Un’ultima stagione da càncari

Numero 12”. Tre secondi di tempo, poi mi arriva addosso una maglia bella pesante, cotone ignorante di una volta, lanciata da mano impaziente. Colpa mia, la prossima volta imparo a non parlare dell’ubriacata della sera prima coi compagni mentre parla il mister. Mister che mi guarda: mi fissa, torvo, come se non avessi fatto i compiti in classe o come se la pratica di quel cliente fosse stata da buttare. Stringo le chiappe, sto zitto. Lui mi fissa ancora, poi distoglie lo sguardo. Stop. Non è di certo logorroico lui, ma sa come farsi capire, bastano quei due occhi iniettati di non so che cosa. Anche il sergente maggiore Hartman ci penserebbe per un po’ prima di urlargli davanti, se fosse squadrato in quella maniera. Meglio una recluta alienata che ti punta contro un fucile Full Metal Jacket che lo sguardo di un ex flanker già incazzoso di suo e neanche troppo di buonumore: un fucile a volte fa cilecca, un placcaggio è per sempre, quando te lo meriti. Anche quando giocava era così, il nostro mister. Terza linea taciturna, leale, silenziosa come solo certi killer professionisti e professionali sanno essere: quasi neanche ti accorgevi che c’era in campo, se eri suo compagno di squadra. Gli avversari, però, se lo sognavano di notte per come menava, per i placcaggi intrisi di furia agonistica, qualcuno anche per l’alito, lasciato incattivire lontano dal dentifricio prima di ogni match. D’altronde, se non sei cattivo fino in fondo forse nessuno capirà mai l’antifona. Mai un giallo eh, sempre correttissimo, ma certi placcaggi te li portavi a timbrare il cartellino il lunedì. Un leader silenzioso, di quelli che oggi in giro per il mondo “leader by example”, in pratica un Ardito della prima guerra mondiale, uno di quelli che la linea Piave la attaccava davanti a tutti. Occhio che frega, la storia, nel rugby. Mai sentito nessuno parlar male di lui. Capitano, ovviamente. Un onore averlo come guida, dicevano i suoi compagni divenuti grandi, un onore averlo come insegnante severo ma giusto nello sport che amo e che ho la fortuna di giocare. Oggi è particolarmente incattivito, il mister. Di lì a mezz’ora avremmo affrontato la capolista e noi eravamo lì a ridere e scherzare. Che la battuta va bene, dice lui, a patto che si esca dal campo senza nemmeno il fiato per respirare e con i muscoli che gridano al posto nostro. Non gli importa il risultato, lui vuole vedere degli uomini in campo. Per lui si può anche perdere, ma solo se l’avversario è stato più forte sul campo. Altrimenti, al primo allenamento utile, sono cazzi. Meglio non andarci, davvero, fingetevi malati o in viaggio di lavoro, se non siete uomini abbastanza. Dite che avete visto la Madonna e Paolo Brosio, insieme, e li avete dovuti seguire. No no, niente paternali, niente offese, quelle sono cose che uno dimentica in tre secondi, se qualche bastonata nella vita l’ha già presa. Lui tace e dà le direttive, poi guarda. Assiste al massacro. Chi è ancora in grado di intendere e di volere a fine allenamento non sgarra più, garantito al limone. A volte è lui stesso a condurre le danze in allenamento, e ti rendi conto che a 50 anni a momenti potrebbe soffiare il posto a qualcuno di noi in campo. Si è sempre allenato lui, anche dopo il ritiro un po’ troppo prematuro, a 32 anni, quando tutti dicevano che avrebbe potuto giocare tranquillamente fino ai 40. 32 anni, scarpe al chiodo e nessun infortunio, solo non ricordategli mai che a fermare una delle più feroci belve viste nei campi di provincia è stata una bimba di 2 anni. Ciao, dite pure addio a quel che avete di più caro, quel lato del mister non si tocca. Perché il nostro mister è sì uno che in campo ha dato tutto, ma quando è stato il tempo di decidere ha saputo sacrificare tutto quel che più amava per il bene di chi aveva intorno. Successe così: la sua squadra andò a giocare a Trieste, campo “caldo”. Dopo un suo placcaggio parecchio robusto dagli spalti qualcuno pensò bene di lanciare una moneta. Stac, preso in pieno all’arcata sopraccigliare, 8 punti belli e serviti. Pronto soccorso? Macché, non volle sentire ragioni: ago e filo, a gomito a gomito con la retina. Dal campo non lo smuoveva nessuno. Poi riprese a giocare come se niente fosse successo. Tornato a casa parcheggiò la macchina al solito posto, sotto il pino. Scese dall’auto, ma proprio in quel momento una pigna decise di cadere e lo colpì giusto giusto sulla ferita, riaprendo il solco. Inutile andargli a spiegare la più famosa delle leggi di Murphy, conoscendolo lui vi chiederebbe se giocava apertura o centro. Sta di fatto che il taglio si riaprì e ricominciò a sanguinare copiosamente. Entrò in casa di soppiatto e si diresse subito in direzione del cassetto dei medicinali alla ricerca di un minimo di garza o cerotto. In quel momento la luce si accese e si sentì una voce:

