Un’ultima stagione da càncari

Numero 12”. Tre secondi di tempo, poi mi arriva addosso una maglia bella pesante, cotone ignorante di una volta, lanciata da mano impaziente. Colpa mia, la prossima volta imparo a non parlare dell’ubriacata della sera prima coi compagni mentre parla il mister. Mister che mi guarda: mi fissa, torvo, come se non avessi fatto i compiti in classe o come se la pratica di quel cliente fosse stata da buttare. Stringo le chiappe, sto zitto. Lui mi fissa ancora, poi distoglie lo sguardo. Stop. Non è di certo logorroico lui, ma sa come farsi capire, bastano quei due occhi iniettati di non so che cosa. Anche il sergente maggiore Hartman ci penserebbe per un po’ prima di urlargli davanti, se fosse squadrato in quella maniera. Meglio una recluta alienata che ti punta contro un fucile Full Metal Jacket che lo sguardo di un ex flanker già incazzoso di suo e neanche troppo di buonumore: un fucile a volte fa cilecca, un placcaggio è per sempre, quando te lo meriti. Anche quando giocava era così, il nostro mister. Terza linea taciturna, leale, silenziosa come solo certi killer professionisti e professionali sanno essere: quasi neanche ti accorgevi che c’era in campo, se eri suo compagno di squadra. Gli avversari, però, se lo sognavano di notte per come menava, per i placcaggi intrisi di furia agonistica, qualcuno anche per l’alito, lasciato incattivire lontano dal dentifricio prima di ogni match. D’altronde, se non sei cattivo fino in fondo forse nessuno capirà mai l’antifona. Mai un giallo eh, sempre correttissimo, ma certi placcaggi te li portavi a timbrare il cartellino il lunedì. Un leader silenzioso, di quelli che oggi in giro per il mondo “leader by example”, in pratica un Ardito della prima guerra mondiale, uno di quelli che la linea Piave la attaccava davanti a tutti. Occhio che frega, la storia, nel rugby. Mai sentito nessuno parlar male di lui. Capitano, ovviamente. Un onore averlo come guida, dicevano i suoi compagni divenuti grandi, un onore averlo come insegnante severo ma giusto nello sport che amo e che ho la fortuna di giocare. Oggi è particolarmente incattivito, il mister. Di lì a mezz’ora avremmo affrontato la capolista e noi eravamo lì a ridere e scherzare. Che la battuta va bene, dice lui, a patto che si esca dal campo senza nemmeno il fiato per respirare e con i muscoli che gridano al posto nostro. Non gli importa il risultato, lui vuole vedere degli uomini in campo. Per lui si può anche perdere, ma solo se l’avversario è stato più forte sul campo. Altrimenti, al primo allenamento utile, sono cazzi. Meglio non andarci, davvero, fingetevi malati o in viaggio di lavoro, se non siete uomini abbastanza. Dite che avete visto la Madonna e Paolo Brosio, insieme, e li avete dovuti seguire. No no, niente paternali, niente offese, quelle sono cose che uno dimentica in tre secondi, se qualche bastonata nella vita l’ha già presa. Lui tace e dà le direttive, poi guarda. Assiste al massacro. Chi è ancora in grado di intendere e di volere a fine allenamento non sgarra più, garantito al limone. A volte è lui stesso a condurre le danze in allenamento, e ti rendi conto che a 50 anni a momenti potrebbe soffiare il posto a qualcuno di noi in campo. Si è sempre allenato lui, anche dopo il ritiro un po’ troppo prematuro, a 32 anni, quando tutti dicevano che avrebbe potuto giocare tranquillamente fino ai 40. 32 anni, scarpe al chiodo e nessun infortunio, solo non ricordategli mai che a fermare una delle più feroci belve viste nei campi di provincia è stata una bimba di 2 anni. Ciao, dite pure addio a quel che avete di più caro, quel lato del mister non si tocca. Perché il nostro mister è sì uno che in campo ha dato tutto, ma quando è stato il tempo di decidere ha saputo sacrificare tutto quel che più amava per il bene di chi aveva intorno. Successe così: la sua squadra andò a giocare a Trieste, campo “caldo”. Dopo un suo placcaggio parecchio robusto dagli spalti qualcuno pensò bene di lanciare una moneta. Stac, preso in pieno all’arcata sopraccigliare, 8 punti belli e serviti. Pronto soccorso? Macché, non volle sentire ragioni: ago e filo, a gomito a gomito con la retina. Dal campo non lo smuoveva nessuno. Poi riprese a giocare come se niente fosse successo. Tornato a casa parcheggiò la macchina al solito posto, sotto il pino. Scese dall’auto, ma proprio in quel momento una pigna decise di cadere e lo colpì giusto giusto sulla ferita, riaprendo il solco. Inutile andargli a spiegare la più famosa delle leggi di Murphy, conoscendolo lui vi chiederebbe se giocava apertura o centro. Sta di fatto che il taglio si riaprì e ricominciò a sanguinare copiosamente. Entrò in casa di soppiatto e si diresse subito in direzione del cassetto dei medicinali alla ricerca di un minimo di garza o cerotto. In quel momento la luce si accese e si sentì una voce:

Papà sei tornato”.

Era Martina, non riusciva a prendere sonno ed era scappata ai placcaggi troppo morbidi del sonno e della mamma. Lui si girò per prenderla in braccio, aveva già dismesso l’espressione del killer, ma appena la bambina vide il padre coperto di sangue in volto cominciò a piangere a dirotto. Non c’era verso di fermarla, aveva paura di lui. Per lui fu uno choc vedere la meta più bella che avesse mai realizzato (non l’ha mai detto, ma si vede che è così) piangere per colpa sua. E decise di smettere. Fu così che una bimbetta di due anni riuscì in quello che tanti chiropratici vestiti da rugbisti cercavano di fare ogni santa domenica: fermare la furia di 90 chili di muscoli e rabbia agonistica condita da due baffi da mongolo alla corte di Gengis Khan. Alla piccolina la storia l’hanno raccontata, nemmeno lei ci crede a distanza di anni, o almeno, fa vedere agli altri di non credere a una storia del genere, ma sotto sotto se la gode. Tutta suo padre, dal punto di vista del carattere. Decisa, silenziosa e testarda, ma con un cuore che ha solo bisogno di essere scoperto. Uguale alla madre, dice lui, per far capire che le donne forse lo hanno fatto sudare più di tante bestie con la maglia pesante a righe orizzontali. Compagni di scuola da sempre, dicono che lui non si sia mai dichiarato a voce. Ma era evidente le facesse il filo, facendo emergere una timidezza che nessuno si sarebbe mai aspettato da un cristone del genere. O forse era solo un modo per non abbinare certe parole alla sua atavica rudezza. Ci vollero un mazzo di fiori e una lettera, scritte di suo pugno. Ora, che quel mister che guarda tutti malissimo e che sovente maltratti qualche divinità nasconda un lato romantico lascia un po’ basiti. Ma a poco a poco anche lei abbassò le difese, si sciolse e non lo lasciò più. Dovette cedere però sul viaggio di nozze: si parte il lunedì, la domenica si giocava a San Donà, “A cresima vien prima del matrimonio”, diceva. Allargò le braccia anche il prete, convincere quel personaggio, diceva, esulava dalla sua missione pastorale.

Dopo l’incidente “domestico” cominciò subito ad allenare, che dal mondo ovale non si sarebbe staccato nemmeno con un fucile puntato alle spalle, ma non mise più addosso una maglia, sua figlia Martina aveva vinto. E allora cominciò a plasmare giocatori, tutti più o meno a sua immagine e somiglianza. Gente corretta, ma cattiva come la peste, fiera, guerriera, attaccata con le unghie al match finché arbitro non li separi. Sarà per questo che in giro ci chiamano “Càncari”. Sarà per questo che, quando piacciamo anche a lui, si gira verso chi è in panchina ed esclama “Guarda i me càncari! I me càncari!” Il “càncaro”, tradotto letteralmente dal veneto, è il cancro, il tumore. Ma applicato alle persone, con una buona dose di bonarietà e di confidenza, sta a indicare persone maledettamente tenaci, grintose, irriducibili. Nessun’altra parola rende al meglio quel che buttiamo in campo negli 80 minuti. Gambe, braccia, testa, cervello, cuore. Attributi a volontà, finché ce n’è, finché qualcuno ci porta via a forza dal campo e ci mette una birra davanti al naso. Come quella volta che si perdeva 67 a 3 a Padova a 10 minuti dal termine, sarà stato 4 o 5 anni fa. Loro più forti in tutto, noi che volevamo la meta a tutti i costi. Vuoi mettere fare una meta a quello squadrone? Dopo ripetuti raggruppamenti sfondammo ed esultammo insieme. Il loro numero 11, un ragazzino, fece una smorfia di quelle che vedi sui visi di certe ragazzine snob il sabato sera e ci applaudì ironicamente, come a dire “Contenti di aver fatto meta?”. Ne segnammo altre tre spronati da quello sberleffo, finì 67-29, con il giovincello che nel terzo tempo venne a chiederci scusa accompagnato dal capitano.

Mai deridere l’orgoglio di un rugbista, non si sa mai a cosa si va incontro.

Mai una volta abbiamo mollato prima del fischio finale, mai. Mai nessun rimpianto, nessuna maglietta intonsa. E fidatevi, sta cosa fa miracoli, soprattutto quando l’avversario tira i remi in barca o quando si rende conto che non si libera di noi neanche a bastonate. A volte capita anche nel mondo ovale, soprattutto quando l’esperienza è ancora poca e gli avversari mollano la presa senza darti il colpo del ko. Se lo ricordano bene quelli di Verona, convinti di vincere tranquillamente a casa loro. Giovani, talentuosi, bravi, ma di una presunzione.. Segnano quattro mete nel primo tempo, noi tre calci, 28-9. Una fatica che non vi dico, giovani puledri contro muli che hanno scalato troppe montagne per essere ancora freschi. Ma nella ripresa rallentano, convinti di avercela fatta. Noi mettiamo due calci, loro uno, poi segno io un drop, 31-18. E cominciano a sbagliare cose semplici. Andare sotto ritmo, nel rugby, a volte equivale a suicidarsi. Altri due calci, il loro mister va nel panico. Non segniamo mete, ma sfruttiamo tutta la loro frustrazione e facciamo punti. 31-30, robe da matti. Loro non tengono più un pallone e all’ultimo cercano la liberazione, palla che resta in campo e arriva a me. Ci provo, chiudo gli occhi e sparo il drop. Dentro. Non avete idea di quante botte ho preso dai miei compagni quella volta. Anche un gavettone. Il mister mi disse “Càncaro!” all’orecchio. Poi una manata sulla schiena che ciao. È il suo modo di dirmi bravo.

Ecco, oggi giochiamo di nuovo contro di loro, primi in classifica con una sola sconfitta, quella contro di noi. E se hanno imparato bene la lezione, resterà l’unica. Anche perché in spogliatoio non si riesce a concentrarsi. Noi secondi, già promossi e con tanta voglia di sgambettare qualcuno, nonostante sia l’ultima di campionato. Tira quasi aria di vacanze scolastiche, anche se è aprile. Io ho 27 anni, troppi anche per uno studente fuoricorso cronico all’università. La mia consolazione sta nel fatto che sono tra i più giovani del gruppo, c’è chi i 30 li ha superati da un pezzo, come Ivan, 34 sulla carta d’identità, 44 davanti allo specchio ringraziando punti, barba sale e pepe e cicatrici, ma un ragazzino in campo. Mediano di mischia, da sempre sui campi minori, da sempre uno dei più grandi figli di puttana che abbia mai visto in campo, sportivamente parlando. Sempre a parlare, a provocare i piloni avversari o a scalciare le ginocchia delle seconde linee a cui rende 30 centimetri buoni. Come quella volta che in una mischia per gli avversari si avvicina al pilone e gli dice “Tanto la perdete, con quella pancia dove vuoi che passi la palla? Non ci passa, panzone!” Quel pilone non fu troppo intelligente, si staccò a gioco fermo e gli diede un cartone in faccia che lo stese per un po’.

Beninteso, tutti al posto del nostro avversario lo avrebbero menato di brutto, me compreso. Ma il giallo dato dall’arbitro e il calcio girato a nostro favore gli conferirono una specie di aura di intoccabilità. Fino alla prossima provocazione. E’ il suo modo di vivere a tutto tondo, feroce e piantagrane fino all’ultimo, beffardo e irriverente. Uno che di botte ne ha prese tante, sia in campo che fuori, uno che però non ne ha mai abbastanza, neanche della palla ovale, per fortuna: è uno dei pochi in grado, quando riesce, di darci uno spunto veloce che manco Cipollini nei giorni di grazia. Uno così serve come il pane quando hai una mischia che, per quanto ci provi, indietreggia tante volte di fronte ad avversari più giovani, di quella gioventù che ti verrebbe voglia di riavere per spezzare qualche catena di troppo che aleggia ancora nel tuo passato. Perché la maggior parte dei nostri avversari ci rende in media dai 4 ai 5 anni, e sul campo si vedono tutti, a volte anche più del lecito: ragazzini atletici, magliette attillate su fisici da passerella, anche i piloni (!), Gatorade e acqua minerale nel terzo tempo. Quando Fulvio, pilone mio coetaneo e corriere (non avete idea delle prese in giro sulla sua poca mobilità), vide due avversari col capello impomatato bersi un bicchiere di acqua dopo il match pensò che il rugby che conosceva, quello che gli aveva tramandato il padre (pilone a sua volta) fosse finito. Noi invece siamo quel che siamo: fisici diversi, dal magro (pochi) al sovrappeso, dall’etilico all’atletico (pochi, ma ancora tengono botta), diciamo che le magliette da noi sono aderenti per motivi tendenzialmente diversi. Ci fanno correre, i ragazzini, ci fanno sudare, a volte rimpiangiamo l’aver esagerato a tavola la sera prima, ma qualche soddisfazione ancora ce la prendiamo. Come facciamo? Ogni tanto me lo chiedo anch’io, ma credo di essere arrivato alla conclusione: siamo uomini, e la cosa da un certo punto di vista ha dei vantaggi.

Lo siamo tutti, più o meno, anche se a sentire certi discorsi di donne, alcool e vita vissuta viene il dubbio, a volte . Siamo diversi, come è giusto che sia: c’è il fighetto, quello religioso, il pilone bestemmiatore, quello di sinistra convinto, quello che la moglie non vuole che giochi ma lui fa lo stesso ma nel dubbio stamattina siamo andati tutti insieme a funghi. C’è anche quello che si è scopato la compagna dell’altro, per dire. Più volte. Ma in campo basta uno sguardo e sappiamo sempre cosa fare e come farlo, come tanti soldati che smettono all’improvviso di parlare e agiscono, all’arma bianca o di guerriglia, dipende da chi hai di fronte. Fratelli, più che compagni. Tante volte, anche se soffriamo l’atletismo altrui come maiali ai primi giorni di dicembre, riusciamo a tener testa con l’esperienza e con quello che chiamano “mestiere”. Fidatevi, gli avversari che di testa a prima vista ti sottovalutano non digeriscono il gioco “sporco”, tante volte provano a farlo, ma non sono capaci e sbagliano. Qualcuno cerca l’aiuto dell’arbitro a braccia aperte, niente da fare. Restano impantanati e non ne vengono più fuori, abituati a saper fare sempre la cosa giusta. Noi ne abbiamo passate tante su quel campo, in compagnia di un pallone ubriaco che a volte funziona meglio di un alcool-test. Ne abbiamo prese tante, di batoste, lasciando in pegno regolarmente legamenti e qualche molare ricambiati solo da qualche chilo di fango che alla prima doccia ci lascia completamente nudi. Botte da orbi, sia dentro che fuori dal rettangolo verde, queste. In testa, allo stomaco, alle spalle, anche nei coglioni a volte, senza pietà. Anche fuori di metafora. Ed in tutto questo abbiamo avuto la fortuna di trovare un maestro che non ce ne ha risparmiata una, il mister. Perché prima di essere un allenatore per noi è il padre severo, quello che ti bastona se la sera prima del match hai alzato troppo il gomito, quello che ti mette davanti alla vita, la vera maestra secondo lui, e ti dice “vai e placcala alle gambe”. Diffidate da chi vuole insegnarvi qualcosa che non ha vissuto, parla per sentito dire. Chi ha sulla propria pelle cicatrici e lividi ha tantissimo da insegnare, molto più di chi ti arriva lì e ti tira fuori schemi e lavagnette e parla di cose che, realisticamente, non servono a un cazzo. E’ inutile che parli tanto di “loop” o di “decoy runners”, perché magari la prima volta mi freghi coi tuoi uomini non impegnati nell’azione, ma la seconda ti prendo e quando ti rialzi fai la faccia del cucciolo di tigre in gabbia. Ma fatelo pure, ci inventeremo altri modi per farvi soffrire. Se il mister mi sentisse forse sarebbe anche orgoglioso di me, ma vedo che si alza e viene verso di me. Smetto di pensare.

Tu, fai quello che sai fare e fino in fondo. E non farmi venire un colpo come l’altra volta” Ecco, saluti e baci, sono segnato. Ve l’ho detto che il mister non è di tante parole. Lui non parla, scava buchi nelle persone. E si è segnato il drop che ho buttato dentro all’andata. In panchina hanno detto di non aver mai sentito una bestemmia più clamorosa di quella che ha pronunciato. Una bestemmia strike, di quella che di santi ne tira giù più di uno alla volta. Un calcio così, senza vantaggio, con due avversari addosso, di ignoranza pura. Perché se uno ha un minimo di cervello quella palla se la tiene stretta e va addosso ai due uomini che si trova davanti, un sostegno arriverà. Io no, ho staccato la spina e ho calciato, 50 metri. La potenza nelle gambe non mi è mai mancata, devo essere sincero. Traversa superiore, rimbalzo, dentro. Neanche se ci riprovo altre 10 volte mi viene così. Anche perché non sono il calciatore designato, sono solo uno di quelli che Jonny Wilkinson ha fulminato sulla via Damasco in una piovosa serata australiana di ottobre. E il fulmine, quella volta, ha deciso di scuotermi al momento giusto, proprio quando cercavo un pretesto per mollare qualcosa che si era appiccicata a me ma dalla quale volevo fuggire: il calcio.

