Cronache dal mondo antico

“Ahò ragazzi, correte fuori a vedere”

“Che c’è?, non mettermi fretta”

“Venite dai, venite a vede

“Cosa?”

“Lui, quello della tv!”

“Ma chi? Ma cosa? Ma quante bire te sei scolato ieri sera eh? Ultima volta che famo a la romana col bere”

“Dai cazzo datte ‘na mossa

Ecco, forse non è andata proprio così.

Forse nello spogliatoio non è che si siano dette ste cose.

O forse non in questa maniera.

Sta di fatto che, però, fuori dallo spogliatoio, c’è veramente qualcosa di straordinario.

Ma facciamo un passo indietro.

Un passo lungo un giorno, anche meno.

Novembre 1989, a Lilla scendono in campo Australia e Francia. È un match valido per il tour Europeo dei Wallabies, l’ultimo della serie. Vincono i Francesi per 25 a 19 a Lille. In Italia, o almeno nei canali maggiori, la partita viene riassunta in 50 secondi, poco più poco meno, da Giacomo Mazzocchi, papà di Marco, allora popolare voce dell’atletica leggera.

C’è chi però non se la vuole perdere, e allora tutti riuniti a casa dei primi fortunati possessori di una antenna parabolica, tutti a dare indicazioni su come e dove indirizzarla, tutti a bestemmiare se per caso la direzione fosse diversa da quella riportata in TV o nei giornali, che poi tocca andare a caso.

Anche a Rieti alcuni si riuniscono per vedere il match, ed è qui l’inizio di una storia, anzi due, che un po’ ci fanno tornare agli anni del rugby “pane e salame”, del rugby visto come un gioco o un passatempo del weekend e di un paio di serate alla settimane. Il tutto condito di lividi e ferite che il capo il giorno dopo in ufficio faceva finta di non vedere, di fango che tante volte mogli, madri o compagni ripulivano, non senza lamentele o preghiere (“Ma chi te lo fa fare?” vince con qualche ruota di vantaggio), di birre che non vogliono mai finire, e che difficilmente finiranno di svolgere il loro compito di crocerossina o amante.

A seconda dei casi.

Rieti, dicevamo.

Serie C, nel 1989, mentre tutti guardano Lagisquet bersi una bella dose di placcatori australiani e Farr-Jones accorciare le distanze, invano. E poi Blanco o Martin, i due estremi.

E poi tutti a letto presto, che il giorno dopo il presidente ha dato appuntamento a tutti, viene presentato il nuovo rinforzo straniero. E tutti sperano che il nuovo compagno straniero sia uno così, uno forte, uno di quel livello. Per poi chiedersi che cosa ci verrebbe a fare un nazionale straniero sui campi fangosi della provincia laziale.

Le terme, forse.

Neanche quelle, molto probabile, nonostante il fango non scarseggi.

Probabilmente sarà uno di quei neozelandesi matti come cavalli, un giramondo innamorato del mondo fermatosi qua giusto per due partite o tre. O un giocatore da tanti anni in Italia, ormai pronto per la pensione. Ce ne sono giusto un po’, da Aosta in giù. O qualche studente britannico in Erasmus o in viaggio, di quelli che non sanno lasciarsi stare nemmeno a chilometri da casa.

Si spera solo sia buono.

Basterebbe anche un po’ meno dei fenomeni che girano in serie A: Kirwan, Craig Green, Naas Botha, Campese. Basterebbe anche la metà di Tim Lane, fenomeno australiano passato proprio da Rieti e che finirà più avanti anche nello staff della Nazionale di Kirwan.

Ma, in fondo, basta che venga a bersi due bire da qualche parte, che faccia gruppo e che si diverta.

L’appuntamento è al campo per il giorno dopo.

Fango, spuntano giusto il presidente, i dirigenti e il nuovo “acquisto”.

Si chiama Gregory John Martin, ruolo estremo.

6 caps con l’Australia (saranno 9 a fine carriera).

L’ultimo, in ordine di tempo, il giorno prima, a Lilla, contro la Francia.

Nemmeno un giorno prima.

Tutti si guardano increduli.

“E questo da dove sbuca?”

Già, cosa fa un giocatore di questo curriculum da queste parti?