Papà sei tornato”.

Era Martina, non riusciva a prendere sonno ed era scappata ai placcaggi troppo morbidi del sonno e della mamma. Lui si girò per prenderla in braccio, aveva già dismesso l’espressione del killer, ma appena la bambina vide il padre coperto di sangue in volto cominciò a piangere a dirotto. Non c’era verso di fermarla, aveva paura di lui. Per lui fu uno choc vedere la meta più bella che avesse mai realizzato (non l’ha mai detto, ma si vede che è così) piangere per colpa sua. E decise di smettere. Fu così che una bimbetta di due anni riuscì in quello che tanti chiropratici vestiti da rugbisti cercavano di fare ogni santa domenica: fermare la furia di 90 chili di muscoli e rabbia agonistica condita da due baffi da mongolo alla corte di Gengis Khan. Alla piccolina la storia l’hanno raccontata, nemmeno lei ci crede a distanza di anni, o almeno, fa vedere agli altri di non credere a una storia del genere, ma sotto sotto se la gode. Tutta suo padre, dal punto di vista del carattere. Decisa, silenziosa e testarda, ma con un cuore che ha solo bisogno di essere scoperto. Uguale alla madre, dice lui, per far capire che le donne forse lo hanno fatto sudare più di tante bestie con la maglia pesante a righe orizzontali. Compagni di scuola da sempre, dicono che lui non si sia mai dichiarato a voce. Ma era evidente le facesse il filo, facendo emergere una timidezza che nessuno si sarebbe mai aspettato da un cristone del genere. O forse era solo un modo per non abbinare certe parole alla sua atavica rudezza. Ci vollero un mazzo di fiori e una lettera, scritte di suo pugno. Ora, che quel mister che guarda tutti malissimo e che sovente maltratti qualche divinità nasconda un lato romantico lascia un po’ basiti. Ma a poco a poco anche lei abbassò le difese, si sciolse e non lo lasciò più. Dovette cedere però sul viaggio di nozze: si parte il lunedì, la domenica si giocava a San Donà, “A cresima vien prima del matrimonio”, diceva. Allargò le braccia anche il prete, convincere quel personaggio, diceva, esulava dalla sua missione pastorale.

Dopo l’incidente “domestico” cominciò subito ad allenare, che dal mondo ovale non si sarebbe staccato nemmeno con un fucile puntato alle spalle, ma non mise più addosso una maglia, sua figlia Martina aveva vinto. E allora cominciò a plasmare giocatori, tutti più o meno a sua immagine e somiglianza. Gente corretta, ma cattiva come la peste, fiera, guerriera, attaccata con le unghie al match finché arbitro non li separi. Sarà per questo che in giro ci chiamano “Càncari”. Sarà per questo che, quando piacciamo anche a lui, si gira verso chi è in panchina ed esclama “Guarda i me càncari! I me càncari!” Il “càncaro”, tradotto letteralmente dal veneto, è il cancro, il tumore. Ma applicato alle persone, con una buona dose di bonarietà e di confidenza, sta a indicare persone maledettamente tenaci, grintose, irriducibili. Nessun’altra parola rende al meglio quel che buttiamo in campo negli 80 minuti. Gambe, braccia, testa, cervello, cuore. Attributi a volontà, finché ce n’è, finché qualcuno ci porta via a forza dal campo e ci mette una birra davanti al naso. Come quella volta che si perdeva 67 a 3 a Padova a 10 minuti dal termine, sarà stato 4 o 5 anni fa. Loro più forti in tutto, noi che volevamo la meta a tutti i costi. Vuoi mettere fare una meta a quello squadrone? Dopo ripetuti raggruppamenti sfondammo ed esultammo insieme. Il loro numero 11, un ragazzino, fece una smorfia di quelle che vedi sui visi di certe ragazzine snob il sabato sera e ci applaudì ironicamente, come a dire “Contenti di aver fatto meta?”. Ne segnammo altre tre spronati da quello sberleffo, finì 67-29, con il giovincello che nel terzo tempo venne a chiederci scusa accompagnato dal capitano.