Ebbene si, io ero un calciatore. Tuoni, fulmini e Frau Blücher avvistata nelle vicinanze.

D’altronde vent’anni fa, se volevi fare sport, non è che nei paesini ci fosse tanta scelta: calcio o pallavolo, se c’era la palestra. Basket qualche volta, ma se sei alto un metro e una cartolina dopo un po’ rinunci. E la pallavolo, anche se maschile, ti bollava sempre come “femminuccia”. Calcio allora, tutta la vita. Vuoi mettere andare al catechismo al sabato pomeriggio con la tuta e la borsa davanti alle altre ragazzine? Era una cosa che ti faceva sentire figo, quasi di un altro pianeta. Speravi che un giorno venissero a vedere le tue prodezze, che qualcuna magari ti facesse il filo. Poi però capitava sempre più spesso che ti sedevi in panchina, e anche di scoprire che le ragazzine di cui sopra non ti cagavano manco di striscio, per quanto tu provassi ad allenarti seriamente. Difensore centrale, quando mancava tanta gente. O centravanti, quando non volevano facessi troppi danni. Bello, no? Finché un giorno, a 19 anni, uno degli accompagnatori mi avvicinò con fare torvo:

Quest’anno ti vedo meno agli allenamenti, che combini?”

Eh, quest’anno ho cominciato l’università, ho i corsi fino a tardi, non riesco sempre.”

Palle! Quelli che vanno all’università sono senza coglioni! Tu sei senza coglioni! Ricordati che col calcio farai i soldi, con i libri no. E chi come te ste cose non le capisce è meglio che le capisca al volo!”.

Ah dimenticavo: la squadra era in Seconda Categoria, non so se mi spiego.

Capii al volo. Fu l’ultima volta che mi videro al campo. I miei amici compresero.

Altri meno, ma va bene così.

Cominciai ad andare a correre, un po’ per sfogarmi ogni tanto, un po’ per esorcizzare la cucina di mia madre, un po’ perché mi piaceva stare a tu per tu con me stesso, ogni tanto. Finché un giorno ricevetti la “chiamata”: sabato pomeriggio, nebbia, nessuna voglia di uscire. Zapping televisivo da vecchia zitella annoiata, poi stop. Schermo verde, c’è una partita. Ma non è calcio. Palla diversa, tanta gente in campo, azzurro e nero ovunque. Nazionale Italiana di qualsiasi sport? Nel dubbio lascio perdere il telecomando e guardo.

Rugby, mi sembra. L’unico ricordo che avevo di questo sport era una vecchia pubblicità di un furgone sponsorizzato dagli All Blacks, la nazionale neozelandese. C’era Jonah Lomu e il suo ciuffo solitario su una testa completamente glabra. Ricordi di ragazzino ignorante. Ma quelli che vedo in campo sembrano proprio loro. E il punteggio lo certifica, 59 a 3, mancano pochi minuti. E attaccano ancora, i neri, come se 56 punti di vantaggio non bastassero. Più agili, più veloci, più tutto. Solo che ad un certo punto perdono palla. Gli azzurri fanno due passaggi e uno di loro, criniera al vento, vola in meta spinto dal boato del pubblico. Capirai, 59-10! Nei giorni successivi, però, un tarlo cominciò a fare un bel lavoro nel mio cervello: come si poteva esultare in quel modo per una meta allo scadere quando sei sotto di cinquanta e passa punti? Una volta a calcio segnammo il gol della bandiera a 2 minuti dal termine, 9 a 1, ma nessuno esultava. Mah, si vede che nel rugby ci si accontenta di poco.

Ignorante che non sono altro.

Ma il dubbio si insinuò dentro di me, e fidatevi, è stata la mia fortuna.

Iniziai ad interessarmi a questo sport, guardavo le partite in tv, recuperavo video di vecchie partite su internet. Quello potevo fare, di squadre, nella mia zona, non ce n’erano. Finché non mi arrivò sotto gli occhi un video dal nome onomatopeico: “Wilkinson drop”. Boh, nel dubbio guardiamo. Era il drop vincente di Jonny Wilkinson nella finale dei Mondiali del 2003. Pioggia, manca pochissimo e gli inglesi vanno avanti a testate ai supplementari. 20 a 20, poi si inventa un calcio di rimbalzo.

Pazzo, pazzo! Sei un folle! Come fai a prenderti una responsabilità del genere?

La palla va dentro, l’Inghilterra è campione, robe da matti. E io vedo la luce, tipo Jake Blues.

Drop, drop. DROP.

La parola mi entra dentro. Cazzo, almeno una volta nella vita voglio provare a farne uno. A dirla tutta mi era già successo di calciare la palla di controbalzo quando giocavo a calcio, ma l’effetto non era quello voluto e puntuale ogni volta arrivava una scarica di improperi dall’allenatore che ve la raccomando. Credo più che altro perché toccava a lui recuperare quella palla, dall’altra parte della strada dietro il campo. Solo che stavolta è diverso: lì dovevo saper controllare un pallone che non deve andare troppo alto, qui serve una bella frustata.

Facile.

Ignorante che non sono altro, e due.

Presi in prestito il pallone da football di mio fratello, altro sportivo da divano, e andai al campetto. Obiettivo: calciare oltre la traversa. Il più alto possibile, come sapevo fare ai vecchi tempi della palla tonda.

Ne avessi preso uno, di rimbalzo. Sembravo uno degli ubriaconi del paese dopo una serata particolarmente impegnativa nei dintorni del bancone del bar. Rideva anche un mio amico venuto a farmi compagnia nei miei tentativi. Come dargli torto? Ma dopo una birra di consolazione decisi di andare oltre e di provarci per davvero. Quella era la strada che volevo, non sapevo se era la mia, ma ci volevo puntare.

E allora via: abbandono la casa e vado a vivere in città, università comoda. Campo da rugby comodo. Appartamento un po’ meno, ma ci si adatta a tutto. Non vi dico gli strilli di mia madre, convinta come ogni buona madre che si rispetti che il figlio se ne andasse in guerra, ma il dado ormai era tratto.

Ore 18, un martedì sera. Tremano un po’ le gambe, ma sono al campo. Sembro un bambino al primo giorno di scuola. Esperienza nuova, gente nuova, a parte Fulvio, pilone figlio e nipote di piloni nonché compagno di corso e degno compare di partite a scopone scientifico nelle aule vuote. E’ lui che mi ha introdotto qui, è lui che mi presenta al mister. Stretta di mano ferrea, poi guardo se le falangi sono ancora tutte al loro posto. Si parte, nessun discorso, nessuna parola, si corre. Poi ripetute, flessioni, addominali. Provo a starci dietro, consapevole che domattina l’acido lattico mi farà piangere.

Col tempo imparo l’arte del placcaggio, il trattamento del pallone, come entrare in ruck. La prima volta mi ci buttai a capofitto, risero tutti, a parte Andrea, tallonatore, che per un po’ ebbe dei dubbi sui miei gusti sessuali. Imparai il sostegno, e guai a voi se giocate a rugby e non sapete che cos’è. Meglio di qualsiasi caschetto, vi salva la vita.

Il drop no, non ebbi il coraggio di chiederlo al mister.

Sarebbe stato come andare per la prima volta a lezione di chitarra e chiedere di imparare subito l’assolo di “Innuendo”: a prescindere dalla difficoltà sarei stato marchiato a vita. Ma piano piano, fermandomi con qualche trequarti a scaldare il piede, ho preso possesso del gesto. Me la cavicchio, non sono sir Jonny Wilkinson, ma mi difendo.

Di strada ne ho fatta da allora, sono ufficialmente diventato un centro. Che non vuol dire stare al centro, almeno non solo. Vuol dire saper fare un po’ tutto, saper placcare, saper passare, saper calciare, saper sostenere. Il mister una volta ha definito i centri come terze linee col piede buono. Più o meno la definizione ci può stare. A me calza a pennello: io dovevo essere terza linea, poi il mister mi vide restituire al piede un pallone calciato per sbaglio dall’altra parte del campo.

Tu, vai coi trequarti e prova a calciare ancora”

Sicuro mister? Non è che sia sto granché”..” Nel dubbio però mi misi a correre, aveva tolto le mani dalle tasche. E un mister agitato è peggiore di qualsiasi avversario.

Adesso sono qui che provo a indossare questo numero 12 di cotone grezzo. Non è la prima volta, beninteso, ormai il campionato è finito. E’ la prima volta che lo faccio in aprile. Maglia old style, dicevano. Figata, dicevano. Sto sudando come un maiale e devo ancora lasciare lo spogliatoio. Ci aspettiamo un po’ tutti, poi si esce insieme quando l’arbitro chiama. Proviamo sempre a guadagnare quei due secondi in più, l’avversario si deve adeguare. E infatti usciamo che loro sono già fuori, tutti belli eleganti nel loro completo nero. E’ che li conosciamo già, altrimenti li avremmo scambiati per gli All Blacks: tutti vestiti di nero, magliette aderenti che fanno di tutto per non nascondere fisici armoniosi, qualche cerotto di quelli colorati di ultima generazione, giusto per far vissuto il più delle volte. Rispetto al match di andata hanno perso il 10 titolare, sostituito da un australiano fatto venire apposta dal suo Paese in cambio di un posto di lavoro e di un rimborso spese. Dicono sia molto più forte. Non male per una società che dicono fosse nata tra amici e certo, un po’ triste a questi livelli dove il divertimento e la goliardia dovrebbero stare davanti a tutto, almeno secondo il sottoscritto. Beh, poco male per noi: il loro vecchio 10 si è aggregato a noi e si è subito inserito nel gruppo. Un bravo ragazzo Andrea, davvero. Il mister se ne è subito innamorato; mai vista una apertura placcare con quella costanza e con quel coraggio. Un fabbro. Uno che piace a lui. Ecco, magari non è precisissimo al piede, ma a quel punto la responsabilità me la sono presa io, davanti a tutti: da calciatore per le lunghe distanze sono diventato piazzatore designato. E per non farci mancare niente abbiamo anche noi lo straniero, Amets, basco, studente Erasmus. Terza linea. Una faccia d’angelo che in campo sa usare a dovere la carta vetrata. Dice di aver già giocato con la selezione regionale nel suo Paese, non fatico a crederlo. Il Mister ha voluto conoscerlo meglio, un giorno. Fa così con tutte le sue terze linee, prima o poi. Osteria e via di rosso, a oltranza. Paga tutto lui.

Alla fine ha scoperto che la parola Amets in basco significa “Sogno”. Da allora lo chiama “Incubo”, perché uno così gli avversari se lo sognano di notte. E anche perché quella volta in osteria il conto fu parecchio salato, ma non ci sono conferme su questo. Il basco è un taciturno, se volete provare a chiederlo al mister.. Amets quella sera ha ufficialmente imparato la parola cancaro. Mi sa che quelli che idearono il Progetto Erasmus non intendessero questo con “scambio culturale”, ma a noi va bene così.

Usciamo dagli spogliatoi. Il nostro campo è un po’ come noi: vecchio, verde a sprazzi, leggermente più corto della media, ma sempre negli standard. Sa di antico, di fango, di sudore e di olio canforato, che non si usa più da anni ma che ogni tanto torna a fare un salutino da queste parti. O forse, come dice Antonio, seconda linea, è il mister che se ne mette un po’ in ricordo dei vecchi tempi andati. A vedere la partita ci saranno una ventina di persone tra cui Martina, un paio di ragazzini delle giovanili e due o tre matti del paese appena evasi dal bar dopo la punzonatura. Dicesi “punzonatura” il primo bicchiere di vino bianco della giornata, preferibilmente consumato prima delle 10 del mattino. Come nelle gare ciclistiche è obbligatorio iscriversi e ritirare il numero anche qui è d’obbligo “registrarsi” al mattino, altrimenti scatta la “malattia”, con annessa derisione e messa alla gogna. Pure Amets un giorno si presentò in facoltà dopo la “puncionatura”. Tenne botta per tutto il giorno, ma la sera marcò visita.

Gli altri spettatori sono genitori o morose degli avversari. Me li ricordo all’andata, sono perlopiù neofiti, urlano, inveiscono, contro avversari e arbitro. Ogni volta è un fotofinish tra compagne, madri e sorelle. Fanno schifo ma, purtroppo o per fortuna, fanno parte del gioco anche loro.

Si comincia. Calcia Andrea, recuperano loro il pallone, li andiamo a prendere nei 22. Liberano dopo una fase, 40 metri guadagnati. Giocano semplice, mi sa che hanno imparato la lezione dell’altra volta. Perdiamo il pallone in avanti, mischia per loro. Noto solo ora che non hanno i piloni titolari, seduti per il momento in panchina. Li arrotoliamo per bene, calcio. Ivan, oggi anche capitano, mi guarda e capisce. “Pali”. Linea dei 10 metri, centimetro più centimetro meno. Un po’ defilato sulla sinistra. Mi danno il sostegno di plastica, calcolo la rincorsa. Che tante volte in tv ho preso per il culo certi calciatori e i loro balletti prima del calcio, ma non è così facile. Tre passi indietro, uno a sinistra. Miro, sparo. Alta, bella, dentro. 3-0 per noi. Fischiano fuori dal campo, prima dopo e durante il mio calcio. D’altronde non siamo al Millennium Stadium di Cardiff. Non mi va di dare lezioni di sportività fuori dal campo, ma il più bel silenzio che puoi trovare è quello dentro di te. Quando ci arrivi resisti a tutto. E a tutti. I nostri avversari si scuotono. E ci colpiscono dove soffriamo di più, nel gioco rotto. Il loro 10 corre come un dannato, credo si chiami Patrick. Due mete in fotocopia: calciamo distante la palla, le loro ali e il loro estremo ci attaccano in velocità e creano la superiorità. 14 a 3 per loro, che sto Patrick è anche preciso al piede. Il mister è silente. Di sicuro sarà incazzato, ma sa benissimo che questo tipo di gioco lo subiamo parecchio. Non avendo giocatori estremamente veloci ha puntato su una linea di trequarti composta solamente da centri. Con il risultato che a difesa schierata siamo un muro, ma quando ci attaccano in velocità soffriamo. E di brutto. Ce ne fanno un’altra. Ci raduniamo sotto i pali.

Ragazzi che facciamo?”

Oh questi ci hanno studiato, muovono la palla”

Prende la parola Ivan, capitano:

Ragazzi, è giunta l’ora, comincia l’operazione Sagra”

Eh? Ma sei sicuro?”

Tu sei pazzo”

Il Mister che direbbe?”

Quali sono le alternative?”

Silenzio. Non ce ne sono.

L’operazione Sagra è una tattica studiata in allenamento per contrastare avversari più forti e più atletici. Consiste nel nascondere la palla all’avversario quando avanziamo e creare il caos in campo quando siamo costretti a liberarci della palla: up and under, pressione altissima, difesa che sale a ritmi vertiginosi. Il rischio maggiore è quello di finire le batterie prima del tempo, perché si spendono un sacco di energie. Altro rischio è quello di cedere forse troppo facilmente la palla all’avversario, ma la mischia che funziona ci permette di avere rifornimenti non da poco. Infine c’è l’arbitro, perché difendere così ci espone a falli e infrazioni. In poche parole proviamo a mettere su un bel casino in campo. Se loro ci cascano bene, ma poi dobbiamo sperare non si accorgano che siamo in riserva. In tutti gli altri casi si perde male. Ma siamo già sotto 21 a 3 e la sconfitta per noi oggi è già qualcosa di tangibile.

Tutti d’accordo?”

Si, facciamogli il culo!”

Ivan fa due gesti alla panchina. Il mister capisce e si alza di scatto dalla panchina. Temiamo per la nostra incolumità. Poi si siede e alza il pollice.

Ok giovani, ora sono cazzi vostri. Forse anche nostri, ma quello lo sappiamo già.

Ripartiamo e li prendiamo ancora nei loro 22. Il loro numero 8 prova la finta, ma trova Amets sulla sua strada. Placcaggio, rilascio, contestazione. Un libro stampato.

Tenuto a terra. Grandioso. Pali, da dentro i 22. Non posso sbagliare. Non sbaglio. 21 a 6.

Ripartono loro. Prende la palla Luca, numero 8. Rompe due placcaggi e va a terra. Serie di ripartenze vicine al raggruppamento, guadagniamo qualche metro. Fuori dai 22 Ivan serve Andrea, Andrea serve me.

Due avversari stanno montando, calcio con tutta la forza che ho e chiudo gli occhi. Non si fa, ma mettetevi voi al mio posto. La palla rimbalza in campo ed esce dopo la metà campo. Meglio di così non si può. Rimessa loro, la sporchiamo e mettiamo pressione. Il loro 9 calcia da dietro al raggruppamento, ma l’ala era già partita, calcio per noi.

Ivan, pali”

Guarda che sono 60 metri”

Fammi provare. Male che vada ripartono dai 22”

Ok. Arbitro, pali”

Il mister ha un altro scatto. Mi sa che non posso sbagliare nemmeno questo, altrimenti sono fottuto. Non sono 60 metri, ma sicuri più di 50, quasi sulla linea di touche. Dal mio lato buono. Uno, due, tre passi indietro. Uno di lato. Parto, la prendo bene. Dentro, al limite ma dentro, su le bandierine dei guardalinee. Pericolo scampato, per ora. Siamo a metà del primo tempo e forse siamo ancora in gara. Sotto di 12 punti ma con una mischia che gira alla grande e un piede, il mio, che al momento dice bene. E loro cominciano a capirlo. Non si divertono più. Mettiamo pressione al loro mediano di mischia, che sbaglia più di una volta, tagliamo i rifornimenti. Amets contesta tutto quel che può contestare, Andrea prende coraggio e spara anche un drop. Centra i pali. 21 a 12. Fate 15, vado di rimbalzo anch’io, su liberazione avversaria. Un colpo di mortaio.

Il mister? E chi ha il coraggio di guardarlo, il mister?

Loro non entrano più nella nostra metà campo. Ma quanto durerà? E quanto dureremo?

L’arbitro fischia. Ci incamminiamo verso lo spogliatoio, ma ci ferma Lorenzo.

Ragazzi, il mister vi vuole in panchina.”