Aspettate, che questa è da ascoltare.

Un centinaio di chilometri più in là di Rieti c’è Colleferro, roccaforte del rugby italiano. La squadra ha appena ingaggiato Jeff Miller, altro mostro sacro del rugby internazionale, numero 8 di Queensland e dei Wallabies.

Ci vincerà anche un Mondiale in giallo, nel 1991.

Solo che Miller sta male, sente la solitudine.

È un bel bestione il ragazzo, lo trattano come un re, ma è pur sempre a migliaia di chilometri da Brisbane, e la nostalgia non sta tanto a guardare curricula, spalle grosse o Coppe del Mondo.

Bisogna far qualcosa, lasciar andare uno così sarebbe un peccato mortale.

Fa il nome di Greg Martin, suo compagno in Australia, uno forte davvero.

Ma c’è un problema: Colleferro il suo monte stranieri l’ha già raggiunto, non lo può ingaggiare. Che si fa?

Si scandagliano altre società della zona. Non si può far intristire un campione del genere.

E spunta il nome di Rieti.

Serie C? Pazienza, basta che il giocatore, come tanti altri fenomeni passati per lo Stivale, stia bello caldo in vista dei Test Match. In fondo è anche questo il motivo per cui i vari Kirwan, Green, Botha e Campese sono passati di qua in piena era dilettantistica.

Sono più di 100 chilometri? Chiedete a un australiano, di solito ci ride su.

Sta di fatto che Greg Martin è pronto per giocare a Rieti.

Da subito.

E uno così, che non sarà Campese e nemmeno Matt Burke ma che dietro sa il fatto suo, in un campionato come la serie C finisce per camminare sulle acque. Ogni volta che l’avversario perde palla in attacco sono caramelle di 70 metri e pedalare. Rieti, con uno così, vince il campionato a mani basse. Anche perché il ragazzo si trova bene in Italia, si innamora di una meravigliosa creatura chiamata “carbonara”, ne divora a chili insieme a Miller. Nel 2014 tornerà a Rieti per i 50 anni del club, perdendo un volo a Singapore e l’orientamento sul raccordo anulare.

Pare abbia chiesto una carbonara, da includere tra le spese di viaggio.

Sono storie che strappano sorrisi e forse qualche lacrima di commozione, ma che con l’avvento del professionismo cominciano a non ripetersi più come in precedenza. I campioni dell’emisfero sud, a partire dal 1995, se li tengono ben stretti alle loro latitudini.

È il professionismo, bellezza.

Nel 1996 prende il via il Super 12, e allora ciao fenomeni nel pieno delle forze, quelli se li tengono a portata di sguardo. Anche inglesi e francesi tendono al protezionismo, e allora alle squadre italiane, dalla serie A al mondo cadetto, non rimane altro che giocarsi bene le proprie carte nel mercato, prendere due stranieri in grado di fare la differenza e sperare che vengano per dare un senso alla stagione e non a svernare.

Intuizione e fortuna, insomma.

Anche perché negli anni ’90 non è che ci si possa tanto affidare a Youtube, procuratori o osservatori per scegliere i giocatori da mettere sotto contratto. Vittorio Munari racconta di come negli anni ’80 riusciva ad avere delle VHS dei campionati australiani solo grazie a qualche amico del posto. In cambio mandava altri nastri con registrazioni di opere liriche, di cui questi australiani andavano matti.

A Viadana la situazione non è molto diversa, nel 1994.

Ma per favore scordatevi per un momento il Viadana campione d’Italia del 2002.

E dimenticate pure gli Aironi.

Qui si parla di serie A2 e di un certo Mike, estremo samoano di 28 anni visionato e stravisionato nelle settimane precedenti l’inizio della stagione. Viadana è una piazza emergente, ancora lontana dai fasti degli anni che seguiranno. Ma vuole crescere, e questo Mike sembra l’elemento che fa al caso suo.

Ha già accettato, ma una settimana prima del calcio d’inizio arriva una chiamata.

“Hello, Mike speaking”.

Ahia.

Non viene più. La moglie è stata assunta nella polizia di Wellington, è un buon lavoro.

Non conviene spostarsi, al momento.