Mai deridere l’orgoglio di un rugbista, non si sa mai a cosa si va incontro.

Mai una volta abbiamo mollato prima del fischio finale, mai. Mai nessun rimpianto, nessuna maglietta intonsa. E fidatevi, sta cosa fa miracoli, soprattutto quando l’avversario tira i remi in barca o quando si rende conto che non si libera di noi neanche a bastonate. A volte capita anche nel mondo ovale, soprattutto quando l’esperienza è ancora poca e gli avversari mollano la presa senza darti il colpo del ko. Se lo ricordano bene quelli di Verona, convinti di vincere tranquillamente a casa loro. Giovani, talentuosi, bravi, ma di una presunzione.. Segnano quattro mete nel primo tempo, noi tre calci, 28-9. Una fatica che non vi dico, giovani puledri contro muli che hanno scalato troppe montagne per essere ancora freschi. Ma nella ripresa rallentano, convinti di avercela fatta. Noi mettiamo due calci, loro uno, poi segno io un drop, 31-18. E cominciano a sbagliare cose semplici. Andare sotto ritmo, nel rugby, a volte equivale a suicidarsi. Altri due calci, il loro mister va nel panico. Non segniamo mete, ma sfruttiamo tutta la loro frustrazione e facciamo punti. 31-30, robe da matti. Loro non tengono più un pallone e all’ultimo cercano la liberazione, palla che resta in campo e arriva a me. Ci provo, chiudo gli occhi e sparo il drop. Dentro. Non avete idea di quante botte ho preso dai miei compagni quella volta. Anche un gavettone. Il mister mi disse “Càncaro!” all’orecchio. Poi una manata sulla schiena che ciao. È il suo modo di dirmi bravo.

Ecco, oggi giochiamo di nuovo contro di loro, primi in classifica con una sola sconfitta, quella contro di noi. E se hanno imparato bene la lezione, resterà l’unica. Anche perché in spogliatoio non si riesce a concentrarsi. Noi secondi, già promossi e con tanta voglia di sgambettare qualcuno, nonostante sia l’ultima di campionato. Tira quasi aria di vacanze scolastiche, anche se è aprile. Io ho 27 anni, troppi anche per uno studente fuoricorso cronico all’università. La mia consolazione sta nel fatto che sono tra i più giovani del gruppo, c’è chi i 30 li ha superati da un pezzo, come Ivan, 34 sulla carta d’identità, 44 davanti allo specchio ringraziando punti, barba sale e pepe e cicatrici, ma un ragazzino in campo. Mediano di mischia, da sempre sui campi minori, da sempre uno dei più grandi figli di puttana che abbia mai visto in campo, sportivamente parlando. Sempre a parlare, a provocare i piloni avversari o a scalciare le ginocchia delle seconde linee a cui rende 30 centimetri buoni. Come quella volta che in una mischia per gli avversari si avvicina al pilone e gli dice “Tanto la perdete, con quella pancia dove vuoi che passi la palla? Non ci passa, panzone!” Quel pilone non fu troppo intelligente, si staccò a gioco fermo e gli diede un cartone in faccia che lo stese per un po’.

Beninteso, tutti al posto del nostro avversario lo avrebbero menato di brutto, me compreso. Ma il giallo dato dall’arbitro e il calcio girato a nostro favore gli conferirono una specie di aura di intoccabilità. Fino alla prossima provocazione. E’ il suo modo di vivere a tutto tondo, feroce e piantagrane fino all’ultimo, beffardo e irriverente. Uno che di botte ne ha prese tante, sia in campo che fuori, uno che però non ne ha mai abbastanza, neanche della palla ovale, per fortuna: è uno dei pochi in grado, quando riesce, di darci uno spunto veloce che manco Cipollini nei giorni di grazia. Uno così serve come il pane quando hai una mischia che, per quanto ci provi, indietreggia tante volte di fronte ad avversari più giovani, di quella gioventù che ti verrebbe voglia di riavere per spezzare qualche catena di troppo che aleggia ancora nel tuo passato. Perché la maggior parte dei nostri avversari ci rende in media dai 4 ai 5 anni, e sul campo si vedono tutti, a volte anche più del lecito: ragazzini atletici, magliette attillate su fisici da passerella, anche i piloni (!), Gatorade e acqua minerale nel terzo tempo. Quando Fulvio, pilone mio coetaneo e corriere (non avete idea delle prese in giro sulla sua poca mobilità), vide due avversari col capello impomatato bersi un bicchiere di acqua dopo il match pensò che il rugby che conosceva, quello che gli aveva tramandato il padre (pilone a sua volta) fosse finito. Noi invece siamo quel che siamo: fisici diversi, dal magro (pochi) al sovrappeso, dall’etilico all’atletico (pochi, ma ancora tengono botta), diciamo che le magliette da noi sono aderenti per motivi tendenzialmente diversi. Ci fanno correre, i ragazzini, ci fanno sudare, a volte rimpiangiamo l’aver esagerato a tavola la sera prima, ma qualche soddisfazione ancora ce la prendiamo. Come facciamo? Ogni tanto me lo chiedo anch’io, ma credo di essere arrivato alla conclusione: siamo uomini, e la cosa da un certo punto di vista ha dei vantaggi.