Come?”

Si si, niente spogliatoio. Ha detto di dirvi che parlerà qui.”

Siamo spiazzati. Sono spiazzato. Non l’aveva mai fatto. E i gesti vistigli fare in panchina non promettevano granché bene. Forse era meglio ci spalasse addosso due badilate di concime in spogliatoio.

Sedetevi”

Tutti giù per terra. Nessuno fiata.

Continuate così, e non prendete punti nei primi 10 minuti. Andiamo”.

Punto. La messa è finita, andate in pace.

Cosa fate ancora seduti? Dai dai movimento, movimento!”

Cominciamo a corricchiare un po’. Mi avvicino a Lorenzo.

Oh ma, tu che eri in panchina, che ha detto prima?”

Prima quando?”

Nel primo tempo”

Niente di che”

Ma come niente di che? L’ho visto parecchio..agitato, diciamo”

Ma va, si stava pure divertendo”

Sicuro?”

Si si, vai tranquillo. Dai che rientrano”

Il Verona sta tornando in campo. Sembrano belli convinti come all’inizio. Ha ragione il mister, i primi 10 minuti sono fondamentali: chi segna taglia le gambe all’avversario, chi tiene in difesa vince la partita. Partono loro, il pallone scende in mano ad Andrea. Calcione lungo, ma che resta in campo. Chiamo io la linea e saliamo. Il loro estremo tenta la finta e la controfinta, ma ciccio mio non sei di certo Israel Folau. Bam, lo prendo e a terra. E perde il pallone indietro. Calcione, dove va va. L’ovale resta basso, rimbalza ed esce all’altezza della linea dei 10 metri avversari. Bel lavoro. Applaudono fuori dalla rete, ci sono anche fischi, ma vi ho già detto come la penso. Acqua fresca.

Touche per loro, vanno in fondo. Palla al mediano e subito fuori per l’australiano che serve all’interno. È una questione di decimi di secondo, ci bucano con l’ala. Provo ad appendermi, niente da fare, è andato. Corrono come razzi, sono in tre contro due, ma l’ala di cui sopra decide di non sfruttare il vantaggio numerico e prova da sola. Placcata all’ultimo. Recuperiamo in due o tre, siamo comunque pochi per una trincea. Il loro mediano prova ad estrarre la palla dal raggruppamento, uno dei nostri gli schiaffeggia le mani, l’arbitro tira fuori il braccio. Vantaggio. La giocano comunque, ma siamo rientrati in tanti e in qualche modo li arginiamo. L’arbitro fischia e torna sul vantaggio. Chiama Ivan e gli dice di che il prossimo fallo del genere sarà un giallo. Nel pieno dei 22 loro scelgono di calciare in touche. Antonio, seconda linea fa un cenno:

Raga, saltiamo”

Sei fuori? Siamo a 5 metri dalla nostra linea!”

Non abbiamo niente da perdere”

Tu sei matto da legare”

Primo blocco, venitemi dietro, o la va o la spacca”

Loro lanciano, Antonio salta e sporca il pallone. Il volo ubriaco ci favorisce, è nostra. Prendiamo tempo, un paio di fasi, guadagniamo 4 metri, restiamo nei 22. Ci contestano, ma l’arbitro vede un fallo loro e fischia. Ci è andata bene.

È vero comunque, Antonio è un pazzo. Ma in fondo, chi non lo è qua tra di noi? Ivan che chiama una difesa quasi masochistica dopo neanche 20 minuti? Amets, che si è scucito la testa in un placcaggio e gira con un turbante da 10 minuti nonostante sia a centinaia di chilometri da casa solo per studiare, ubriacarsi e scopare tutto lo scopabile? Il sottoscritto, che decide di andare per i pali da quasi 60 metri? Lo siamo tutti. Lo è anche il mister, che in panca dà spettacolo tra bestemmie mute e gesti inconsulti e ci lascia fare quel che abbiamo deciso tra una botta e l’altra. Nessuno escluso. Ma forse è questo che spaventa le altre squadre, è questo che comincia a spaventare anche i veronesi: non siamo veloci, non abbiamo una gran mischia e tatticamente lasciamo alquanto a desiderare. Potrai esserci superiore, crederti superiore, ma non saprai mai quello che faremo, né come lo faremo. Siamo matti da legare, siamo ordigni pronti ad esplodere, siamo gatti attaccati ai maroni. Sta a te starci lontano nel punteggio, altrimenti sono cazzi tuoi. E tre punticini forse era il caso di portarli a casa, se proprio volevi vincere la partita.

Touche, palla nostra. Antonio chiama lo schema “27 negroni, con ghiaccio”

Vogliamo approfondire dove sono stati studiati questi schemi? Meglio di no, va’.

Qualcuno dice che una mischia con la M maiuscola deve avere almeno 4 figli di buona donna su 8. Ecco, noi ne abbiamo 7. Antonio è l’ottavo, buono come il pane, solo che è il più grosso di tutti. Nel dubbio gli avversari non vanno da lui a discutere, sbagliando clamorosamente e venendo respinti il più delle volte con perdite. Palla in mezzo, secondo blocco. Saltano anche loro, ma Antonio allunga le manone e agguanta la palla. Fuori Ivan, poi Andrea che cerca il buco e lo trova. L’australiano non è tutta sta cosa in difesa. Seguo il mio 10. Fissa il secondo centro, io mi presento lì. Passala cazzo, dai che vado in mezzo ai pali. Tira dritto lui invece.

E ha ragione, meta. Contro i suoi ex compagni di squadra.

E con un gran numero, tra l’altro.

Con la trasformazione c’è anche il sorpasso, se non ho sbagliato i conti. Mi prendo il mio tempo, quei 50 metri a rotta di collo mi ha tagliato fiato e gambe. Questa partita mi sta lasciando il segno, e vedo che purtroppo sono in buona compagnia. Due sono per terra coi crampi, non conto nemmeno chi ha le mani ai fianchi. Amets sta perdendo lucidità, la botta in testa purtroppo lo tiene a bagnomaria. Lo stesso Andrea si è preso le “spese di viaggio” quando ha schiacciato a terra. La difesa Sagra sta facendo effetto. Su di noi, purtroppo. Ivan chiede all’arbitro quanto manca, non meno di trenta minuti dico io. Trenta dice l’arbitro. Mezz’ora a questo livello di pressione è un suicidio di massa, più che uno sforzo. Ma qual è l’alternativa?

Prendo tempo, è necessario per me e per gli altri. Non mi muovo. Sono davanti ai pali, una decina di metri, forse quindici, mai stato bravo a occhio, ma guai a partire, perché appena partirà la mia rincorsa loro partiranno e ne avrebbero di più, ne sono sicuro. È quasi un surplace ciclistico, una volata a due col gruppo lontano. Partono loro, l’arbitro li redarguisce e tornano. È il momento, vado io mentre indietreggiano. E centro i pali. Sorpasso, siamo sopra di uno. Ripartono loro, calciano corto. Vogliono recuperare la palla. Ci prendono alla sprovvista e con una sventagliata dei trequarti si aprono il campo. Arrivano nei nostri 22, ma siamo ancora abbastanza coperti. Il loro 9 si guarda intorno e fa partire più volte gli uomini di mischia, ma ho come l’impressione che anche loro siano stanchi, non guadagnano terreno. Mi arriva addosso il loro tallonatore come una furia, non so come ma lo prendo alto e lo ricaccio indietro. Poi è Andrea ad essere puntato da una loro terza linea, ma lo placca alle gambe e non lo fa avanzare. Non è più un gioco di squadra, o almeno non è più solo così. È una guerra di trincea mica da ridere, nella quale ognuno deve immolarsi. Persino Ivan, uno che i placcaggi li ha quasi sempre fatti per finta, sta picchiando come un metalmeccanico incattivito dalle bizze della suocera. Loro non avanzano, ma noi non riusciamo a rubar palla. Sudore, fiatoni che si ammazzano l’un l’altro, bestemmie e rantoli appena il placcaggio trancia qualche sogno di gloria. Finché il Fede, il mio secondo centro, ha una visione. “Droooooop” urla. Cazzo, il loro 10 è dietro, pronto a ricevere la palla. Ce l’hanno nascosto finora, ma dalla posizione del corpo mi sa che un paio di fasi ancora voleva farsele prima di colpire. Il loro 9 apre, il passaggio non è teso ma arriva a destinazione. Patrick, la loro apertura, lascia rimbalzare la palla. La gamba è inarcata, il gesto, dopo un’ora, non può più essere armonico, ma credo gli bastino i tre punti, a nessuno ora serve un trattato di neoclassicismo. Spara.

No.

Non spara, cade a terra fulminato.

Amets ha colpito e nessuno se ne era accorto.

In avanti, mischia per noi. Quel delinquente di un basco l’ha preso in pieno mentre rilasciava la palla, facendolo volare. Un tempismo e una forza nel gesto inaudite, a questi livelli e a questo punto del match. Soprattutto perché da almeno 5 minuti il nostro stava girando come un fantasma su e giù per il campo.

Bravo Amess”

Bravo bocia”

Passa al bar dopo a partia”

Si sono svegliati anche i suoi nuovi amici del bar.

Fallo, dategli il rosso diretto” grida uno dei tifosi ospiti.

El rosso ghe o demo a fine partia”. Gioco, set, incontro, a mio avviso.

Lui invece crolla a terra, distrutto. È stato enorme, ma ha finito le batterie.

Chiamiamo il cambio al mister, lui aveva già capito al volo, Ludo ha già finito il riscaldamento. Prendiamo un po’ di tempo. Amets è cosciente, respira, ma è sfinito. Non è che noi siamo messi meglio, eh, ma all’avversario non puoi far vedere di essere distrutto. Poi uno di loro prende e tira un calcione al nostro giocatore. Così, dal nulla. Questo non è più rugby, è violenza gratuita. E sfiniti o no decidiamo di reagire. Decidiamo, non è che prendi una decisione. Parti e basta. Non è una cosa giusta, né degna di onore, ma essere una squadra significa anche reagire quando uno dei tuoi è vittima di un sopruso. E questo, per me, vale nel rugby e nella vita, allo stesso livello. Ne prende tante, il loro 6. Si scatena un rissone da far West, e hai voglia a fischiare, mio caro arbitro. Il loro capitano prova a dissuaderci a parole, altri provano con le maniere forti.

Lui li calma.

Ragazzi, chiedo scusa io a nome di tutti. Ma continuiamo a giocare”

Sta bene, faccio lo stesso anch’io”, dice Ivan. Si torna tranquilli

L’arbitro fischia, chiama lì i capitani. Poi il loro 6 e Amets.

Signori spero che tutto questo non accada più, né interventi del genere a gioco fermo né le risse da quartiere. Stiamo giocando a rugby. Era mischia rossa per in avanti nero, diventa punizione rossa. 6 nero, non ho scelta”. E sventola il cartellino rosso. Se ne va sconsolato, ha capito di aver fatto una cazzata. Esce dal campo e si dirige verso la nostra panchina. Poi tende la mano ad Amets, che nel frattempo era stato portato fuori. Lui replica. Il mister, silente, approva. Pace fatta, e forse è questo il bello del nostro sport. Si riprende a giocare, sempre sopra di uno. Calcio in touche, andiamo nella loro metà campo.

Mojito Nardini alto 2 mezzo”. Palla sul primo blocco, per gli astemi. Giusto, nascondiamo la palla. Antonio prende palla, via con la maul.

Raggruppamento in piedi, possibilmente avanzante. E avanziamo.

L’arbitro tira fuori il braccio, vantaggio nostro. Ivan tira fuori la palla e si prende il calcio, poi la da a me. “Pali”. Sono distrutto, quasi ci vedo doppio, ma non posso sottrarmi. Rincorsa, calcio, palo, poi dentro. Bruttissimo, ma vale lo stesso tre punti. Siamo a più 4. Non è finita, ma ho come la sensazione che la salita dura sia terminata. Gli avversari sono in 14 ora, guai a sottovalutarli, ma sono stanchi. E nervosi, tanto nervosi. La loro apertura dispensa “fuck” a destra e a manca ad ogni errore manuale o al piede. Sbagliano cose elementari, hanno reazioni oltre misura. Ogni volta che provano ad attaccarci si infrangono sulla nostra difesa. Poi si guardano, non sanno più cosa fare. Eppure anche noi siamo sfiniti. Vuoi vedere che quella tattica suicida ha fatto veramente effetto? Il mister fa due o tre cambi, anche gli ospiti fanno le loro sostituzioni, ma gli equilibri in campo non cambiano. Anzi, in mischia li buttiamo ancora più indietro, e dire che i loro neoentrati nel ruolo sarebbero i titolari designati. La verità, cosa che non ci aspettavamo, è che pensavano di averla già vinta e hanno sottovalutato il nostro ritorno, i nostri calci, i miei calci, la pressione. Quando si sono accorti che non riuscivano più a far nulla si sono innervositi, hanno perso smalto, che non è propriamente merce che recuperi subito. Avanti nostro, intanto, visto che nemmeno noi siamo più delle rose, mischia per loro. Mancano 10 minuti. Tirano fuori a stento la palla, il loro 9 ha già due dei nostri alle calcagna ma riesce lo stesso a servire l’australiano, che calcia via. Alla disperata. La palla la prende il Fede, che riparte e va a sbattere. Se non trovate più il martello e dovete fissare dei chiodi vi presto il Fede e la sua fronte, effetto assicurato. Raggruppamento, Ivan tira fuori la palla all’altezza, Andrea risponde e va addosso, io in sostegno. Restiamo in piedi e li mandiamo indietro, poi a terra. Poi due terze linee, poi il tallonatore, usiamo i chili e nascondiamo la palla. Loro provano a giocare con le mani a terra, l’arbitro vede, vantaggio. Giochiamola ,dai. Ivan fa un calcetto per se stesso e la prende, altro raggruppamento, siamo nei 22. Andrea prende palla e serve il sottoscritto all’apertura, un suonatore di grancassa che dirige l’orchestra. Tiro dritto, nessuna finta, nessun fronzolo, non sono capace, guadagno due metri. Loro non contestano. Ivan prova ancora da solo, viene fermato e portato in questura da due avanti. E proviamo ancora con gli uomini di mischia. Non cedono. Guardo Ivan, Ivan guarda me. Ha capito. Retrocedo di due-tre passi, il passaggio è teso. La prendo.

Chi non gioca a calcio non ha palle!”

Lascio ricadere.

Cosa te ne vai di casa a fare? Non stai bene qua con i tuoi genitori?”

Colpisco.

Cancari, i me cancari!”

Dentro. 28 a 21, sbatto il pugno in aria, è finita. Mancano 5 minuti, ma sento che è finita.

Lo sa anche il mister che continua a urlare “Cancari, cancari!” a tutti.

Lo sanno anche gli avversari, che al momento sembrano tanti pugili suonati.

Lo sanno anche fuori. Uno ha recuperato addirittura una sirena a manovella, di quelle che lanciavano l’allarme durante la guerra, e la sta facendo andare a tutto spiano.

Non accade più nulla, siamo tutti distrutti. Quando l’arbitro fischia non sono in tanti dei nostri ad esultare. Non è che non vogliamo, non ci riusciamo proprio. Giusto i panchinari. E il mister. Sembra un ragazzino, non pare nemmeno più lui. O forse si, ma il lui di 20 anni fa, quello che quando si metteva in moto faceva venire gli incubi a chi si metteva sulla sua strada. Mi abbraccia e mi sembra che quasi quasi sia commosso. Ma forse è solo una perdita. Di sicuro non gli chiederò mai lumi su questo.

Bocia, quante mete hanno fatto loro?”

Tre, mi sembra”

E quattro all’andata fa sette, giusto?”

Si Mister”

Te voio ben bocia!”

La stagione è finita, andate in pace.

 

Numero 12”, lavata e stirata. E rammendata, che il numero si era un po’ rovinato. Capirai, dopo una stagione del genere. Maglia da ridare al mister. Le tiene tutte lui, è un simbolo. E bisogna andare a casa sua a riportargliele, che lui vuole parlarci singolarmente. Parcheggio vicino alla sua Punto, dall’altra parte del pino che delimita i posti macchina. Busso, è lui ad aprirmi. Torvo, ma vabbè, c’ho fatto il callo.

Cosa bevi? Vino, birra o grappa?” Analcolici credo non sia il caso di chiederli.

Birra, ma poca che devo guidare”

Sta ben. Bravo toso”

Ciao amore!” Una voce arriva dalle scale.

Ebbene si, è Martina.

La mia Martina. Ci frequentiamo. Da poco, ma ci vogliamo bene. È vero: è decisa, silenziosa e testarda, ma con un cuore che ha solo bisogno di essere scoperto. E anche stavolta sono stato fortunato”

Come amore?” Ahia. Doveva dirlo lei al padre, mi sa che non l’ha fatto.

Eh si papà, usciamo insieme, non te l’avevo detto. Sei pronto?”

Lui si gira verso di me.

Adesso mi placca e mi mette nel baule della macchina.

Niente birra per te, devi guidare” Sta bene. Benissimo. Non bevo più. Poi mi prende da parte, approfittando dell’ultimo passaggio della bimba davanti allo specchio. “Ma spiegami una roba”. Ahia. Anche i baffi sembrano in grado di schiaffeggiarmi, in qualsiasi momento.

Spiegami. Come hai fatto? Non ti ho mai visto insieme a lei. E io la controllo spesso. Pensavo fossi anche un poco recion, a dirla tutta”.

Non so perché, ma mi gioco la carta-ignoranza. Non chiedetemi perché, questo tipo di cose non si spiegano.

Eh mister, che le devo dire.. ecco, è come nel rugby. Tre punti alla volta, pressione, pazienza.”

Mi guarda male. Tanto male.

Cazzo, mi sa che non dovevo.

Poi esplode a ridere.

Mi arriva una manata sulla schiena.

Sei forte. Com’è che ti chiami?”

Edoardo, mister”

Edoardo, te si proprio un càncaro. Portala a casa sana e salva, sennò ghe penso mi.”

Ah, e dammi il numero di Incubo, che mi ha detto che da lui ghe xe bone ombre e una volta ndemo trovarlo”

Mi sa che è la sua benedizione.

