ci sono le gambe di Tom James, due centri come Jamie Roberts e Tom Shanklin, una terza linea spaventosa dove, oltre al Capitano Martyn Williams, trovano spazio Xavier Rush e il gigantesco Molitika, che a fine carriera passerà pure per San Donà. Gethin Jenkins, Filise, Bradley Davies. Paul Tito, che è capitano e ha già abbandonato il match dopo soli 9 minuti. Uno squadrone, in grado di battere lo Stade Tolousain ai quarti di finale e di potersi giocare la semifinale di nuovo in casa. Dall’altra parte, però, non è che se ne stiano con le mani in mano: è vero, Dupuy sbaglia tre calci, ma al primo allargamento Flood attacca la linea e scarica l’ovale a Scott Hamilton, spuntato fuori a sirene spiegate da non si sa dove. Meta in mezzo ai pali, stavolta Dupuy fa centro. Leicester non se ne sta con le mani in mano, né dispone di una brutta squadra, se è vero si possono permettere di tenere in panca un genio come Aaron Mauger, 46 volte All Blacks. In prima linea gravitano due mostri come Marcos Ayerza e il nostro Martin Castrogiovanni, poi ci sono Ben Kay, Jordan Crane e Tom Croft. Non se ne sono visti molti avanti in Inghilterra con l’acume tattico e la materia grigia di Tom Croft. Sono due gran squadre, è giusto che siano lì a giocarsi un posto in finale, da giocarsi a Murrayfield contro il Leinster. Dupuy infila un altro calcio, ma a recuperare lo strappo inglese ci pensano due piazzati chilometrici di Halfpenny inframmezzati da uno di Blair, 12 a 10 con il Millennium che, semmai avesse smesso di esultare, riprende colore. Dupuy chiude il primo tempo con un altro piazzato, poi si inventa la seconda meta inglese: lunga corsa sul filo della rimessa laterale di Johne Murphy, un paio di raggruppamenti nei 22. Poi il numero 9 francese fa il giocoliere e infila Flood in un buco millimetrico. Capisce tutto Geordan Murphy, capitano a Cardiff e capitano con il trifoglio sul cuore. Fanno a tempo a prendergli la targa, è 20 a 12 in mezzo ai pali. Arrivano altri due calci inglesi, Dupuy sembra aver scaldato il piede. La partita, quando mancano meno di venti minuti, sembra segnata. E chi li recupera quattordici punti a quella squadra? È da un’ora che i Tigers stanno massacrando ad ogni raggruppamento i padroni di casa, c’è Tom Croft che a momenti cammina sulle acque appena smosse dai gallesi. Erodono metri, non lasciano un minimo di spazio di manovra. Certo, avranno steccato contro Perpignan e Ospreys nel girone, ma deve succedere veramente qualcosa di insondabile per rimettere in piedi la partita.

E succede.

Si fa male Flood, innanzitutto, che stava facendo un partitone. Poi ci pensano Newby e Geordan Murphy, un giallo a testa, tra il 62’ e il 68’. La terza linea rientra con il punteggio invariato, ma a cambiare è proprio il vento: i Blues prendono coraggio e ci provano. Mancano sette minuti, Jamie Roberts riceve l’ovale sui dieci metri, finta un passaggio e si infila nel buco. Poi naviga, ma non è più fermabile da nessuno. Blair, da posizione improba, indovina i pali. Il Leicester riparte dal drop, palla a Cardiff.

Che allarga tutto l’allargabile.

O quasi, perché Jamie Roberts prende l’interno e rompe un placcaggio.

Il Millennium salta per aria, c’è superiorità netta. Roberts fissa l’uomo e serve Tom James.

Sono 60 metri tondi tondi, gli inglesi la palla non la vedono più.

Blair trasforma ancora, è pareggio.

E adesso?

Nei due supplementari, se si esclude un velleitario drop di Johne Murphy, non succede praticamente nulla.

Fino a due minuti dal termine, quando comincia quella che è una vera e propria corsa agli armamenti. Leicester si ritrova senza calciatori di ruolo in campo, visto l’infortunio di Flood e vista la sostituzione di Dupuy nel secondo tempo. Dan Hipkiss, secondo centro, sanguina dal labbro, è necessario un cambio, torna in campo Dupuy. Nello stesso momento i Blues cambiano Jamie Roberts, bene ma non benissimo alla tomaia. Entra Ceri Sweeney, già nazionale e già apertura di ruolo ai Dragons. Ottimo dalla piazzola, ça va sans dire. Poi i supplementari terminano, comincia il ballo dei debuttanti.