Lo siamo tutti, più o meno, anche se a sentire certi discorsi di donne, alcool e vita vissuta viene il dubbio, a volte . Siamo diversi, come è giusto che sia: c’è il fighetto, quello religioso, il pilone bestemmiatore, quello di sinistra convinto, quello che la moglie non vuole che giochi ma lui fa lo stesso ma nel dubbio stamattina siamo andati tutti insieme a funghi. C’è anche quello che si è scopato la compagna dell’altro, per dire. Più volte. Ma in campo basta uno sguardo e sappiamo sempre cosa fare e come farlo, come tanti soldati che smettono all’improvviso di parlare e agiscono, all’arma bianca o di guerriglia, dipende da chi hai di fronte. Fratelli, più che compagni. Tante volte, anche se soffriamo l’atletismo altrui come maiali ai primi giorni di dicembre, riusciamo a tener testa con l’esperienza e con quello che chiamano “mestiere”. Fidatevi, gli avversari che di testa a prima vista ti sottovalutano non digeriscono il gioco “sporco”, tante volte provano a farlo, ma non sono capaci e sbagliano. Qualcuno cerca l’aiuto dell’arbitro a braccia aperte, niente da fare. Restano impantanati e non ne vengono più fuori, abituati a saper fare sempre la cosa giusta. Noi ne abbiamo passate tante su quel campo, in compagnia di un pallone ubriaco che a volte funziona meglio di un alcool-test. Ne abbiamo prese tante, di batoste, lasciando in pegno regolarmente legamenti e qualche molare ricambiati solo da qualche chilo di fango che alla prima doccia ci lascia completamente nudi. Botte da orbi, sia dentro che fuori dal rettangolo verde, queste. In testa, allo stomaco, alle spalle, anche nei coglioni a volte, senza pietà. Anche fuori di metafora. Ed in tutto questo abbiamo avuto la fortuna di trovare un maestro che non ce ne ha risparmiata una, il mister. Perché prima di essere un allenatore per noi è il padre severo, quello che ti bastona se la sera prima del match hai alzato troppo il gomito, quello che ti mette davanti alla vita, la vera maestra secondo lui, e ti dice “vai e placcala alle gambe”. Diffidate da chi vuole insegnarvi qualcosa che non ha vissuto, parla per sentito dire. Chi ha sulla propria pelle cicatrici e lividi ha tantissimo da insegnare, molto più di chi ti arriva lì e ti tira fuori schemi e lavagnette e parla di cose che, realisticamente, non servono a un cazzo. E’ inutile che parli tanto di “loop” o di “decoy runners”, perché magari la prima volta mi freghi coi tuoi uomini non impegnati nell’azione, ma la seconda ti prendo e quando ti rialzi fai la faccia del cucciolo di tigre in gabbia. Ma fatelo pure, ci inventeremo altri modi per farvi soffrire. Se il mister mi sentisse forse sarebbe anche orgoglioso di me, ma vedo che si alza e viene verso di me. Smetto di pensare.