Un’ultima stagione da càncari

The Daniel Carter Show

Il rugby è uno sport di squadra, e credo che fino a qui ci siamo. Si vince tutti assieme, si perde tutti assieme. È vero, è così. Però ci sono momenti, ci sono serate in cui tutto questo viene messo seriamente in discussione. Di solito perché arriva una entità superiore a decidere, di punto in bianco, che per 80 minuti non ci sarà storia, lui andrà al comando, come un Pantani che scatta sul Galibier e che puoi rivedere solamente sul podio a Les Deux Alpes. Succede anche in altri sport, è normale. Pensate a quel ragazzino che insegnava calcio sul campo delle Cebollitas, la squadra giovanile dell’Argentinos Juniors, che di nome fa Diego Armando Maradona e che nel 1986 vincerà il Mondiale messicano quasi da solo. Oppure pensate al figlio di Jelly Bean Bryant, americano giramondo del basket, che a Reggio Emilia e dintorni ha vissuto e fatto l’amore con la palla a spicchi in ogni campo da basket cotto dal sole della zona. Si chiama Kobe e fino a maggio si è divertito a dare lectio magistralis di pallacanestro in giro per il mondo. Forse ne avete sentito parlare.

È successo anche nel rugby, dicevamo. E gli 80 minuti che distingueranno un campione da uno che cammina sulle acque hanno le loro origini a Southbridge, paesello a meno di un’ora da Christchurch, Nuova Zelanda. Il signor Neville, ex giocatore e piazzatore della squadra locale, ha trasmesso la sua passione al figlio. Anche lui mancino. Ha otto anni il ragazzino e non c’è modo di tenerlo fermo. Lui vuole giocare. Meglio ancora, lui vuole calciare quel pallone ovale, come il papà.

Ora capirete che c’è un problema logistico di fondo: se avete un figlio appassionato di calcio il tutto si può risolvere con un pallone e due alberi. Se vostro figlio ha il poster di Lebron James o Michael Jordan in camera bastano un canestro, due viti e passa la paura. Ma come fate se vostro figlio ama piazzare a terra un pallone da rugby e centrare due ipotetici pali? Il piccoletto la risolve a modo suo: cerca di calciare il pallone dall’altra parte della casa. Risultato: suppellettili rotte in abbondanza e genitori disperati.

Finché a Neville viene un’idea: qua servono un campo e dei pali. Il campo non è un problema, in Nuova Zelanda c’è sempre una discreta dose di verde nei dintorni, e Neville ne ha un bel po’ dietro casa. Per i pali convoca l’ingegnere del paese e se ne fa costruire due regolamentari. Bianchi e blu, come i colori del Southbridge. Se passate da quelle parti sono ancora lì. La moglie ringrazia, visto che non si vede più degli ovali impazziti sopra la testa per tutto il giorno. Ma a ringraziare ancora di più è un intero Paese, visto che il figlio del signor Neville lascerà una discreta storia nel rugby neozelandese.

Serviranno due o tre parole di Graham Henry, uno di quegli uomini a cui il rugby deve più di qualche birra, per consacrarlo al mondo: “Quel ragazzino dei Crusaders, quello che fa il centro. Ecco, fatemelo giocare apertura, che un posto in Nazionale glielo trovo io”.

Il ragazzino si chiama Daniel Carter, e forse anche di lui avete sentito parlare.

In verità però Dan ha già debuttato in Nazionale e si è già fatto un Mondiale, quello del 2003. Ma John Mitchell, ct neozelandese, aveva già optato per una regia e una linea di trequarti di marca Blues. È un bel giocare, è un bel divertirsi, c’è gente come Howlett, Muliaina, Rokocoko. C’è pure King Carlos in regia. Mitchell però sa benissimo che il buon Spencer non è irreprensibile dalla piazzola e che qualche volta servirà essere un po’ più razionali in campo, e allora ci pensa un attimo. Non c’è Andy Mehrtens, reduce da una stagione stregata, e allora si porta il suo vice, che ha 21 anni e gioca primo centro. Carter, appunto. La strada per la Coppa, però, si interrompe sul più bello, sul passaggio scriteriato di Carlos e sull’intercetto di Mortlock. Mitchell al termine del Mondiale se ne va, in panca si siede Graham Henry, reduce dall’avventura gallese. Per il Tri Nations 2004 non cambia troppe carte in tavola, sfrutta ancora Spencer e Mehrtens, poi in autunno gioca il carico da undici: Carter apertura. Lo aveva già fatto capire ai piani alti di Christchurch, quartier generale dei Crusaders: “Mettetemelo all’apertura che poi ci penso io”. Non se lo fanno ripetere due volte.

Gli All Blacks arrivano in Europa e fanno tre su tre: a Roma ci danno 59 punti, buona parte in un primo tempo in cui non capiamo nulla, a Cardiff faticano tantissimo contro il Galles, si, ma quello è il Galles che vincerà lo Slam di lì a qualche mese. Poi a Parigi rifilano un 45 a 6 ai francesi che fa parecchio rumore. Carter fa vedere i primi segni di quel che sarà: dalla piazzola è praticamente infallibile, in campo aperto distribuisce endecasillabi, alla mano e al piede. Ma non è tutto qui. Il ragazzo ha giocato parecchio come primo centro dietro a Mehrtens, quindi qualche placcaggio serio lo ha tirato, nel suo apprendistato. Ha una coordinazione motoria invidiabile, potrebbe essere un crack in qualsiasi sport decidesse di praticare, anche perché ha appoggi morbidi, naturali, sembra stia facendo jogging tra gli avversari e invece non lo prendi mai. E tutto questo lo fa vedere solo a sprazzi, solo quando serve. È essenziale, che è un complimento sempre troppo sottovalutato a queste latitudini.

Anche perché quando decide di esagerare e di mostrare i muscoli e l’ordito gli avversari se ne accorgono. Ed è consacrazione quasi al primo colpo.

Succede tutto in un sabato di luglio al Westpac Stadium di Wellington, di fronte ci sono i British and Irish Lions. Ecco, loro hanno i loro bei problemi: sir Clive Woodward, il selezionatore si porta in Nuov Zelanda molti gallesi vincitori del Grande Slam, ma ancora più inglesi reduci dalla vittoria in Coppa del Mondo due anni prima. E se pensate che quella era chiamata l’Armata dei Padri per l’età avanzata, figurateveli con due anni in più sul groppone. Il primo Test a Christchurch finisce 21 a 3 per i tuttineri, ma se i punti di scarto fossero stati 40 non ci sarebbe stato nulla da dire, un disastro su tutti i fronti. Anche perché si fa male Brian O’Driscoll. E a questo proposito Sir Woodward commette un altro errore: affida la campagna mediatica all’ex spin doctor di Tony Blair, Alastair Campbell, giornalista e uomo politico di intelligenza superiore, ma forse un po’ troppo tendente alla polemica. Campbell alimenta una campagna secondo cui O’Driscoll è stato deliberatamente “fatto fuori” dal placcaggio di Umaga e Mealamu. L’effetto è controproducente, visto che i Lions non si riconoscono in quelle parole e in altri atteggiamenti. Solo che il dado è già tratto, e il secondo match contro gli All Blacks è alle porte.

Woodward questa volta dà fiducia a molti gallesi, mette Jonny Wilkinson finalmente in mediana, Gavin Henson e Gareth Thomas ai centri, Paul O’Connell in seconda linea. E i risultati si vedono, i Lions sembrano un’altra squadra e Thomas segna la prima meta dell’incontro. Gli All Blacks si guardano un attimo, ma la sensazione è quella di rivedere il Brasile dei 5 numeri 10 dei Mondiali di calcio 1970: bene, bravi, palla al centro e ripartiamo. E va così: Carter butta dentro due piazzati, poi mette sul campo la prima gemma: Umaga ruba palla davanti ai suoi 22 e serve Carter. Il numero 10 corre, ha tre Lions addosso, ma non lo prendono mai. E stiamo parlando di Jonny Wilkinson, uno che placcava qualsiasi cosa, Gavin Henson, e non credo ci sia bisogno di aggiungere altro, e Josh Lewsey, idem come sopra. Dan si fa 50 metri palla in mano, poi serve Umaga che corre indisturbato. Sorpasso. I Lions rimangono attaccati al match con due calci di Wilkinson, ma ad inizio ripresa Carter chiude il match: prima un piazzato, per la verità neanche troppo difficile. Poi la seconda perla: So’oialo lo serve a pochi passi dalla rimessa laterale, lui cambia passo e semina Shane Williams (Shane Williams!). Quando si trova davanti Lewsey calcia a seguire, sorpassa, e in caduta smanaccia la palla. Meta clamorosa, seguita da altrettanto clamorosa trasformazione dalla rimessa. Viene giù tutto.

Il match potrebbe finire qui, i Lions scompaiono praticamente dal campo, ma Carter, come recita una ineccepibile e intraducibile espressione inglese, is on fire. Segna un’altra meta con una finta che Lewsey sta ancora bevendo al bar, ne manca una solo perché Shane Williams si immola a un niente dalla linea di meta. In tutto questo trova il tempo di rompere placcaggi, di trovare i 22 avversari dai suoi 22 a suon di cannonate. Finisce 48 a 18, Carter segna 33 punti equamente suddivisi in 2 mete, 4 trasformazioni e 5 calci di punizione. E si toglie la soddisfazione di fare tutto questo giocando contro Jonny Wilkinson, che in quel ruolo ha vinto un Mondiale e seminato il panico ovunque le sue tomaie abbiano cantato, e contro una squadra magari non messa benissimo in campo, ma che per nomi e curricula era tantissima roba. Praticamente è andato in piscina e, invece di nuotare, si è fatto una passeggiatina sulle acque. Sarà giocatore dell’anno, si ripeterà nel 2012.

La strada è aperta. Durerà, con la maglia nera, altri 10 anni. Dà l’addio agli All Blacks col Mondiale 2015, e lo chiude a modo suo. Vuole chiuderlo a modo suo. Perché è vero che ha già vinto un Mondiale, ma nel 2011 non era in campo in finale, vinto da un inguine capriccioso. E sappiamo tutti quale differenza ci sia tra vincere in campo, mettendoci mani, piedi e cervello, e vincere in tribuna. E allora prende per mano i suoi in una partita messasi all’improvviso in salita: i Wallabies approfittano di un giallo comminato a Ben Smith e dal 21 a 3 arrivano al 21 a 17 con 15 minuti da giocare.

Non è facile.

Non per dei giocatori “normali”.

I Wallabies ci credono, ma quella palla di Aaron Smith a Carter, sotto sotto, sanno già che fine farà.

Carter se la sistema sul sinistro e spara da 40 metri, pali centrati.

Poi si ripete con un calcio da metà campo. Wallabies ricacciati indietro, saluti e baci.

È campione del Mondo ancora, è giocatore dell’anno ancora.

Non sarà più un All Black. Torna in Francia, dove era già passato nel 2008, firma per il Racing Metro, magliette bianche e azzurre.

Quasi come quelle del Southbridge, dove papà Neville qualche birra pagata ce l’ha ancora.

Quasi come i pali di casa sua, quelli da cui tutto è iniziato.

Quasi come un up and under che ricade perfetto nelle mani, dopo lunghi secondi di pellegrinaggio nell’aria.

Tutto torna. O quasi.

Perché uno come Dan Carter, da queste parti, ha messo in discussione il concetto di “gioco di squadra”.

Perché uno come Dan Carter, da queste parti, non tornerà per un po’.

The Daniel Carter Show

I placcaggi di Gulliver

Sono forti, cazzo se sono forti. Più che forti, i migliori. Tutti vestiti di nero, tutti intinti di nero. Come Achille nello Stige, immortali. Solo il cuore porta una felce argentata, forse per far capire che sotto sotto pure loro sono umani. Anche se proprio non sembra. Il Piccolo Padre è lì in panchina. Ha giocato 48 minuti dei suoi, tre quarti d’ora abbondanti di placcaggi, avanzate palla in mano, placcaggi, pacche sulle spalle dei suoi compagni e ancora placcaggi. È uscito sul 22 a 10, quelli neri non segnavano un punto dalla metà del primo tempo. Poi oh, quelli sono di un’altra cilindrata, arrivano altre tre mete nonostante siano quasi in folle. L’unica cosa da aspettare, ma giusto per le statistiche, è la voce metallica delle casse che annuncia il Man of The Match. C’è l’imbarazzo della scelta: ci sarebbe Julian Savea, che ha segnato tre mete. C’è Naholo, che si è rotto una tibia due mesi fa e corre come un levriero. Ci sarebbe Dan Carter, che se non sai chi scegliere con lui non sbagli. La lista potrebbe anche continuare.

No, nessuno di loro. L’altoparlante annuncia Mamuka Gorgodze, 31 anni, professione terza linea. Chiamato Gorgodzilla in Francia, terra di lavoro, perché uno così fa veramente paura. Chiamato Gulliver a casa sua, in Georgia, nonostante lì non girino proprio dei lillipuziani. Piccolo Padre, come lo chiamarono i genitori, ossia Mamuka, che per i genitori si è bambini anche se si pesa 120 chili e si è alti 196 cm. È lui il migliore in campo, nonostante soli 48 minuti giocati, nonostante 43 punti presi e nonostante gli All Blacks davanti. Lui non ci crede, agita le mani come per dire “Ma che cazzo state dicendo?”, i compagni gli tirano delle amorevoli pacche che sfonderebbero la carena di un cinquantino e sembrano i vostri compagni di avventura che hanno assistito al vostro primo bacio con la bella della classe. Tutti dalla vostra, anche contro i tuttineri.

Man of the Match contro quelli. Non male per uno che fino ai 17 anni giocava a basket a discreti livelli. Non è nemmeno difficile crederci, perché la generazione nata negli anni ’80 in Georgia con la palla a spicchi non è per nulla male: ci sono Pachulia, Sanikidze, Markoishvili, Shermadini, tutti passati per l’Europa che conta, qualcuno anche in Italia. Uno con la fisicità di Gorgodze ci potrebbe stare anche bene, arriva anche a guadagnare qualche soldo, solo che ad inizio secolo si fa da parte: “Si, bello il basket, bello far canestro..ma vorrei qualcosa di più fisico”.

Grazie, per uno cresciuto con il Lelo burti, sport in cui bisogna portare una palla di 18 chili dall’altra parte del villaggio nonostante tutti gli abitanti di quel villaggio lo vogliano fermare con le brutte il basket è quasi uno stare sulle punte. E allora pensa al rugby, che del lelo burti, in fondo, è il fratello che ha studiato. Ricambiato. Strappa un contratto coi Lelos, formazione del massimo campionato georgiano, seconda linea. Nel 2003, a soli due anni dal passaggio alla palla ovale, debutta in Nazionale e rischia di partecipare alla Coppa del Mondo australiana, la prima per i caucasici, ma non è ancora il momento.

Dal 2004 diventa titolare quasi inamovibile in seconda linea, se per voi due partenze dalla panchina su 64 partite sono un dettaglio togliete pure il “quasi”. La vita sul parquet gli ha lasciato in eredità una mobilità e una velocità sui primi passi che raramente si vedono in bestioni del genere. E le mani sono calde, delicate, non maltrattano mai l’ovale sebbene abbiano le dimensioni di due pale. È un ragazzo calmo, misurato, con dei valori intoccabili (la nascita dei figli vale più di essere migliore in campo contro gli All Blacks), ma in campo, quando entra in trance agonistica, diventa una furia. Anche troppo, visti i 16 cartellini gialli che si è visto sventolare davanti dal 2007 in poi. Viene cacciato due volte per provocata rissa, ma personaggioni come Nallet, Maestri e altri orchi della mischia di pari stazza imparano che con Gulliver non si scherza. Placca qualsiasi cosa gli passi davanti, e sempre in avanzamento. Quando ha la palla una mano è sempre impegnata a sfrontinare l’avversario. E se non basta la mano arriva tutto il resto del corpo a traino. Più che di placcare un animale del genere qui si parla di immolarsi. In un campionato come quello georgiano uno così è veramente Gulliver, il protagonista del romanzo di Daniel Defoe, che deve essere schienato e legato dai lillipuziani perché ci possa essere un confronto. Ma siccome nessuno lo riesce a legare, né in partita né per le strade di Tbilisi, nel 2005 firma per Montpellier e approda nel Top 14.

In Francia l’asticella si alza, sia perché qui c’è il meglio del rugby europeo (e non solo), sia perché un po’ di puzzetta sotto il naso verso stranieri “non eletti” (e ci buttiamo dentro anche noi) i cuginetti transalpini l’hanno sempre avuta. La perderanno, e anche molto, ma all’epoca un Gorgodze non ancora del tutto sgrezzato si accomoda in panchina. Nel 2007 alla Coppa del Mondo la Georgia fa una signora apparizione: mette in crisi per un tempo i Pumas, rischia di fare il colpo del secolo contro l’Irlanda e batte nettamente la Namibia. La Georgia comincia ad esportare piloni e tallonatori, ha una mischia impressionante per ruvidezza e compattezza, Gorgodze firma per Brive, ma poi cambia idea e torna a Montpellier, dove trova sempre più spazio. Nel 2009 Tim Lane, ct australiano dei Lelos, lo prova in terza linea e a numero 8, alternandolo in quest’ultimo ruolo con Basilaia, altro discreto toro cresciuto a pane e lelo. Dalla terza linea non lo sposta più nessuno.