Si decide tutto agli shoot-out, praticamente i rigori calcistici mutuati al rugby.

Pallone su piazzola, linea dei 22. Due pali da centrare, una traversa da superare.

Prima quelli che le tomaie le sanno far parlare, che magari cerchiamo di chiuderla subito.

Poi gli altri, forse.

Cominciano la serie Blair e Dupuy, segnate un bersaglio a testa.

I Blues sulla carta sono favoriti, hanno in lista quattro giocatori che in potenza potrebbero tranquillamente scambiarsi il ruolo di piazzatore designato senza che il risultato sul campo cambi di molto. Halfpenny e Robinson centrano i pali, pareggiano a loro volta Sam Vesty e Geordan Murphy, quest’ultimo con qualche brivido. Leicester ha finito le sue carte pesanti in questo fondamentale. Tocca a Sweeney, ancora dentro. Poi Johne Murphy. È quello che ha provato il drop ai supplementari.

Fuori.

Cardiff, nel tripudio generale, ha il match ball.

Si presenta dalla piazzola Tom James, che qualche allenamento al piede con Neil Jenkins, in Nazionale, l’ha pure fatto. È mancino, sistema la palla. Guarda i pali, rincorsa lenta.

Palla fuori di un bel po’.

E allora non è finito niente.

Pareggia Hamilton, si va ad oltranza.

Segnano Shanklin e Mauger.

Cavolo, gli inglesi hanno Mauger e lo usano solo ora.

L’ovale calciato da Richie Rees compie un Fosbury sulla traversa: bassissimo, si arrampica a fatica, si inarca, va di là. Il Millennium trattiene il fiato per un po’, guarda le bandierine alzarsi, respira. Newby pareggia, pure con un gran bel calcio. Proprio vero che questi neozelandesi su un campo da rugby sanno far tutto.

Mai vista una roba del genere. Ma proprio mai. No, non il calcio di Newby.

Tocca al Capitano, al Re di Cardiff. Martyn Williams, in due parole. Qualche anno in più rispetto ai tempi d’oro, qualche capello rosso in meno.

Piazzola.

Ovale caricato, pubblico di più.

Williams qualche volta i piedi addosso ad un pallone li ha messi. Calci di spostamento per lo più, anche qualche perfido rasoterra a mettere in difficoltà le seconde linee di difesa avversarie. Qualche presenza da difensore centrale negli anni delle giovanili.

Sì, ma la piazzola è un mondo a parte.

Ci vogliono concentrazione, battito cardiaco da scalatore consumato sul Pordoi, sangue freddo.

E mira. Tantissima mira.

L’ovale finisce a lato.

E adesso il match ball ce l’ha Leicester con Jordan Crane. Crane a 12 anni ha fatto un provino per il West Bronwich Albion, club calcistico inglese di discreto valore e fascino. Tutta la Cardiff che sa questa storia sta sperando che si sia dimenticato come si fa a colpire un pallone.

Pali centrati, è finita.

Gli inglesi esultano, ma sono contenuti. No, non perché sono inglesi e quelle cose lì bisogna farle con moderazione, che son cose da gente di lignaggio più basso. Gli inglesi si battono il cinque, si abbracciano. Poi vanno a salutare Martyn Williams, seduto in mezzo al verde di un campo dal quale vorrebbe volentieri sparire. Lo abbracciano, lo rincuorano a parole. Non è circostanza, sanno benissimo che poteva capitare pure a loro, che lì la tecnica individuale conta fino ad un certo punto. Non è questione di tecnica, di sangue freddo, di cuori che sanno rallentare. Neppure di mira. È fortuna, tante volte.

Williams uscirà dallo spogliatoio dopo un’ora e mezza, distrutto e senza voglia di parlare con anima viva alcuna. Né nessuno ha il coraggio di avvicinarlo per dirgli qualcosa. Che gli dici, poi?

Che un giorno forse andrà meglio? Trentaquattro anni per un flanker con quelle doti sono tanti.

Che la vecchia Lizzy, Sua Maestà, lo nominerà Membro dell’Impero Britannico per i servigi dati al rugby? Sì, ma mica si torna indietro.

La mira si può allenare. Il sangue freddo c’è.

La fortuna, quella no.

Quella, in giro per Cardiff, tornerà.

Viene e va, ballando e barcollando.

Come una palla da rugby.

Senza piazzola, meglio.

 

La cinica lotteria dei rigori