Tu, fai quello che sai fare e fino in fondo. E non farmi venire un colpo come l’altra volta” Ecco, saluti e baci, sono segnato. Ve l’ho detto che il mister non è di tante parole. Lui non parla, scava buchi nelle persone. E si è segnato il drop che ho buttato dentro all’andata. In panchina hanno detto di non aver mai sentito una bestemmia più clamorosa di quella che ha pronunciato. Una bestemmia strike, di quella che di santi ne tira giù più di uno alla volta. Un calcio così, senza vantaggio, con due avversari addosso, di ignoranza pura. Perché se uno ha un minimo di cervello quella palla se la tiene stretta e va addosso ai due uomini che si trova davanti, un sostegno arriverà. Io no, ho staccato la spina e ho calciato, 50 metri. La potenza nelle gambe non mi è mai mancata, devo essere sincero. Traversa superiore, rimbalzo, dentro. Neanche se ci riprovo altre 10 volte mi viene così. Anche perché non sono il calciatore designato, sono solo uno di quelli che Jonny Wilkinson ha fulminato sulla via Damasco in una piovosa serata australiana di ottobre. E il fulmine, quella volta, ha deciso di scuotermi al momento giusto, proprio quando cercavo un pretesto per mollare qualcosa che si era appiccicata a me ma dalla quale volevo fuggire: il calcio.

Ebbene si, io ero un calciatore. Tuoni, fulmini e Frau Blücher avvistata nelle vicinanze.

D’altronde vent’anni fa, se volevi fare sport, non è che nei paesini ci fosse tanta scelta: calcio o pallavolo, se c’era la palestra. Basket qualche volta, ma se sei alto un metro e una cartolina dopo un po’ rinunci. E la pallavolo, anche se maschile, ti bollava sempre come “femminuccia”. Calcio allora, tutta la vita. Vuoi mettere andare al catechismo al sabato pomeriggio con la tuta e la borsa davanti alle altre ragazzine? Era una cosa che ti faceva sentire figo, quasi di un altro pianeta. Speravi che un giorno venissero a vedere le tue prodezze, che qualcuna magari ti facesse il filo. Poi però capitava sempre più spesso che ti sedevi in panchina, e anche di scoprire che le ragazzine di cui sopra non ti cagavano manco di striscio, per quanto tu provassi ad allenarti seriamente. Difensore centrale, quando mancava tanta gente. O centravanti, quando non volevano facessi troppi danni. Bello, no? Finché un giorno, a 19 anni, uno degli accompagnatori mi avvicinò con fare torvo:

Quest’anno ti vedo meno agli allenamenti, che combini?”

Eh, quest’anno ho cominciato l’università, ho i corsi fino a tardi, non riesco sempre.”

Palle! Quelli che vanno all’università sono senza coglioni! Tu sei senza coglioni! Ricordati che col calcio farai i soldi, con i libri no. E chi come te ste cose non le capisce è meglio che le capisca al volo!”.

Ah dimenticavo: la squadra era in Seconda Categoria, non so se mi spiego.

Capii al volo. Fu l’ultima volta che mi videro al campo. I miei amici compresero.

Altri meno, ma va bene così.

Cominciai ad andare a correre, un po’ per sfogarmi ogni tanto, un po’ per esorcizzare la cucina di mia madre, un po’ perché mi piaceva stare a tu per tu con me stesso, ogni tanto. Finché un giorno ricevetti la “chiamata”: sabato pomeriggio, nebbia, nessuna voglia di uscire. Zapping televisivo da vecchia zitella annoiata, poi stop. Schermo verde, c’è una partita. Ma non è calcio. Palla diversa, tanta gente in campo, azzurro e nero ovunque. Nazionale Italiana di qualsiasi sport? Nel dubbio lascio perdere il telecomando e guardo.

Rugby, mi sembra. L’unico ricordo che avevo di questo sport era una vecchia pubblicità di un furgone sponsorizzato dagli All Blacks, la nazionale neozelandese. C’era Jonah Lomu e il suo ciuffo solitario su una testa completamente glabra. Ricordi di ragazzino ignorante. Ma quelli che vedo in campo sembrano proprio loro. E il punteggio lo certifica, 59 a 3, mancano pochi minuti. E attaccano ancora, i neri, come se 56 punti di vantaggio non bastassero. Più agili, più veloci, più tutto. Solo che ad un certo punto perdono palla. Gli azzurri fanno due passaggi e uno di loro, criniera al vento, vola in meta spinto dal boato del pubblico. Capirai, 59-10! Nei giorni successivi, però, un tarlo cominciò a fare un bel lavoro nel mio cervello: come si poteva esultare in quel modo per una meta allo scadere quando sei sotto di cinquanta e passa punti? Una volta a calcio segnammo il gol della bandiera a 2 minuti dal termine, 9 a 1, ma nessuno esultava. Mah, si vede che nel rugby ci si accontenta di poco.

Ignorante che non sono altro.

Ma il dubbio si insinuò dentro di me, e fidatevi, è stata la mia fortuna.