Anche perché lì dietro a spingere, a placcare e nel caso ad avanzare con la palla in mano c’è più spazio. Ed anche più gusto. Nel 2010 sulla panchina di Montpellier arriva Fabien Galthié, uno degli eroi di Twickenham nel 1999 contro gli All Blacks. Se lo studia bene, poi lo sposta in terza linea. Ecco, allacciatevi le cinture, perché la stagione 2010/2011 è spettacolare: il Montpellier ha una ossatura francese, ci sono tre giovanissime colonne come Ouedraogo, Trinh-Duc e Tomas, un estremo come Thiery e un cecchino come l’argentino Bustos Moyano. Ma il meglio è nella mischia: due georgiani come Gorgodze e Jgenti, pilone, i due francesi Fakate e Rofes (che sarà internazionale per la Spagna), il figiano Matadigo e il Puma Figallo. Una mostruosità di chili e muscoli. Gli uomini di Galthiè restano a lungo nelle prime posizioni, poi hanno un calo nel finale della stagione. Prima dell’ultima giornata sono settimi, fuori dai play off, ma battono col bonus il Tolone e salgono di una posizione. Al barrage battono Castres di un punto, in semifinale trovano il Racing Metro di Pierre Berbizier. È un match incredibile: vanno avanti 23 a 6 Gorgodze e compagni, i parigini sorpassano sul 25 a 23, poi Bustos Moyano indovina i pali da 40 metri. Wisnieski, top scorer del torneo, manca i pali col drop, è finale. Il Piccolo Padre è enorme per sacrificio in difesa nel finale, placca tutto quel che gli arriva a tiro, ma in finale contro il Tolosa la favola dura poco più di un’ora. Il Montpellier non si ripeterà più a questi livelli, Gorgodze si, ma con altri colori. Passerà a Tolone nel 2014, non proprio una squadretta di scappati di casa.

Ma prima c’è il Mondiale neozelandese.

Gorgodze viene nominato Man of the Match contro l’Inghilterra. Il risultato è bugiardo, 44 a 10, con gli inglesi che per un’ora non capiscono nulla in mischia e nei breakdown. Vengono graziati solo dalla tremenda giornata al piede di Kvirikashvili. Alla Scozia serve un grande Dan Parks per vincere, contro i Pumas, re indiscussi con i primi 8 uomini, non è cosa, ma si lotta più di altre volte. Si vince contro la Romania, meta neanche a farlo apposta di Mamuka, che passa attraverso due uomini, uno dei quali attaccato ai suoi piedi, e segna come se nulla fosse. Sarà ancora il migliore in campo.

Ad allenare i Lelos arriva un neozelandese, Milton Haig, ex assistant coach dei Chiefs. Ecco, altro salto di qualità. Moltissimi georgiani ormai giocano in Francia, Top 14 e affini, la svolta è vicina. Debuttano nel rugby che conta in amichevole contro l’Irlanda a novembre 2014, poi per il Mondiale 2015 mettono un cerchietto rosso sul nome “Tonga”: è la prima partita del girone, a Gloucester.

È quiche si fa la storia.

I tongani, se solo volessero, avrebbero potenzialità tecniche e fisiche per tener testa a chiunque, ma se hanno la giornata storta può succedere di tutto. Anche che i georgiani, che tecnicamente ne hanno molto meno, restino attaccati al match con una difesa impressionante per aggressività e avanzamento. E alla mischia, of course. Le Aquile di mare vanno in tilt, Gorgodze sfonda nel primo tempo trovando le guardie completamente distratte. Nella ripresa ricominciano le danze: ritmi bassi, breakdown infernali, e seconda meta georgiana con Tkhilaishvili. I tongani non ci capiscono praticamente nulla. Si svegliano solo nel finale, quando sono in superiorità numerica, riaprono il match. Ma dall’altra parte non ci stanno, e il risultato non cambia più. Spuntano bandiere georgiane ovunque, spunta anche qualche statistica: 201 placcaggi per i georgiani, 27 per Gulliver, che in campo è praticamente ovunque. Indovinate chi è il migliore in campo? Tocca poi ai Pumas, ed è sempre la stessa storia: si regge bene un tempo, poi loro hanno più gambe, finisce tanti a pochi.

Poi ci sono loro, gli All Blacks, che per l’occasione ne mettono tanti a riposo. Si, tutto quel che volete, ma in campo ci sono Dan Carter, Julian Savea, Richie McCaw..andiamo avanti?

Segna subito Naholo, la cui tibia è stata guarita da uno stregone due mesi prima dei Mondiali. Solo che nessuno sa quale sia quella fratturata, pare un Forrest Gump furente su e giù per il campo. Sembra la replica del match contro l’Argentina, quando però Tsiklauri, estremo che da questo momento in poi ha beveraggi pagati in ogni bar di Tbilisi, calcia a seguire e si riscopre da solo verso la meta. Saranno anche gli All Blacks, ma intanto è 7 pari, e questo non glielo toglie nessuno.

Solo che le cilindrate sono diverse, e si vede.

Segnano 4 mete in 22 minuti, vanno 22 a 10. Ma poi per mezz’ora effettiva questi non segnano più. In questi casi, di solito, è sempre una questione di piccole vittorie, di guerriglie che scompigliano i capelli ai giganti o poco più, ma fanno morale. Prendete il calcio del 12 a 10: Gorgodze affonda le mani nel raggruppamento, sembra un escavatore. Puoi essere anche un All Black in odore di titolo, ma quello è tenuto e lo devi lasciare. I tuoi compagni ti vedono e si rincuorano.

È il leading by example, bellezza, e quei 120 chili di uomo li seguiresti ovunque.

Sono piccoli eroismi di grandi cuori, ma alla lunga si pagano.

Sono forti, cazzo se sono forti. Più che forti, i migliori. Tutti vestiti di nero, tutti intinti di nero. Come Achille nello Stige, immortali. Solo il cuore porta una felce argentata, forse per far capire che sotto sotto pure loro sono umani.

Ma dov’è finito Gorgodze?

Il Piccolo Padre è lì in panchina. Ha giocato 48 minuti dei suoi, tre quarti d’ora abbondanti di placcaggi, avanzate palla in mano, placcaggi, pacche sulle spalle dei suoi compagni e ancora placcaggi. È uscito sul 22 a 10, quelli neri non segnavano un punto dalla metà del primo tempo. Poi oh, quelli sono di un’altra cilindrata, arrivano altre tre mete nonostante siano quasi in folle. Poi basta, che c’è sempre una Namibia da affrontare e, possibilmente, battere. L’unica cosa da aspettare, ma giusto per le statistiche, è la voce metallica delle casse che annuncia il Man of The Match. C’è l’imbarazzo della scelta, ma stavolta il migliore non veste di nero. L’altoparlante annuncia Mamuka Gorgodze, 31 anni, professione terza linea. Chiamato Gorgodzilla in Francia, terra di lavoro, perché uno così fa veramente paura. Chiamato Gulliver a casa sua, in Georgia, nonostante lì non girino proprio dei lillipuziani. Piccolo Padre, come lo chiamarono i genitori, ossia Mamuka, che per i genitori si è bambini anche se si pesa 120 chili e si è alti 196 cm. È lui il migliore in campo, nonostante soli 48 minuti giocati, nonostante 43 punti presi e nonostante gli All Blacks davanti.

Non se lo aspetta, ha lo sguardo del ragazzino che ha ricevuto il cinquantino in regalo dai suoi nonostante la pagella fosse più da taglio che da promozione. Emozionato, sorpreso e quasi commosso. I compagni gli tirano delle amorevoli pacche che sfonderebbero la carena del cinquantino qui sopra menzionato e sembrano i vostri compagni di avventura che hanno assistito al vostro primo bacio con la bella della classe. Tutti dalla vostra, anche contro i tuttineri.

Tutti con Mamuka, col quale ti puoi confrontare solo se lo prendi, lo fai cadere e lo leghi a terra, solo se fai il lillipuziano. Perché Gulliver lo puoi contenere solo così. Anche se hai una maglia nera addosso e alzerai la Coppa del Mondo.

I placcaggi di Gulliver

What a Shane!

Ma fai il bravo, Mark, metti via quei soldi e vai a scolarti un po’ di pinte, fai un piacere”

No, le 50 sterline le gioco come e quando voglio”

Ascolta: siamo famosi da queste parti per accettare ogni tipo di scommessa. Ma vuoi proprio che ti dica che la tua è un suicidio? Tuo figlio recordman di mete col Galles? Ma se l’hanno già cacciato una volta dalla squadretta perché troppo mingherlino! Tu sei pazzo!”

Tu prendi sti soldi e poi ne parliamo”. Tac, 500 a 1. Grazie e arrivederci.

Si, in Gran Bretagna ogni cosa può essere scommessa, dal nome del prossimo pargolo del principe alle volte in cui riuscirai a entrare in camera della signorina Smith, vostra compagna di classe al liceo e non propriamente conosciuta per il suo cammino di redenzione e purezza. Basta presentarsi in un apposito ufficio, spiegare su cosa e quanto scommettere, lasciare i soldi. E poi aspettare, al limite ritirare la vincita. Il buon Mark non fa niente di diverso, prende 50 sterline e scommette che il figlio, un giorno, batterà il record di mete segnate con la maglia del Galles. Dite la verità, un po’ state pensando a quei padri che inveiscono sulla loro prole durante le partite alle nostre latitudini, quelli che hanno figliato i prossimi Maradona, Van Basten o altro. Ecco, qua la cosa non è tanto diversa, solo che qualche soldino i papà, ogni tanto, riescono a farlo.

Come ha fatto Gerry McIlroy, padre di Rory.

Come ha fatto John Morrey, zio di Wayne Rooney.

Come ha fatto il nostro Mark, che di cognome fa Williams e una ventina d’anni prima ha messo al mondo un ragazzino con la faccia da simpatica canaglia e che a fatica arriva al metro e settanta. Uno che il rugby ha rischiato di salutarlo per sempre quando un allenatore gli disse “Sei troppo piccolo, vai a giocare a calcio”. Uno che il rugby ha rischiato di salutarlo ogni volta che ha messo i piedi in campo contro avversari grossi il doppio di lui, a volte anche di più. Uno che adesso il rugby saluta ogni giorno con più amarezza, perché uno come il figlio di Mark, forse, con questi chiari di luna, non passerà più.

Il figlio di Mark si chiama Shane, Shane Williams, e questa è una di quelle storie di cui si rischia sempre di innamorarsi. Perché quelli che nella loro carriera, e nella loro vita, hanno una seconda chance hanno sempre una discreta storia da raccontare. E perché quelli che riescono ad entrare nella storia di uno sport ruvido e senza tregua come il rugby senza però essere apparentemente Superman meritano sempre una birra pagata nel nostro personalissimo bar.

Sei bravo, perché sei bravo..ma uno come te con noi si fa male. Vai a giocare a calcio!” E se ricevi una botta del genere quando sei un imberbe liceale rischi di rimanerci. Shane no, prende e va a giocare a calcio. Portiere. Perché neanche dalle parti di Swansea non si salta di gioia all’idea di voler giocare in porta. Non si è mai visto ai nostri tempi un portiere alto 170 centimetri compresi i tacchetti. Lui però lo fa, e neanche tanto male, visto che porta la squadra in finale.

Lo vengono a vedere dei suoi amici, poi spunta una palla ovale. Spunta sempre una palla ovale tra amici, a Swansea e dintorni. E qualcuno gli dice: “Oh ma vieni anche tu a Neath”

Ma non ci sono grandi squadre di calcio a Neath”

E chi ha parlato di calcio? Te sembri nato con la palla ovale in mano”

Non è che se lo faccia ripetere ancora tante volte.

Boh, forse ancora si chiedono che fine abbia fatto quel portierino.

Ma forse è giusto così. Anche perché alla prima partita importante questo segna 5 mete e comanda la mischia come pochi avevano fatto finora. Come la mischia?

Già, perché viste le minute proporzioni gli mettono la maglia numero 9, a Neath sarà la riserva finché coach Lyn Jones si fa due domande e dice: “Ma uno così come faccio a tenerlo fuori?” E lo mette all’ala. Chiudete pure tutto.

Shane sarà pure piccolo e neanche tanto muscoloso, ma lavora benissimo su quelli che possono essere i suoi punti deboli. E sfrutta alla grandissima quel che Madre Natura ha dato in abbondanza: ha una coordinazione psico-motoria tale da permettergli di essere competitivo in qualsiasi sport decida di praticare. Non è velocissimo, ma ha uno scatto da centometrista e appoggi che su un campo da rugby in pochi avevano portato e provato fino ad allora. Sembra che lo prendi, ma questo ti ha già lasciato lì. È come quando Garrincha e gli altri brasiliani con ascendenti indios dovettero mutuare alcuni movimenti dalla capoeira per non farsi picchiare (cosa molto più che tollerata) da certi difensori bianchi. È il crossover di The Answer, al secolo Allen Iverson, un altro piccoletto che sul parquet ha messo a sedere giganti e dileggiato Michael Jordan grazie ad un cambio di velocità e di passo mai più visti a quei livelli. Shane è tutto questo, a parte una vita privata molto più tranquilla e morigerata, visto che sposerà la fiamma del liceo. Ma non è tutto qui: il ragazzo sa giocare al piede e placca come un demonio. Per referenze chiedere a Matt Banahan, ala inglese che gli da 35 chili e 30 centimetri, che ancora si sta chiedendo cosa si sia messo tra lui e la linea di meta quel giorno. O a chiunque altro si sia fatto ingannare dalla stazza dell’eterno ragazzino.

Uno così, per forza di cose, va a finire in Nazionale. Debutta nel 2000, segna la sua prima meta di lì a poco, al suo primo match da titolare, contro l’Italia. Fino al 2003 giocherà poco coi Dragoni, si mettono di mezzo infortuni e uno Steve Hansen che non lo vede tantissimo. A quella Coppa del Mondo lo fa debuttare contro gli All Blacks per far rifiatare la squadra titolare che se la vedrà poi con l’Italia per passare ai quarti.

Ecco, contro i tuttineri il Galles fa la partita più bella del Mondiale, mette più di qualche tarlo nella testa degli avversari e Shane Williams segna anche una meta. Steve Hansen si rifarà, come allenatore, nel dubbio il piccoletto con la maglia numero 11 si gioca i quarti da titolare. Il primo tempo è uno spettacolo, la Nazionale dalle 3 Piume gioca a tutto campo e fa venire i brividi ai bianchi d’Inghilterra. Solo che quelli sono in una condizione psico-fisica invidiabile e un biondino di nome Jonny al timone, non è cosa. La portano a casa nella ripresa, ma quell’11 rosso lo cominciano a conoscere e riconoscere tutti. Se ne rendono conto anche a Swansea, e allora dal 2003 debutta anche nella Celtic League con gli Ospreys.

Finché rimane in Europa non giocherà con altre squadre.

Il ragazzo miete vittime e segna mete in ogni dove, ma la consacrazione arriva nel 2005: il Galles porta a casa il Grande Slam, lui segna al debutto contro l’Inghilterra, poi si ripeterà contro Italia e Scozia e vola in Nuova Zelanda con i Lions. Segnerà qui il suo record di mete in un incontro internazionale, 5 contro Manawatu, ma il tour vede i Lions bastonati dagli All Blacks e da una serie di convocazioni perlomeno poco chiare. Nel 2007 al Mondiale segna una delle sue mete più belle nel giorno forse più triste del rugby gallese, quello della sconfitta con le Fiji. Shane è un leone contro quei giganti, sembra il Tomba degli anni d’oro tra i paletti di Schaldming, ma non basta, è proprio la squadra a non essere mai decollata.

Si rifarà nel 2008, eccome se si rifarà.

Arriva un altro Grande Slam, Shane è praticamente inarrestabile. Segna 6 mete nel torneo ed è eletto giocatore del torneo. L’ultima meta segnata alla Francia gli permette di superare Gareth Thomas per mete segnate con la maglia gallese. 41 a 40. Gareth Thomas era il primo in classifica, all’epoca.

Signori buongiorno, sono Mark Williams, sono venuto a riscuotere. Avevo scommesso che mio figlio avrebbe fatto più mete di tutti, qui in Galles. Mio figlio si chiama Shane, ecco la ricevuta”.

Ecco, fate 50 sterline per 500 e fatevi offrire una birra, se capitate da quelle parti.

Shane ne aggiungerà ancora qualcuna, arriverà a 58, è tutt’ora il quarto metaman di tutti i tempi dietro a Ohata, Campese e Habana. Le ultime due le segnerà all’Australia nel 2011, in due partite dai diversi significati. La prima è la finale per il terzo posto del Mondiale, la seconda è il classico test autunnale organizzato dai gallesi a dicembre. Il Mondiale 2011 mostra forse il Galles più bello degli ultimi anni, una squadra giovane e dal talento smisurato. Una squadra che sta cercando di fare a meno di Shane Williams, al passo d’addio. Warren Gatland ci proverà più volte a farlo tornare sui suoi passi, ma l’uomo ha deciso. Riuscirà in verità a farlo vestire di nuovo di rosso, ma la maglia è quella dei Lions nel Tour australiano del 2013, contro i Brumbies. Perderanno quell’incontro, ma Shane sembra abbia abbandonato l’Europa ovale l’altro ieri. Ed è emblematico il fatto che la maglia numero 11 con le Tre Piume se la prenderà poi George North, armadio a sei ante degli Scarlets, l’ala più pesante che il Galles abbia mai avuto, segno di un rugby fatto sempre più per i pesi massimi e sempre meno per chi, oltre a muscoli e centimetri, ha sempre cercato di arrivare ai cuori di tutti con fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione. La mente, il genio, prima del braccio.

Shane se ne va a giocare in Giappone nel 2012, ma prima regala una ultima gioia ai suoi Ospreys, con i quali ha già vinto due titoli. In semifinale fanno piangere il Munster, poi arrivano in finale contro il mostruoso Leinster di O’Driscoll e compagni, dato largamente per favorito. Solo che proprio Williams tira fuori dal cilindro gli ultimi due conigli dal cilindro, uno dei quali quasi allo scadere. Dan Biggar trasforma e firma il sorpasso, gli Ospreys sono ancora campioni.

Shane è ancora campione, nonostante abbia rischiato di salutare il rugby per sempre quando un allenatore gli disse “Sei troppo piccolo, vai a giocare a calcio”. Nonostante abbia rischiato di salutare i suoi amati rimbalzi irregolari ogni volta che ha messo i piedi in campo contro avversari grossi il doppio di lui, a volte anche di più. Ora è il rugby a salutarlo ogni giorno con più amarezza, perché uno come il figlio di Mark, forse, con questi chiari di luna e questo tipo di rugby, non passerà più. Almeno per un po’.

Ma fossi in voi una scommessina, da quelle parti, io la farei.

Chissà. Ricordatevi che Shane ha un figlio maschio già attivo con la palla ovale.

Nel caso ricordatevi di noi e della nostra sete.

What a Shane!

Boa sorte, Ludo

“Scusa Ludo, posso chiederti l’autografo, per piacere?”