“Però se volete ci sarebbe mio fratello Jonny. È giovane, c’ha 21 anni, gioca a Rugby League, ma è forte. Potrebbe fare al caso vostro”. Non ci sono molte alternative, manca troppo poco tempo.

Un piccolo particolare: Mike di cognome fa Umaga.

Collezionerà 13 presenze con Samoa.

E il fratello si chiama Jonathan, ma nessuno lo chiama così.

Metterà insieme qualcosa come 74 presenze con gli All Blacks, il piccolo Jonny.

Sarà anche il capitano degli All Blacks, il piccolo Jonny.

Jonny, chiamatelo Tana.

Tana Umaga. Forse ne avete sentito parlare.

Il ragazzo non ha ancora le famose treccine che faranno impazzire placcatori di tutto il mondo, ha occhi timidi ma lo sguardo serio di chi sa che il treno di una lunga e prospera carriera passa anche tra la nebbia della Bassa Padana. E allora bisogna dare tutto anche qui, anche se Wellington, Nuova Zelanda, non è propriamente una frazione di Botticino.

Il ragazzo fa il suo, nonostante quel Viadana non sia un grande Viadana.

Uno dei primi giorni avvicina Franco Tonni, storico direttore sportivo giallonero, allora alla ricerca disperata di un secondo straniero per completare la rosa.

“Mister Franco, ci sarebbe un mio amico a Wellington che vorrebbe venire qui. È seconda linea, ma gioca bene anche da numero 8, per me è buono, giocava con me.”

Non servono altre parole, il tongano arriva.

Si chiama Inoke Afeaki.

E proprio a Viadana riceverà la convocazione per la nazionale tongana, di cui sarà un giorno capitano.

Non male come stranieri, eh?

Anche Umaga riceverà la convocazione dalla federazione samoana, ma non accetta.

Sa che, in fondo, può arrivare qualcosa di più.

E arriverà, oh se arriverà.

Per la cronaca Viadana partirà malissimo, un solo pareggio nel girone di andata. Umaga si fa buttare fuori per due giornate per rissa in campo e sugli spalti, ma è soltanto un momento di debolezza. Il girone di ritorno è quello della rimonta, ma una sconfitta a Calvisano relega i gialloneri al girone salvezza.

Ne vincono 8 su 10. Ite, missa est.

Umaga e Afeaki cominceranno il loro volo nel rugby di un certo livello.

Viadana porterà ancora a casa discreti colpi: un paio di anni dopo sulla riva sinistra del Po arriverà il giovane centro neozelandese Sonny Parker, poi Nazionale gallese. E anche un altro ragazzino neozelandese, compagno di college e di staffetta di Doug Howlett: si chiama Kaine Robertson, e una sua meta coast-to-coast infiammò il Flaminio in un pomeriggio di marzo del 2007.

 

Martin, Umaga, anche Afeaki. E tutti gli altri.

Rieti e Viadana, ma non solo.

Sono storie di un rugby che forse non esiste più, di un mondo “pane e salame” che sapeva regalare qualche sogno e qualche storia anche a chi conviveva con lividi, fango e birra. Anche a chi non era solito firmare autografi. Anche a chi, durante la settimana, doveva temere più il placcaggio di qualche capo tignoso e feroce o di qualche donna allergica alle cicatrici, ma che aspettava il weekend, o quelle due volte a settimana, per poter sfogarsi e divertirsi con qualche compagno di avventura e di vita. Per poter scolare birre con gente che giusto mezz’ora prima era dall’altra parte della barricata. E ogni tanto intrecciare e mescolare le proprie esistenze con personaggi visti a volte solo in TV, o che forse un giorno ritroveremo dall’altra parte del mondo, con una maglia nera a inscenare una danza di guerra o a commentare qualche partita di Coppa del Mondo. Casomai torneranno quando sentiranno la mancanza di salamelle e carbonara.

Sono storie di chi è in grado di sognare, e di chi un giorno riuscirà a realizzare il suo sogno.

Sono storie, e sogni, di un rugby che forse non tornerà.

Ma nel frattempo, mentre incrociamo le dita e un po’ ci speriamo,  non svegliateci.

Cronache dal mondo antico

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