Iniziai ad interessarmi a questo sport, guardavo le partite in tv, recuperavo video di vecchie partite su internet. Quello potevo fare, di squadre, nella mia zona, non ce n’erano. Finché non mi arrivò sotto gli occhi un video dal nome onomatopeico: “Wilkinson drop”. Boh, nel dubbio guardiamo. Era il drop vincente di Jonny Wilkinson nella finale dei Mondiali del 2003. Pioggia, manca pochissimo e gli inglesi vanno avanti a testate ai supplementari. 20 a 20, poi si inventa un calcio di rimbalzo.

Pazzo, pazzo! Sei un folle! Come fai a prenderti una responsabilità del genere?

La palla va dentro, l’Inghilterra è campione, robe da matti. E io vedo la luce, tipo Jake Blues.

Drop, drop. DROP.

La parola mi entra dentro. Cazzo, almeno una volta nella vita voglio provare a farne uno. A dirla tutta mi era già successo di calciare la palla di controbalzo quando giocavo a calcio, ma l’effetto non era quello voluto e puntuale ogni volta arrivava una scarica di improperi dall’allenatore che ve la raccomando. Credo più che altro perché toccava a lui recuperare quella palla, dall’altra parte della strada dietro il campo. Solo che stavolta è diverso: lì dovevo saper controllare un pallone che non deve andare troppo alto, qui serve una bella frustata.

Facile.

Ignorante che non sono altro, e due.

Presi in prestito il pallone da football di mio fratello, altro sportivo da divano, e andai al campetto. Obiettivo: calciare oltre la traversa. Il più alto possibile, come sapevo fare ai vecchi tempi della palla tonda.

Ne avessi preso uno, di rimbalzo. Sembravo uno degli ubriaconi del paese dopo una serata particolarmente impegnativa nei dintorni del bancone del bar. Rideva anche un mio amico venuto a farmi compagnia nei miei tentativi. Come dargli torto? Ma dopo una birra di consolazione decisi di andare oltre e di provarci per davvero. Quella era la strada che volevo, non sapevo se era la mia, ma ci volevo puntare.

E allora via: abbandono la casa e vado a vivere in città, università comoda. Campo da rugby comodo. Appartamento un po’ meno, ma ci si adatta a tutto. Non vi dico gli strilli di mia madre, convinta come ogni buona madre che si rispetti che il figlio se ne andasse in guerra, ma il dado ormai era tratto.

Ore 18, un martedì sera. Tremano un po’ le gambe, ma sono al campo. Sembro un bambino al primo giorno di scuola. Esperienza nuova, gente nuova, a parte Fulvio, pilone figlio e nipote di piloni nonché compagno di corso e degno compare di partite a scopone scientifico nelle aule vuote. E’ lui che mi ha introdotto qui, è lui che mi presenta al mister. Stretta di mano ferrea, poi guardo se le falangi sono ancora tutte al loro posto. Si parte, nessun discorso, nessuna parola, si corre. Poi ripetute, flessioni, addominali. Provo a starci dietro, consapevole che domattina l’acido lattico mi farà piangere.

Col tempo imparo l’arte del placcaggio, il trattamento del pallone, come entrare in ruck. La prima volta mi ci buttai a capofitto, risero tutti, a parte Andrea, tallonatore, che per un po’ ebbe dei dubbi sui miei gusti sessuali. Imparai il sostegno, e guai a voi se giocate a rugby e non sapete che cos’è. Meglio di qualsiasi caschetto, vi salva la vita.

Il drop no, non ebbi il coraggio di chiederlo al mister.

Sarebbe stato come andare per la prima volta a lezione di chitarra e chiedere di imparare subito l’assolo di “Innuendo”: a prescindere dalla difficoltà sarei stato marchiato a vita. Ma piano piano, fermandomi con qualche trequarti a scaldare il piede, ho preso possesso del gesto. Me la cavicchio, non sono sir Jonny Wilkinson, ma mi difendo.

Di strada ne ho fatta da allora, sono ufficialmente diventato un centro. Che non vuol dire stare al centro, almeno non solo. Vuol dire saper fare un po’ tutto, saper placcare, saper passare, saper calciare, saper sostenere. Il mister una volta ha definito i centri come terze linee col piede buono. Più o meno la definizione ci può stare. A me calza a pennello: io dovevo essere terza linea, poi il mister mi vide restituire al piede un pallone calciato per sbaglio dall’altra parte del campo.

Tu, vai coi trequarti e prova a calciare ancora”

Sicuro mister? Non è che sia sto granché”..” Nel dubbio però mi misi a correre, aveva tolto le mani dalle tasche. E un mister agitato è peggiore di qualsiasi avversario.