Ludo è appoggiato al bancone della club house con il bicchiere in mano. Guarda lo sbarbatello di turno, abbozza un sorriso, prende la penna e verga nome e cognome.

Ha lo sguardo timido, non vuole gli sia offerto il drink che aspetta.

Lo sbarbatello abbozza, prova a dire qualcosa, ma non gli viene niente di meglio che un sorriso beota sul volto.

La Benetton aveva surclassato l’Edimburgo una partita stradominata con la mischia e Ludo, al secolo Ludovico Nitoglia, aveva appena terminato di arare il campo e di seminare avversari a destra e a manca. Se siete bravi un po’ di fatica gliela scorgete nel viso, ma state sicuri che non ne parlerà a lungo, anzi. Berrà il suo drink e farà autografi o foto con tifosi, tifose e amici.

Anche qualcuno di Roma, da dove tutto è cominciato qualche anno fa. Ai Parioli e alla Lazio lo chiamano “Freccia”, perché uno così lo vedi adesso e poi lo trovi più in là, il più delle volte dall’altra parte della linea di meta. Dalla sua ha una gran velocità di base, ma non solo.

Il ragazzo è elettrico, cambia passo e direzione che è un piacere, e ben presto se ne accorgono anche ai piani superiori. Si fa tutta la trafila delle Nazionali, poi nel 2004 lo prende il Calvisano.

Nella bassa bresciana da qualche anno c’è un sogno neanche tanto nascosto in un cassetto, il primo titolo italiano. Sono quattro anni che si arriva in finale, ma contro quella Benetton non si riesce a spuntarla.

Ad esclusione del 2002, anno del Viadana, la Benetton è sempre arrivata in finale contro Calvisano.

E ha sempre vinto.

I Leoni, che squadra: ci sono due sudafricani di livello mostruoso come Franco Smith e Marius Goosen, Brendan Williams, i fratelli Dallan, Parisse, Canale, Alessandro Troncon in mediana. Fabio Ongaro davanti. Uno squadrone che in Heineken Cup vince tre partite nel girone e resta in corsa fino all’ultimo per la qualificazione. Guardatevi quante squadre in Italia, anche dopo, hanno fatto meglio.

Eh ma nel 2004 neanche a Calvisano la squadra non è male. Ci sono vecchi lupi di mare come Paolino Vaccari e Massimo Ravazzolo, giovani come Nitoglia e Castrogiovanni, i generosissimi Zaffiri e Perugini. E una batteria di stranieri di altissimo livello. Su tutti Gerard Fraser, numero 10. Fraser è un giocatore meraviglioso, un lusso per questo livello e di grande livello anche in Nuova Zelanda, ma quando giochi nei Crusaders e ti devi giocare il posto da titolare con Mehrtens, Carter e Aaron Mauger capite che l’aria si fa pesantina. Arriva a Calvisano nel 2002 e praticamente prende per mano la squadra. Lo fa sempre, anche nel 2005.

Anche in finale, con 25 punti su 25 della squadra.

Sugli spalti del Plebiscito di Padova ci sono 4000 tifosi del Calvisano, che conta circa 7500 abitanti. Fate un po’ di calcoli e di proporzioni con altre città, se ne avete voglia.

Calvisano è campione per la prima volta, e bisserà il titolo anche nel 2008, sempre contro Treviso in finale. Solo che questa volta i gialloblu hanno una squadra ancora più forte: oltre ai già citati Nitoglia, Fraser, Zaffiri ci sono Ghiraldini, Zanni, Cittadini, McLean e Pratichetti, gli australiani Treolar e Purll. E tutti girano attorno a Paul Griffen, deus ex machina di tutta la baracca.

Ludo in gialloblu segna 153 punti in 70 partite fino al 2009, poi il Calvisano rinuncia alla massima serie, non ci sono più le condizioni economiche. La squadra riparte dalla A/2, ma i grossi calibri se ne vanno, soprattutto a Treviso, che sta già costruendo una squadra che nel 2010 sia in grado di vincere il campionato e di andare a competere in Celtic League.

Non tutti però. Griffen resta e fa crescere una bella nidiata di giovani.

Gli australiani vanno in Francia.

Ludovico non fa nulla di tutto questo.

Resta in Italia e va all’Aquila, appena risalita nel Super 10. Con lui vanno in Abruzzo Fraser e Zaffiri. Ma converrete col sottoscritto che decidere di andare a L’Aquila nel 2009 non è una scelta convenzionale né da tutti. La squadra è discreta, non può lottare di certo per il titolo, ma entra nella storia al debutto. Al “Fattori” arriva Viadana, una delle favorite per il titolo, ma i neroverdi rispondo colpo su colpo. Ludovico entra nell’azione dell’unica meta neroverde, ma in generale da una gran prova di solidità anche dietro. E allo scadere Tim Manawatu, estremo neozelandese dalla cannonata facile, centra i pali da 60 metri. La vittoria è storica, in grado per una sera di alleviare i dolori di una città ferita, ma con un orgoglio e un cuore grandi così. La stagione si conclude con una salvezza tranquilla e con una sconfitta pesante al “Fattori” contro la Benetton, che poi vincerà il suo ultimo titolo italiano. Nitoglia chiude la stagione con 5 mete in 10 incontri, poi passa proprio ai Leoni e debutta in Celtic League. La Benetton di Franco Smith è in larga parte l’ossatura della Nazionale, con qualche straniero a livellare verso l’alto la rosa e a tenere alto il livello durante il Sei Nazioni e durante l’autunno dei Test Match internazionali. Ludo in questi periodi fa il suo e diventa lo spauracchio delle difese scozzesi, irlandesi e gallesi.

Come? Uno con quei numeri non gioca con la Nazionale?

No, o almeno non più.

Già, perché in Nazionale non ci gioca dal 2006, e l’azzurro non lo vestirà più. Lo fa debuttare Kirwan nel 2004 e colleziona 17 presenze. Il ct neozelandese vede in lui un’ala di livello internazionale, Berbizier lo fa giocare con continuità, ma lo deve escludere dal Mondiale 2007 per i postumi di un infortunio.

Poi però il giocattolo si rompe.

Non è dato sapere cosa sia successo di preciso, la versione più accreditata racconta di un commento molto pesante dell’ex capo della Federazione Giancarlo Dondi nei suoi confronti dopo la sconfitta con l’Inghilterra del 2006. Ludovico non parlerà mai pubblicamente dell’episodio e verrà corteggiato sia da Nick Mallett che da Jacques Brunel (tramite Vittorio Munari), senza risultati.

A Treviso ringraziano, perché tra febbraio e marzo si tengono stretto un gioiello in grado di far male a tutti, ma proprio a tutti. anche se il Munster sembra essere la sua vittima preferita.

E lo dimostrerà soprattutto in una sera d’autunno del 2013: la Benetton batte in rimonta il Munster con due sue mete all’ala e con 19 punti al piede di Mat Berquist. Per 50 minuti la Red Army domina, segna in maul, con i trequarti e con una meta tecnica. Poi però i Leoni montano in cattedra. Potrebbe finire con un risultato ancora più pesante, alla fine.

Ma quel che rende la serata magica è la contemporanea vittoria delle Zebre a Cardiff, la prima della franchigia bianconera. L’annuncio del risultato a Monigo provoca un applauso che dura qualche minuto e che accantona ogni tipo di rivalità. Perché in fondo, quando un pallone ovale rimbalza ubriaco per il campo, si è sempre avversari, mai nemici.

Poi arriva il 29 aprile 2016, l’ultimo match in terra italiana. Ludo non ha più lo scatto e l’elettricità nelle gambe degli anni migliori, ma col tempo al repertorio ha saputo aggiungere una maggior capacità di lettura tattica e una dedizione al sacrificio, se possibile, ancora più grande. Non si ripetono più le grandi volate di qualche mese prima, quelle che avevano infiammato Monigo, ma a questi livelli si riesce a sopravvivere dignitosamente. L’annata della Benetton è tra le peggiori dall’avvento del Pro 12, ma il Connacht decide che vincere la partita non è abbastanza.

Vuole stravincerla.

E finisce che la perdono.

La mischia di Galway crolla a tempo scaduto, l’arbitro fischia il calcio. Hayward centra i pali da metà campo e firma il sorpasso. In tanti abbracciano Hayward, tutti corrono in panchina ad abbracciare Ludo, sostituito qualche minuto prima e ancora in panchina a sostenere quelli che sgobbano in campo. Viene portato in trionfo e riceve il premio di Man of the Match.

Che subito regala ad una bambina ammalata, ché il sorriso di un bambino per lui vale più di una medaglia, di qualche meta o di una maglia azzurra in più.

Prossima destinazione: Brasile. Ma nessun pallone ovale nel futuro, e sappiamo tutti quanto sia difficile smettere. Ma forse, se l’avete guardato bene nella sua ultima apparizione a Monigo, ha preso una decisione che lo lascia tranquillo. Ha lo sguardo timido, sotto la barba, e se siete bravi un po’ di fatica gliela scorgete nel viso, ma state sicuri che non ne parlerà a lungo, anzi.

Come non ha parlato a lungo dei primi due scudetti del Calvisano.

O di un calcio allo scadere al Fattori o a Monigo.

O di qualche commento umiliante.

Forse lo farà un giorno, per il momento gli è bastato esserci ogni volta che i cuori di tanti tifosi ovali hanno saputo battere forte più forte del normale.

Anche solo per qualche istante, anche solo allo scadere, quando il traguardo è vicino.

L’autografo è ancora lì, appeso in camera.

Lo sguardo beota c’è ancora, ma ho imparato a nasconderlo con un po’ di barba.

Ogni tanto guardo quel nome e quel cognome vergati, nero su bianco, e capisco che non sarà più la stessa cosa.

Boa Sorte, Ludo.

Boa sorte, Ludo

Cronache dal mondo antico

“Ahò ragazzi, correte fuori a vedere”

“Che c’è?, non mettermi fretta”

“Venite dai, venite a vede

“Cosa?”

“Lui, quello della tv!”

“Ma chi? Ma cosa? Ma quante bire te sei scolato ieri sera eh? Ultima volta che famo a la romana col bere”

“Dai cazzo datte ‘na mossa

Ecco, forse non è andata proprio così.

Forse nello spogliatoio non è che si siano dette ste cose.

O forse non in questa maniera.

Sta di fatto che, però, fuori dallo spogliatoio, c’è veramente qualcosa di straordinario.

Ma facciamo un passo indietro.

Un passo lungo un giorno, anche meno.

Novembre 1989, a Lilla scendono in campo Australia e Francia. È un match valido per il tour Europeo dei Wallabies, l’ultimo della serie. Vincono i Francesi per 25 a 19 a Lille. In Italia, o almeno nei canali maggiori, la partita viene riassunta in 50 secondi, poco più poco meno, da Giacomo Mazzocchi, papà di Marco, allora popolare voce dell’atletica leggera.

C’è chi però non se la vuole perdere, e allora tutti riuniti a casa dei primi fortunati possessori di una antenna parabolica, tutti a dare indicazioni su come e dove indirizzarla, tutti a bestemmiare se per caso la direzione fosse diversa da quella riportata in TV o nei giornali, che poi tocca andare a caso.

Anche a Rieti alcuni si riuniscono per vedere il match, ed è qui l’inizio di una storia, anzi due, che un po’ ci fanno tornare agli anni del rugby “pane e salame”, del rugby visto come un gioco o un passatempo del weekend e di un paio di serate alla settimane. Il tutto condito di lividi e ferite che il capo il giorno dopo in ufficio faceva finta di non vedere, di fango che tante volte mogli, madri o compagni ripulivano, non senza lamentele o preghiere (“Ma chi te lo fa fare?” vince con qualche ruota di vantaggio), di birre che non vogliono mai finire, e che difficilmente finiranno di svolgere il loro compito di crocerossina o amante.

A seconda dei casi.

Rieti, dicevamo.

Serie C, nel 1989, mentre tutti guardano Lagisquet bersi una bella dose di placcatori australiani e Farr-Jones accorciare le distanze, invano. E poi Blanco o Martin, i due estremi.

E poi tutti a letto presto, che il giorno dopo il presidente ha dato appuntamento a tutti, viene presentato il nuovo rinforzo straniero. E tutti sperano che il nuovo compagno straniero sia uno così, uno forte, uno di quel livello. Per poi chiedersi che cosa ci verrebbe a fare un nazionale straniero sui campi fangosi della provincia laziale.

Le terme, forse.

Neanche quelle, molto probabile, nonostante il fango non scarseggi.

Probabilmente sarà uno di quei neozelandesi matti come cavalli, un giramondo innamorato del mondo fermatosi qua giusto per due partite o tre. O un giocatore da tanti anni in Italia, ormai pronto per la pensione. Ce ne sono giusto un po’, da Aosta in giù. O qualche studente britannico in Erasmus o in viaggio, di quelli che non sanno lasciarsi stare nemmeno a chilometri da casa.

Si spera solo sia buono.

Basterebbe anche un po’ meno dei fenomeni che girano in serie A: Kirwan, Craig Green, Naas Botha, Campese. Basterebbe anche la metà di Tim Lane, fenomeno australiano passato proprio da Rieti e che finirà più avanti anche nello staff della Nazionale di Kirwan.

Ma, in fondo, basta che venga a bersi due bire da qualche parte, che faccia gruppo e che si diverta.

L’appuntamento è al campo per il giorno dopo.

Fango, spuntano giusto il presidente, i dirigenti e il nuovo “acquisto”.

Si chiama Gregory John Martin, ruolo estremo.

6 caps con l’Australia (saranno 9 a fine carriera).

L’ultimo, in ordine di tempo, il giorno prima, a Lilla, contro la Francia.

Nemmeno un giorno prima.

Tutti si guardano increduli.

“E questo da dove sbuca?”

Già, cosa fa un giocatore di questo curriculum da queste parti?

Aspettate, che questa è da ascoltare.

Un centinaio di chilometri più in là di Rieti c’è Colleferro, roccaforte del rugby italiano. La squadra ha appena ingaggiato Jeff Miller, altro mostro sacro del rugby internazionale, numero 8 di Queensland e dei Wallabies.

Ci vincerà anche un Mondiale in giallo, nel 1991.

Solo che Miller sta male, sente la solitudine.

È un bel bestione il ragazzo, lo trattano come un re, ma è pur sempre a migliaia di chilometri da Brisbane, e la nostalgia non sta tanto a guardare curricula, spalle grosse o Coppe del Mondo.

Bisogna far qualcosa, lasciar andare uno così sarebbe un peccato mortale.

Fa il nome di Greg Martin, suo compagno in Australia, uno forte davvero.

Ma c’è un problema: Colleferro il suo monte stranieri l’ha già raggiunto, non lo può ingaggiare. Che si fa?

Si scandagliano altre società della zona. Non si può far intristire un campione del genere.

E spunta il nome di Rieti.

Serie C? Pazienza, basta che il giocatore, come tanti altri fenomeni passati per lo Stivale, stia bello caldo in vista dei Test Match. In fondo è anche questo il motivo per cui i vari Kirwan, Green, Botha e Campese sono passati di qua in piena era dilettantistica.

Sono più di 100 chilometri? Chiedete a un australiano, di solito ci ride su.

Sta di fatto che Greg Martin è pronto per giocare a Rieti.

Da subito.

E uno così, che non sarà Campese e nemmeno Matt Burke ma che dietro sa il fatto suo, in un campionato come la serie C finisce per camminare sulle acque. Ogni volta che l’avversario perde palla in attacco sono caramelle di 70 metri e pedalare. Rieti, con uno così, vince il campionato a mani basse. Anche perché il ragazzo si trova bene in Italia, si innamora di una meravigliosa creatura chiamata “carbonara”, ne divora a chili insieme a Miller. Nel 2014 tornerà a Rieti per i 50 anni del club, perdendo un volo a Singapore e l’orientamento sul raccordo anulare.

Pare abbia chiesto una carbonara, da includere tra le spese di viaggio.

Sono storie che strappano sorrisi e forse qualche lacrima di commozione, ma che con l’avvento del professionismo cominciano a non ripetersi più come in precedenza. I campioni dell’emisfero sud, a partire dal 1995, se li tengono ben stretti alle loro latitudini.

È il professionismo, bellezza.

Nel 1996 prende il via il Super 12, e allora ciao fenomeni nel pieno delle forze, quelli se li tengono a portata di sguardo. Anche inglesi e francesi tendono al protezionismo, e allora alle squadre italiane, dalla serie A al mondo cadetto, non rimane altro che giocarsi bene le proprie carte nel mercato, prendere due stranieri in grado di fare la differenza e sperare che vengano per dare un senso alla stagione e non a svernare.

Intuizione e fortuna, insomma.

Anche perché negli anni ’90 non è che ci si possa tanto affidare a Youtube, procuratori o osservatori per scegliere i giocatori da mettere sotto contratto. Vittorio Munari racconta di come negli anni ’80 riusciva ad avere delle VHS dei campionati australiani solo grazie a qualche amico del posto. In cambio mandava altri nastri con registrazioni di opere liriche, di cui questi australiani andavano matti.

A Viadana la situazione non è molto diversa, nel 1994.

Ma per favore scordatevi per un momento il Viadana campione d’Italia del 2002.

E dimenticate pure gli Aironi.

Qui si parla di serie A2 e di un certo Mike, estremo samoano di 28 anni visionato e stravisionato nelle settimane precedenti l’inizio della stagione. Viadana è una piazza emergente, ancora lontana dai fasti degli anni che seguiranno. Ma vuole crescere, e questo Mike sembra l’elemento che fa al caso suo.

Ha già accettato, ma una settimana prima del calcio d’inizio arriva una chiamata.

“Hello, Mike speaking”.

Ahia.

Non viene più. La moglie è stata assunta nella polizia di Wellington, è un buon lavoro.

Non conviene spostarsi, al momento.

“Però se volete ci sarebbe mio fratello Jonny. È giovane, c’ha 21 anni, gioca a Rugby League, ma è forte. Potrebbe fare al caso vostro”. Non ci sono molte alternative, manca troppo poco tempo.

Un piccolo particolare: Mike di cognome fa Umaga.

Collezionerà 13 presenze con Samoa.

E il fratello si chiama Jonathan, ma nessuno lo chiama così.

Metterà insieme qualcosa come 74 presenze con gli All Blacks, il piccolo Jonny.

Sarà anche il capitano degli All Blacks, il piccolo Jonny.

Jonny, chiamatelo Tana.

Tana Umaga. Forse ne avete sentito parlare.

Il ragazzo non ha ancora le famose treccine che faranno impazzire placcatori di tutto il mondo, ha occhi timidi ma lo sguardo serio di chi sa che il treno di una lunga e prospera carriera passa anche tra la nebbia della Bassa Padana. E allora bisogna dare tutto anche qui, anche se Wellington, Nuova Zelanda, non è propriamente una frazione di Botticino.

Il ragazzo fa il suo, nonostante quel Viadana non sia un grande Viadana.

Uno dei primi giorni avvicina Franco Tonni, storico direttore sportivo giallonero, allora alla ricerca disperata di un secondo straniero per completare la rosa.

“Mister Franco, ci sarebbe un mio amico a Wellington che vorrebbe venire qui. È seconda linea, ma gioca bene anche da numero 8, per me è buono, giocava con me.”

Non servono altre parole, il tongano arriva.

Si chiama Inoke Afeaki.

E proprio a Viadana riceverà la convocazione per la nazionale tongana, di cui sarà un giorno capitano.

Non male come stranieri, eh?

Anche Umaga riceverà la convocazione dalla federazione samoana, ma non accetta.

Sa che, in fondo, può arrivare qualcosa di più.

E arriverà, oh se arriverà.

Per la cronaca Viadana partirà malissimo, un solo pareggio nel girone di andata. Umaga si fa buttare fuori per due giornate per rissa in campo e sugli spalti, ma è soltanto un momento di debolezza. Il girone di ritorno è quello della rimonta, ma una sconfitta a Calvisano relega i gialloneri al girone salvezza.

Ne vincono 8 su 10. Ite, missa est.

Umaga e Afeaki cominceranno il loro volo nel rugby di un certo livello.

Viadana porterà ancora a casa discreti colpi: un paio di anni dopo sulla riva sinistra del Po arriverà il giovane centro neozelandese Sonny Parker, poi Nazionale gallese. E anche un altro ragazzino neozelandese, compagno di college e di staffetta di Doug Howlett: si chiama Kaine Robertson, e una sua meta coast-to-coast infiammò il Flaminio in un pomeriggio di marzo del 2007.

 

Martin, Umaga, anche Afeaki. E tutti gli altri.

Rieti e Viadana, ma non solo.

Sono storie di un rugby che forse non esiste più, di un mondo “pane e salame” che sapeva regalare qualche sogno e qualche storia anche a chi conviveva con lividi, fango e birra. Anche a chi non era solito firmare autografi. Anche a chi, durante la settimana, doveva temere più il placcaggio di qualche capo tignoso e feroce o di qualche donna allergica alle cicatrici, ma che aspettava il weekend, o quelle due volte a settimana, per poter sfogarsi e divertirsi con qualche compagno di avventura e di vita. Per poter scolare birre con gente che giusto mezz’ora prima era dall’altra parte della barricata. E ogni tanto intrecciare e mescolare le proprie esistenze con personaggi visti a volte solo in TV, o che forse un giorno ritroveremo dall’altra parte del mondo, con una maglia nera a inscenare una danza di guerra o a commentare qualche partita di Coppa del Mondo. Casomai torneranno quando sentiranno la mancanza di salamelle e carbonara.

Sono storie di chi è in grado di sognare, e di chi un giorno riuscirà a realizzare il suo sogno.

Sono storie, e sogni, di un rugby che forse non tornerà.

Ma nel frattempo, mentre incrociamo le dita e un po’ ci speriamo,  non svegliateci.

Cronache dal mondo antico

Enorme!

Il baratro è lì, a 35 minuti. Si chiama “eliminazione”, è una parola che brucia, sempre e comunque, che si parli di una semifinale mondiale o del torneo di briscola  del Bar Sport sotto casa. Cazzo se brucia. Soprattutto quando ti rendi conto di aver dato vita alla tua prova migliore da quando hai cominciato a nuotare giusto nel momento in cui l’acqua aveva cominciato ad arrivare all’altezza del gargarozzo. E finalmente, dopo aver a lungo vivacchiato, capisci che non può finire così, ma che se non succede qualcosa resterai tra quelli che ci hanno provato (che sono tanti, eh), ma che alla fine niente hanno potuto. Qualcosa come un miracolo, ma più terreno, condito possibilmente con rugby, sangue e sudore. Perché per sconfiggere trattori che solo per sbaglio hanno la maglia numero 11 sulla schiena e ti stanno facendo malissimo o avversari apparentemente inavvicinabili anche quando riesci in qualche modo ad imbrigliarli ti devi inventare qualcosa di diverso dalle sole preghiere. O almeno a provare a buttar giù qualcosa che assomigli ad un piano B che vada oltre ai Padre Nostro e alle Ave Maria. Che vada oltre alle dita incrociate quando il capo ti chiama in amministrazione perché la tua produzione striscia.

Qualcosa che nella vostra, e nostra, routine quotidiana non esiste. Di solito.

O tende a durare poco, il tempo di una fiammata.

E siccome qui si parla di rugby e non di catasto, di rosari o vita d’ufficio, questa è la storia di 30 minuti che forse non si sono mai più visti nel mondo ovale, 30 minuti quasi inspiegabili a parole, perché appena te li vai a rivedere le parole le perdi ogni volta. Non escono proprio più. Questa è la storia di come una squadra con un talento spaventoso riesce quasi a perdersi, a salvarsi per demeriti altrui e a ritrovarsi giusto in tempo per distruggere in 30 minuti, anche meno,  quelli che da qualche anno sono l’immagine non solo sportiva, ma anche commerciale del rugby. Quelli che si vestono di nero, ma si tengono una felce argentata sul cuore e nel cuore. Quelli che accolgono gli avversari con l’haka. Quelli che qualche anno prima avevano messo all’ala un ragazzone tongano di 120 chili e hanno cambiato per sempre questo sport.

Si, esatto, gli All Blacks. Hanno appena vinto il Tri Nations perdendo un solo match, l’ultimo, a Sidney. Sono i principali e obbligatori favoriti per il Mondiale 1999 e hanno uno squadrone. C’è Andrew Mehrtens in mediana insieme al nuovo golden boy dell’Emisfero Sud, Byron Kelleher, c’è capitan Taine Randell, un numero 8 che ha mani e piedi di velluto. C’è Zinzan Brooke schierato seconda linea. Poi chiudete tutto, arrivano i trequarti. Chris Cullen, meraviglioso estremo degli Highlanders, frequenze di corsa pazzesche e una media mete spaventosa, gioca centro.

Centro? “Quel” Chris Cullen? Bestemmia.

No.

Non se ad estremo metti Jeff Wilson, uno che lo puoi mettere a praticare qualsiasi sport e aspettare, tanto lui prima o poi va in Nazionale. Sceglie il rugby e arriva a giocare un Mondiale con gli All Blacks, va a giocare a cricket e te lo ritrovi pure lì a giocare in Nazionale. A livello giovanile è pure un fenomeno a basket ed entra nelle squadre di staffetta. Come fai a lasciarlo fuori uno così?

Sarebbe un’ala fenomenale, lo mettono ad estremo, e i motivi sono due.

E giocano entrambi all’ala.

Uno è il futuro capitano, dreadlocks al vento, a vent’anni è passato anche da Viadana, nell’allora serie A2, si chiama Tana Umaga, e uno con quella corsa e quella capacità di venirsi a prendere il lavoro da lì non lo puoi tanto muovere. L’altro è un ragazzone di un metro e novanta per 120 chili, di origine tongana. Si chiama Jonah Lomu e se non ne avete mai sentito parlare non sono sicuro di volervi conoscere.

Gli All Blacks al debutto giochicchiano per 40 minuti, poi sistemano Tonga. A Twickenham l’Inghilterra va sotto, recupera col piede di Wilkinson, poi Lomu prende palla a metà campo e ciao a tutti. Contro gli azzurri in completo disarmo finisce 101 a 3 nonostante in molti se ne stiano in panchina e Lomu nel finale giochi pure terza linea. Ai quarti affrontano la Scozia, dopo 50 minuti è 30 a 6, poi è surplace con l’orgoglio scozzese a farla da padrone a Murrayfield, finisce 30 a 18. È semifinale.

E come fai a fermarli questi?

Tra l’altro il calendario, amichevolmente, aveva promesso un bel derby dell’emisfero Sud dall’altra parte del tabellone, e infatti l’altra semifinale è Sudafrica-Australia. Da questa parte del mondo, invece, è la Francia la prossima avversaria dei tuttineri.

I francesi di Skrela e Villepreux, se possiamo usare un eufemismo, non stanno passando un bel momento. Ultimi al 6 Nazioni, strappano a fatica la Coppa Europa all’Italia con un 30 a 19 arrotondato solamente nel finale e con i pezzi da 90 in campo, poi vanno in tournée nel Pacifico. Vincono spuntando sangue contro Samoa, perdono contro Tonga e due volte contro gli All Blacks alla vigilia del Tri Nations. La seconda volta finisce addirittura 54 a 7, è un tracollo e, insieme, un sospiro di sollievo, dipende dove vi girate a guardare: 5 anni prima, infatti, proprio in Nuova Zelanda era arrivata una clamorosa vittoria ospite con tanto di “meta dell’altro mondo”, una azione dei trequarti francesi iniziata da Saint-André nei propri 22 e terminata con Sadourny dall’altra parte della linea bianca. Non ve lo diranno mai i neozelandesi, ma ogni volta che giocano con i transalpini un po’ di paura ce l’hanno. Non perché siano violenti, ma perché sono micce pronte a prendere fuoco. Sono latini, umorali, basta premere l’interruttore e non sai più dove girarti, te li ritrovi ovunque, finte, controfinte, contrattacchi. E avanti grossi e brutali come orchi. Non c’è piano tattico che li tenga, è il French Flair, bellezza. E finché non se ne vede traccia sono tutti più tranquilli.

Le Bleus sono inseriti in un girone pressoché semplice, con Canada, Namibia e Fiji. Ma giocano male, malissimo. Sono involuti da far spavento. I nomi , sulla carta, non sono nemmeno male: dietro ci sono Garbajosa, N’tamack e Bernat-Salles, c’è Dourthe, in mediana gioca titolare Thomas Castaignède, davanti ci sono Pelous, Benazzi, Tournaire, Juillet, Olivier Magne,Ibanez, ma il collettivo non gira. E sanno benissimo come sono arrivati in semifinale: il Canada del cecchino Gareth Rees si scioglie sul più bello, con la Namibia arrivano sei mete ma il gioco non convince. Con le Fiji, invece, a prendere la scena è l’arbitro, Paddy O’Brien, che ne combina di tutti i colori. Nell’ordine assegna una meta ai francesi viziata da un passaggio in avanti, poi si ravvede e concede ai Bleus “solo” un calcio piazzato, annulla una meta ai figiani per un avanti inesistente, poi il capolavoro: mischia francese nei 5 metri figiani, il tallonatore transalpino stappa, meta tecnica. La Francia alla fine vince 28 a 19 e finisce prima nel girone, i figiani usciranno contro l’Inghilterra nei playoff. Ai quarti li aspettano i durissimi Pumas, reduci dall’impresa contro l’Irlanda e dati per favoriti da una certa parte di stampa. E invece finalmente si svegliano Les Bleus: dopo 11 minuti è già 17 a 0, il gioco è a tratti entusiasmante, ma non c’è costanza. I Pumas prima rimontano e poi si spengono, finisce 47 a 26. Nel frattempo si sono infortunati Pierre Mignoni, numero 9 titolare, che aveva sostituito Philippe Carbonneau, a sua volta costretto al forfait, e Thomas Castaignède, numero 10. Skrela richiama titolare Fabien Galthié e gli affianca il centro Christophe Lamaison. Poi ridisegna i trequarti, mettendo Emile N’Tamack a primo centro e Garbajosa estremo, lasciando alle ali il folletto Dominici e il “grigio” Philippe Bernat-Salles.

Gli All Blacks schierano tutti i titolari possibili e si lanciano nell’haka. Sono subito riconoscibili, sono quelli che stanno cominciando a portare il rugby nelle televisioni mondiali, quelli che prendono a spallate furgoni e che nel frattempo trovano il tempo di cromare ossa avversarie in campo. È come se, oltre ai giocatori in campo e agli spiriti degli antenati da loro evocati, dietro ci sia un’aura ancora più invalicabile, quella degli spettatori che li vedono come i portatori sani della palla ovale. Il resto degli avversari?

Nemici, “cattivi”.

Eppure i galletti partono bene, è Lamaison a centrare subito i pali con un piazzato. Mehrtens risponde con due calci. Ne prova altri due, anche dalla distanza, ma sbaglia. Non sono tranquilli, i tuttineri, e forse ne hanno ben donde. Al 23’ Lamaison lancia Benazzi a metà campo, va a terra dopo due metri. Galthié serve Dominici che fugge a metà campo, si beve anche Wilson, Cullen è costretto ad un placcaggio disperato. La difesa è sbilanciata, Galthié apre e Lamaison va in mezzo ai pali, è di nuovo avanti la Francia. Giocano bene i francesi, eccome. Benazzi fa legna, Magne è ovunque, Garbajosa dietro è una sicurezza e calcia via la palla 50, 60 metri più in là, possibilmente dietro il triangolo allargato, possibilmente dove dovrebbe essere Lomu.

Già, perché Villepreux e Skrela si sono studiati per bene due o tre partite degli All Blacks e hanno centrato la tattica: Jonah Lomu in attacco è praticamente illegale, ma tatticamente non è un fulmine di guerra. Nell’unica partita persa al Tri Nations Stephen Larkham l’ha massacrato di calci nella sua zona. La stessa cosa ha provato a farla Gregor Townsend, numero 10 scozzese, ai quarti. Lomu in fase difensiva, se sotto pressione, è costretto a calciare, con risultati non proprio lusinghieri, oa tergiversare, e se la difesa sale i problemi sono tutti loro. Lamaison e Garbajosa bombardano al piede, gli All Blacks segnano ancora, ma solo dalla piazzola con Mehrtens. No, la disciplina non è il piatto forte dei francesi oggi, ma se vuoi rimanere attaccato al match e far sentire il tuo fiato sul collo dell’avversario, in certi casi, devi giocare al limite. E forse superarlo. Per referenze chiedere a Richie McCaw (ma questa ve la racconteremo più avanti).

Poi però un pallone perso regala una chance a Lomu, e indovinate come va a finire.

Con tutti i trequarti avversari che provano a prenderlo, ma niente.

Con Benazzi che rimbalza e torna da dove se ne era venuto.

Con il “pacifico” numero 11 che si rialza da terra come se avesse appena finito di giocare col suo cagnolone.

Stop. Fermiamoci un attimo e lasciate qui la partita.

Andate un momento su Youtube, o su qualsiasi portale simile, e digitate “Nemani Nadolo”.

Vi usciranno le gesta di  questo trequarti figiano di 125 chili.

Gli avversari non lo fermano mai, a meno che non decidano di placcarlo subito, forte e alle gambe.

Bene, ora pensateci un attimo: se faticano a placcare nel rugby muscolare e muscoloso del 2016 un giocatore fisicamente simile al fenomeno con la 11 nera addosso, immaginate cosa potesse essere un Lomu vent’anni fa. Al quale, onestamente, il buon Nadolo assomiglia fisicamente ma può giusto sciogliere i lacci delle scarpe. È un po’ come Serena Williams nell’attuale panorama tennistico femminile: la puoi far muovere finché vuoi, ma anche quando sembra essere in difficoltà spara quella decina di prime palle che spaccano il match e la riportano a galla.

Convinti?

Torniamo alla partita. Perché la Francia mica si arrende: Magne buca la difesa, brucia Wilson, sorprende Lomu e calcia a seguire. Si porta dietro i levrieri, le ali, ma per una questione di rimbalzi arrivano prima i tuttineri. Mehrtens calcia ancora tra i pali, il primo tempo finisce 17 a 10. E dopo 4 minuti nella ripresa Lomu fa ancora danni. Sembra quasi intoccabile, con i trequarti transalpini che in difesa sembrano tanti giocatori di una serie minore.

Tanti fratellini che provano a buttar giù il fratellone appena arrivato a casa da un lungo viaggio.

Lo puoi anche abbozzare un placcaggio, ma quello mica va giù. 24 a 10.

Il baratro è lì, a 35 minuti. Si chiama “eliminazione”.

No cazzo, non oggi.

Non giocando così bene.

Non contro questi All Blacks, che Lomu a parte oggi stanno facendo il compitino.

E allora bisogna inventarsi qualcosa.

A prendere per mano tutti sono ancora Magne e Benazzi, Dominici è commovente nel cercare di sfondare contro giocatori di cui al massimo potrebbe essere il ripieno. Poi Lamaison chiama la giocata, Galthié fa uscire la palla.

Drop.

Senza vantaggio, a perdere.

Dentro. Pazzo. Folle. Francese.

Due minuti dopo ne butta dentro un altro, Twickenham si anima. E gli All Blacks cominciano a sfaldarsi. Non si parlano, e diventano indisciplinati. Lamaison butta dentro altri due calci. Curiosa la storia di “Titou”, ottimo numero 10 a Brive, centro in Nazionale. Skrela gli preferisce Castaignède, giocatore elettrico, che muove bene i trequarti ma che non rende al massimo nel gioco tattico. È che un Lamaison non lo puoi tener fuori, visto il gioco tattico e vista la solidità, e allora lo metti dietro.  Certo, gli manca il cambio di passo, ma se schieri un triangolo allargato di gente come Dominici, Garbajosa e Bernat-Salles uno con quel piede e quella solidità te lo puoi anche permettere.

Meno due, e adesso ne riparliamo.

Gli All Blacks perdono palla in un raggruppamento a metà campo, Galthié vede che dietro c’è il solo Mehrtens e calcia una palombella velenosissima. Anche gli dei non sono più in grado di comprendere il rimbalzo, lo capisce il più piccolo della compagnia, Christophe Dominici, 172 centimetri che spiccano il volo, nonostante capitan Randell provi a inseguirlo, invano.