Adesso sono qui che provo a indossare questo numero 12 di cotone grezzo. Non è la prima volta, beninteso, ormai il campionato è finito. E’ la prima volta che lo faccio in aprile. Maglia old style, dicevano. Figata, dicevano. Sto sudando come un maiale e devo ancora lasciare lo spogliatoio. Ci aspettiamo un po’ tutti, poi si esce insieme quando l’arbitro chiama. Proviamo sempre a guadagnare quei due secondi in più, l’avversario si deve adeguare. E infatti usciamo che loro sono già fuori, tutti belli eleganti nel loro completo nero. E’ che li conosciamo già, altrimenti li avremmo scambiati per gli All Blacks: tutti vestiti di nero, magliette aderenti che fanno di tutto per non nascondere fisici armoniosi, qualche cerotto di quelli colorati di ultima generazione, giusto per far vissuto il più delle volte. Rispetto al match di andata hanno perso il 10 titolare, sostituito da un australiano fatto venire apposta dal suo Paese in cambio di un posto di lavoro e di un rimborso spese. Dicono sia molto più forte. Non male per una società che dicono fosse nata tra amici e certo, un po’ triste a questi livelli dove il divertimento e la goliardia dovrebbero stare davanti a tutto, almeno secondo il sottoscritto. Beh, poco male per noi: il loro vecchio 10 si è aggregato a noi e si è subito inserito nel gruppo. Un bravo ragazzo Andrea, davvero. Il mister se ne è subito innamorato; mai vista una apertura placcare con quella costanza e con quel coraggio. Un fabbro. Uno che piace a lui. Ecco, magari non è precisissimo al piede, ma a quel punto la responsabilità me la sono presa io, davanti a tutti: da calciatore per le lunghe distanze sono diventato piazzatore designato. E per non farci mancare niente abbiamo anche noi lo straniero, Amets, basco, studente Erasmus. Terza linea. Una faccia d’angelo che in campo sa usare a dovere la carta vetrata. Dice di aver già giocato con la selezione regionale nel suo Paese, non fatico a crederlo. Il Mister ha voluto conoscerlo meglio, un giorno. Fa così con tutte le sue terze linee, prima o poi. Osteria e via di rosso, a oltranza. Paga tutto lui.

Alla fine ha scoperto che la parola Amets in basco significa “Sogno”. Da allora lo chiama “Incubo”, perché uno così gli avversari se lo sognano di notte. E anche perché quella volta in osteria il conto fu parecchio salato, ma non ci sono conferme su questo. Il basco è un taciturno, se volete provare a chiederlo al mister.. Amets quella sera ha ufficialmente imparato la parola cancaro. Mi sa che quelli che idearono il Progetto Erasmus non intendessero questo con “scambio culturale”, ma a noi va bene così.

Usciamo dagli spogliatoi. Il nostro campo è un po’ come noi: vecchio, verde a sprazzi, leggermente più corto della media, ma sempre negli standard. Sa di antico, di fango, di sudore e di olio canforato, che non si usa più da anni ma che ogni tanto torna a fare un salutino da queste parti. O forse, come dice Antonio, seconda linea, è il mister che se ne mette un po’ in ricordo dei vecchi tempi andati. A vedere la partita ci saranno una ventina di persone tra cui Martina, un paio di ragazzini delle giovanili e due o tre matti del paese appena evasi dal bar dopo la punzonatura. Dicesi “punzonatura” il primo bicchiere di vino bianco della giornata, preferibilmente consumato prima delle 10 del mattino. Come nelle gare ciclistiche è obbligatorio iscriversi e ritirare il numero anche qui è d’obbligo “registrarsi” al mattino, altrimenti scatta la “malattia”, con annessa derisione e messa alla gogna. Pure Amets un giorno si presentò in facoltà dopo la “puncionatura”. Tenne botta per tutto il giorno, ma la sera marcò visita.

Gli altri spettatori sono genitori o morose degli avversari. Me li ricordo all’andata, sono perlopiù neofiti, urlano, inveiscono, contro avversari e arbitro. Ogni volta è un fotofinish tra compagne, madri e sorelle. Fanno schifo ma, purtroppo o per fortuna, fanno parte del gioco anche loro.