E con loro tutta la Francia.

È sorpasso.

E sentire Twickenham cantare “Allez le Bleus” fa un certo effetto.

Gli All Blacks accusano pesantemente, non ne vengono più fuori. È il French Flair, bellezza.

Passano pochi minuti e la Francia vince una touche. Parte la maul, inarrestabile. Galthié serve Lamaison che calcia a seguire. È Dourthe il primo ad arrivare e schiaccia. Twickenham viene giù.

È 36 a 24, fanno 26 a 0 di parziale.

La tempesta sembra finita, ma la partita è segnata. La Nuova Zelanda avrebbe anche i palloni, ma manca la lucidità: fioccano i palloni persi, passaggi in avanti a non finire, ci sono falli di frustrazione che da gente con la maglia nera non ti aspetteresti mai. E quando riescono ad arrivare in fondo è il sacrificio francese a fare miracoli. Come quando fermano Wilson e Umaga a due passi dalla meta.

Gli All Blacks forzano le giocate: Mehrtens chiama un loop, ma la pressione è altissima e il passaggio non è accurato. La palla cade, Lamaison calcia lungo. Nello scatto Magne brucia tutti, arriva sulla palla e calcia ancora. Arrivano gli uomini veloci dietro, con Bernat-Salles che brucia Wilson e schiaccia. Quando si rialza, braccia al cielo, l’ala di Biarritz nell’esultanza ricorda un po’ Spillo Altobelli dopo il terzo gol ai tedeschi nel 1982. È l’esultanza di chi sa che lì si scrive la storia, che lì finisce il sentore del fango addosso e può cominciare a pensare a qualcosa che vada oltre gli 80 minuti di gioco.

È finita.

È il trionfo, anche se nello sprint finale abbiamo un po’ tutti tifato per Magne, per almeno vederlo marcare una meta al termine di una prestazione terminale. Anche se segna Wilson a pochi secondi dal termine, ma servirà solo per indorare la pillola. Gli dei sono caduti e il rumore si è sentito in tutto il mondo, prima ancora che a Twickenham. Si intona la Marsigliese in tribuna, e Londra non è mai stata così blu.

Il Mondiale finirà nelle mani australiane, le tossine di una partita del genere te le porti dentro e fai fatica a buttarle fuori. Si fa male anche Magne, ma per un’ora di gioco è 18 a 12, poi la diga non regge più.

Perché i miracoli appartengono alle divinità, e i francesi non lo sono.

Non lo erano prima di quel 31 ottobre 1999.

Non lo saranno dopo.

E non lo sono stai nemmeno in quegli 80 minuti.

Sono uomini che non si sono lasciati cadere nel burrone nonostante tutto sembrasse contro.

Sono quelli che hanno mandato a quel paese il loro capo dopo l’ennesimo insulto, quelli che hanno detto “Signore, io prego, ma intanto che arrivi io comincio a muovermi”.

E hanno fatto qualcosa che nella vostra, e nostra, routine quotidiana non esiste.

Qualcosa di grande.

Grande.

Enorme.

 

 

Enorme!

L’inizio dell’avventura

“Il Signore è il mio pastore, nulla manca ad ooogni atteeeeeesaaaa”. Il prete batte i polpastrelli su una tastiera che dire usurata è poco, manca anche qualche tasto. Lui sa suonare, dice. Lui sa cantare, dice. Obiezioni respinte, ma siamo una decina di quattordicenni e fra dieci minuti sta tortura finirà, lasciamo che la natura faccia il suo corso. Il prete continua nella sua audizione “In verdissimi parti mi passssie”. Dai che è quasi fatta. Triplice fischio, rompete le righe. Mai amato il catechismo il sabato, soprattutto mezz’ora dopo l’ultima campanella a scuola. Figuratevi se poi un vecchio prete si mette a insegnare vecchi canti in vista della messa del giorno dopo. Canti che puntualmente non vengono mai fatti, visto che il coro dei giovani ha tutt’altro repertorio. E poi c’è la partita. Tutti abbiamo la partita. La mia è diversa da quella degli altri, stavolta non servo a scaldare la panca, posso starmene a casa. Non è che mi piaccia particolarmente la cosa, ma a distanza di anni, con la voglia di giocare che seduceva e troppe volte abbandonava noi poveri panchinari, la “tribuna” o la mancata convocazione non erano poi così male. Saluto gli altri, me ne vado a casa. Relax, tv, nonostante sia febbraio e il sole stia anche facendo la sua discreta figura oggi. Ma è anche vero che non avrei con chi passare il tempo, tutti alla partita, e allora me ne sto tranquillo. Trovo una partita di rugby su Rai Tre, dicono evento da non perdere, si parla di prima volta assoluta della Nazionale.

16 anni dopo, giorno più giorno meno, posso dire che quel giorno non ci capii un cazzo. Italia-ScoziaindirettadalFlaminio, tutto attaccato, è stato l’inizio dell’avventura europea dell’Italia ovale. Certo, tutti gli anni ’90 avevano visto gli azzurri sfidare a più riprese le 5 grandi del rugby continentale: Inghilterra,  Scozia, Galles, Irlanda e Francia prima accettavano la sfida e poi mandavano squadre imbottite di riserve o di giovani, magari senza darci nemmeno la soddisfazione del cap. Poi alcune vittorie, sempre più rispetto accumulato in campo, infine il trionfo di Grenoble contro la Francia. Si, il 5 Nazioni si allarga, ci siamo anche noi. Solo che il 1999 per noi è una annata da dimenticare: a gennaio muore Ivan Francescato, forse il nostro giocatore più rappresentativo e decisivo insieme a Diego Dominguez, quel giocatore in grado di inventarsi qualsiasi cosa in campo. Poi una serie di lotte intestine, un tour terribile in Sudafrica e la cacciata di Georges Coste, vulcanico ct che ci aveva trascinato alle porte del rugby che conta. E poi, per finire, un Mondiale disastroso, tre sconfitte su tre, 101 punti dagli All Blacks, altri 67 dall’Inghilterra (che ad un certo punto si ferma) e poi Tonga. Se ne va anche Mascioletti, vice di Coste, arriva Brad Johnstone, ct neozelandese che aveva dato spettacolo con le Fiji al suddetto Mondiale. Con Johnstone di spettacolo ne vedremo poco, a dire il vero, visto che si attacca alla nostra mischia e la rende tra le più performanti dell’emisfero boreale. Fa debuttare alcune colonne azzurre come Andrea Lo Cicero e Salvatore Totò Perugini e cerca di gestire al meglio alcuni lasciti di Georges Coste. Tra tutti, la mediana. Troncon e Dominguez, l’unico reparto di livello internazionale rimasto, oltre alla prima linea. Diego ha già annunciato il ritiro al termine della stagione, ma ci ripenserà. È diventato un idolo anche in Francia, sponda Stade Français, dove è allenato da un ruvido sudafricano dalla lacrima facile che ha già portato il Sudafrica al record di vittorie consecutive e che qualche anno dopo passerà per l’Italia. Si chiama Nick Mallett, ma questa è un’altra storia. Anche Troncon è andato in Francia, a Clermont, ma nel 2002 tornerà a Treviso. Per grinta e fosforo è praticamente una terza linea aggiunta, cosa che permette a Diego di avere palloni il più delle volte puliti e pronti all’uso. Aggiungete la grinta dell’uno ed il sangue freddo dell’altro e avrete davanti una mediana invidiata da molti, almeno a livello europeo. Per il resto Johnstone al debutto si aggrappa ai veterani rimasti (Giovanelli, Checchinato, Massimo Cuttitta, De Carli, Stoica), al “sudafricano” Visser, al campione del mondo australiano Pini e ai giovani Gritti, Bergamasco e Paoletti.

Dall’altra parte c’è la Scozia che nel 1999 ha vinto l’ultimo 5 nazioni. 3 vittorie e una incompiuta a Twickenham contro l’Inghilterra di Jason Leonard. E di un giovane cecchino biondo, Jonny Wilkinson, schierato a secondo centro. Ne risentiremo parlare. Il XV del Cardo può contare su gente come Bulloch a tallonatore, su una coppia di seconde linee come Grimes (che passerà anche per Padova) e Murray, sul genio di Gregor Townsend all’apertura e su un cecchino come Logan all’ala. E poi Metcalfe e Redpath. E un ct santone come McGeechan, poi a più riprese selezionatore dei British & Irish Lions. Ai Mondiali sono usciti contro gli All Blacks, ma a testa altissima. Sono forti, fortissimi. E irriducibili, come ogni buon scozzese che si rispetti.

L’inizio del match è equilibrato, i nostri avanti sembrano poter sopraffare la mischia scozzese, ma commettiamo due falli abbastanza sciocchi. Sentiamo l’emozione, e ci mancherebbe. Logan ci grazia entrambe le volte, poi è Townsend a sbloccare il punteggio con un drop da 35 metri. Ci svegliamo, Dominguez centra i pali due volte, andiamo in vantaggio. Ma la prima vera ingenuità la paghiamo carissima: brutto passaggio scozzese, noi lo battezziamo in avanti e ci fermiamo. L’arbitro però non è dello stesso avviso e l’azione continua, con Bulloch che buca una difesa ferma. I tantissimi scozzesi scesi a Roma si fanno sentire, qualcuno agita il kilt, ma è presto. Dominguez punisce altre due volte gli scozzesi prima del riposo, siamo avanti 12 a 10, siamo più forti davanti e Dominguez è un Re Mida mica da ridere. Ma troppe volte si è vista l’Italia durare un’ora, poco più, e poi spegnersi. O partire piano e rimontare nella ripresa, come a Monigo due anni prima, sempre contro la Scozia. 25 a 21, con lo stadio di Treviso che quasi viene giù alla meta di Paolino Vaccari.

La ripresa parte con questo dubbio: “Quanto dureremo?”. Risponde il dottor Diego Dominguez da La Tablada, laureato in Teorie e Tecniche della Tomaia Educata: due drop e un piazzato in 13 minuti. Logan sbaglia altri due piazzati, andiamo in fuga, oltre il break. Townsend centra i pali una volta, ma gli scozzesi non ci capiscono più granché. Diego mette un altro drop e un altro piazzato, andiamo sul 27 a 13, due mete trasformate di vantaggio. La furia scozzese è palpabile, la partita diventa una lotta senza quartiere, l’Italia difende bene, benissimo, e qui dobbiamo prendere, alzarci e abbassare il cappello di fronte a Marco Rivaro da Genova, professione avvocato. Non lo conoscono in molti eh, ma è l’unico italiano ad avere mai giocato il Varsity Match tra Cambridge e Oxford. Centro dei London Irish, nei quali aveva cercato fortuna e che nei quali, per una serie di infortuni e casi della vita, riesce a ritagliarsi un posto in squadra. A fine carriera per lui ci saranno solo 4 caps in azzurro, ma contro una Scozia furente fa tutto quel che deve fare: tira due, tre, quattro placcaggi durissimi ai vari Metcalfe, Longstaff e Bulloch. Dicono si sia sentito il tonfo sordo dell’atterraggio fino in tribuna, da brividi. I palloni recuperati diventano tanti e Diego li rimanda di là, tante volte nei 22. Semplice e perfetto. E allo scadere arriva la ciliegina sulla torta: serie di avanzamenti nei 22 scozzesi, poi è Ciccio De Carli a far breccia ed andare oltre per la prima meta italiana al 6 Nazioni. Non è una storia qualunque, quella del pilone romano. È un pilone diverso da altri della sua generazione, molto più mobile. E veloce. Ad Aberhavon ancora si chiedono perché a Roma facessero giocare pilone un’ala. A Brad Johnstone ha dato disponibilità solo per questo incontro, poi volerà a prendersi cura del figlio adottivo. Perché essere uomini significa anche sacrificare le gioie, sportive e non, in nome di qualcosa di più grande. Dominguez trasforma. Non sappiamo se il buon Sandro Pertini fosse anche appassionato di rugby, ma qui un suo “Non ci prendono più” ci starebbe molto bene. Arriva una meta scozzese, la trasforma Chris Paterson, un altro di cui sentiremo parlare più avanti, ma non c’è più tempo. È trionfo azzurro, anche la principessa Anna, grande appassionata di rugby, se ne va con lo sguardo teso. Il Flaminio si riscopre azzurro, dopo la lunga “invasione” scozzese. Saranno ancora Dominguez (no, alla fine niente ritiro per lui nel 2000) e De Carli a farci vincere il successivo match del 6 Nazioni, ma solo nel 2003. Nel mezzo anni bui, un John Kirwan in più nel motore e una nuova generazione d’oro. Ma forse di tutto questo è meglio parlarne un’altra volta.

Quel giorno, 16 anni fa, spensi la televisione. Dura essere adolescenti e non capire un cazzo, ma te ne rendi conto sempre dopo. La passione per la palla ovale mi aveva detto, forse, per la prima volta “ciao”. Si sarebbe ripresentata più tardi, giusto per farmi capire che non sarebbe finita così, tra un “Il Signore è il mio pastore” e un “La messa è finita, andate in pace”.

No no, siamo solo all’inizio, fidatevi. E mettetevi comodi.

L’avventura è appena iniziata.

L’inizio dell’avventura

“Avevo voglia di correre”

No, non credo di essermi mai sentito più inutile di così. Stanco, sfatto, la camicia sporca, i pantaloni sdruciti e sangue che fa capolino da dove poi dovrò cucire una toppa. Deve essere stato Smith, lui e le sue dannatissime scarpe rinforzate. O forse il ruzzolone nel tentativo di prendere la palla, un paio di azioni fa. Non ci volevo giocare. Non volevo nemmeno venire qui oggi. Hanno insistito, “dai che stavolta vinciamo”, “dai che è la volta buona”. Il sangue irlandese ereditato da mio padre, intriso di orgoglio, ha fatto il resto. Forse lui ne sarebbe orgoglioso, di sicuro lo sarà, ovunque lui sia, da qualche parte lassù. Ma io odio il calcio. Oddio, odio. Non lo amo particolarmente. Preferisco il cricket, ma forse è solo perché lì sono più bravo. O forse perché, ogni tanto, riesco a battere quel maledetto Southgate. Non lo sopporto quando lo incrocio nei corridoi della scuola, né lui né la sua spocchia. E nemmeno i suoi amici, quelli che vogliono sempre giocare a calcio, quelli che ci sfidano sempre. Quelli che ci battono, quasi sempre. Anche oggi, 1 novembre 1823. Oh, non tocchiamo palla. E poi ve l’ho già detto, non sono capace. Non come loro, almeno.

Fanno un altro gol. Noi riusciamo solo a dispensare qualche generosa pedata. Palla o tibia, quel che viene. Ah, capiamoci: è permesso colpire l’avversario sotto il ginocchio. Nessuno si lamenta. È permesso afferrare e/o afferrare la palla con le mani. Ma si può avanzare solo calciando. Ne consegue una discreta serie di mischie furibonde nelle quali una buona metà dei giocatori non sa dove sia finito il pallone, ma nel dubbio calcia. Palla o tibia, quel che viene. Poi loro calciano la palla, avanzano e segnano. Facile. Per loro.

Io non ne posso più.

Non è il mio posto.

Questo campo non è casa mia. Mi sento in gabbia, ma non ho il libretto delle istruzioni per uscire.

Ho davanti Southgate, biondo e tozzo. Naso largo e risata singhiozzante lo fanno assomigliare incredibilmente ad un suino. Ma quanto è forte con la palla, ha già segnato due gol. Calcia la palla, è più veloce e vuole superarmi. Non so che fare. Vorrei tirarlo giù dalle spese, buttarlo giù a mangiare un po’ di fango e terra, ma sarebbe una dimostrazione di inferiorità. Fermo la palla con le mani, Southgate mi è addosso. Spinge, si può. Non riesco a calciare, non ho nessuno dei miei a fianco, né dietro.

Non voglio perdere.

Sento le gambe pulsare, mi dicono qualcosa. Scalpitano, le seguo, corro.

In avanti.

Al diavolo che non si può, mi sono stufato.

Southgate non capisce e si ferma. Si fermano tutti, anche i miei, anche Smith e le sue scarpe rinforzate. Quanto siamo di riflessi lenti, noi britannici. Ligi alle regole, quasi mai un guizzo che non sia ben dentro la legalità. Io continuo a correre, i pali si avvicinano sempre di più, poi appoggio la palla.

Mi guardano tutti strano, uno mi spinge.

“Che diavolo fai?”

“Non sono queste le regole”

“Sei pazzo?”.

Stop.

 

Quanto tempo è passato da quel pomeriggio.

Ero un povero pazzo, anche un po’ frustrato. O almeno, così mi avranno considerato gli altri attorno a me. Mai più giocato a calcio, finii gli studi e presi gli ordini. Fui cappellano e parroco, protestante. Poi terminai il viaggio terreno e arrivai qui. Ogni tanto passo e vengo a rivedere i miei anni giovanili, tutto registrato. Sono un po’ nostalgico, lo so. Poco tempo dopo di me è arrivato qui un antiquario, tale Bloxam. Lui si ricordava di me, ero quello che corse via con la palla in mano in un pomeriggio di novembre. Non credevo di essere così famoso. Sembra però che qualche anno dopo qualche altro ragazzo abbia cominciato a giocare portando avanti la palla con le mani, così come feci quel giorno. Sembra anche che però nessun altro, quel pomeriggio, mi abbia visto fuggire con la palla in mano. Non mi stupisco, nel 1823 in un college era doveroso seguire le regole, se non lo facevi eri un trasgressore, uno da dimenticatoio.

Ma la storia di Bloxam, la mia storia, sembra abbiano fatto breccia qualche tempo dopo.

Il mio college, il Rugby College, ha dato il nome ad uno sport in cui si corre con la palla in mano.

Il trofeo per la squadra più forte al mondo, da decidere una volta ogni quattro anni, reca il mio nome.

Eppure quel giorno ero stanco, volevo solo andare via.

Via da Southgate.

Via dal campo di calcio.

Via da tutto, anche senza libretto di istruzioni.

Mi chiamo William Webb Ellis, e quel giorno non credevo di inventare un nuovo sport.

Avevo solo tanta voglia di correre.

“Avevo voglia di correre”