Si comincia. Calcia Andrea, recuperano loro il pallone, li andiamo a prendere nei 22. Liberano dopo una fase, 40 metri guadagnati. Giocano semplice, mi sa che hanno imparato la lezione dell’altra volta. Perdiamo il pallone in avanti, mischia per loro. Noto solo ora che non hanno i piloni titolari, seduti per il momento in panchina. Li arrotoliamo per bene, calcio. Ivan, oggi anche capitano, mi guarda e capisce. “Pali”. Linea dei 10 metri, centimetro più centimetro meno. Un po’ defilato sulla sinistra. Mi danno il sostegno di plastica, calcolo la rincorsa. Che tante volte in tv ho preso per il culo certi calciatori e i loro balletti prima del calcio, ma non è così facile. Tre passi indietro, uno a sinistra. Miro, sparo. Alta, bella, dentro. 3-0 per noi. Fischiano fuori dal campo, prima dopo e durante il mio calcio. D’altronde non siamo al Millennium Stadium di Cardiff. Non mi va di dare lezioni di sportività fuori dal campo, ma il più bel silenzio che puoi trovare è quello dentro di te. Quando ci arrivi resisti a tutto. E a tutti. I nostri avversari si scuotono. E ci colpiscono dove soffriamo di più, nel gioco rotto. Il loro 10 corre come un dannato, credo si chiami Patrick. Due mete in fotocopia: calciamo distante la palla, le loro ali e il loro estremo ci attaccano in velocità e creano la superiorità. 14 a 3 per loro, che sto Patrick è anche preciso al piede. Il mister è silente. Di sicuro sarà incazzato, ma sa benissimo che questo tipo di gioco lo subiamo parecchio. Non avendo giocatori estremamente veloci ha puntato su una linea di trequarti composta solamente da centri. Con il risultato che a difesa schierata siamo un muro, ma quando ci attaccano in velocità soffriamo. E di brutto. Ce ne fanno un’altra. Ci raduniamo sotto i pali.

Ragazzi che facciamo?”

Oh questi ci hanno studiato, muovono la palla”

Prende la parola Ivan, capitano:

Ragazzi, è giunta l’ora, comincia l’operazione Sagra”

Eh? Ma sei sicuro?”

Tu sei pazzo”

Il Mister che direbbe?”

Quali sono le alternative?”

Silenzio. Non ce ne sono.

L’operazione Sagra è una tattica studiata in allenamento per contrastare avversari più forti e più atletici. Consiste nel nascondere la palla all’avversario quando avanziamo e creare il caos in campo quando siamo costretti a liberarci della palla: up and under, pressione altissima, difesa che sale a ritmi vertiginosi. Il rischio maggiore è quello di finire le batterie prima del tempo, perché si spendono un sacco di energie. Altro rischio è quello di cedere forse troppo facilmente la palla all’avversario, ma la mischia che funziona ci permette di avere rifornimenti non da poco. Infine c’è l’arbitro, perché difendere così ci espone a falli e infrazioni. In poche parole proviamo a mettere su un bel casino in campo. Se loro ci cascano bene, ma poi dobbiamo sperare non si accorgano che siamo in riserva. In tutti gli altri casi si perde male. Ma siamo già sotto 21 a 3 e la sconfitta per noi oggi è già qualcosa di tangibile.

Tutti d’accordo?”

Si, facciamogli il culo!”

Ivan fa due gesti alla panchina. Il mister capisce e si alza di scatto dalla panchina. Temiamo per la nostra incolumità. Poi si siede e alza il pollice.

Ok giovani, ora sono cazzi vostri. Forse anche nostri, ma quello lo sappiamo già.

Ripartiamo e li prendiamo ancora nei loro 22. Il loro numero 8 prova la finta, ma trova Amets sulla sua strada. Placcaggio, rilascio, contestazione. Un libro stampato.

Tenuto a terra. Grandioso. Pali, da dentro i 22. Non posso sbagliare. Non sbaglio. 21 a 6.

Ripartono loro. Prende la palla Luca, numero 8. Rompe due placcaggi e va a terra. Serie di ripartenze vicine al raggruppamento, guadagniamo qualche metro. Fuori dai 22 Ivan serve Andrea, Andrea serve me.

Due avversari stanno montando, calcio con tutta la forza che ho e chiudo gli occhi. Non si fa, ma mettetevi voi al mio posto. La palla rimbalza in campo ed esce dopo la metà campo. Meglio di così non si può. Rimessa loro, la sporchiamo e mettiamo pressione. Il loro 9 calcia da dietro al raggruppamento, ma l’ala era già partita, calcio per noi.

Ivan, pali”

Guarda che sono 60 metri”

Fammi provare. Male che vada ripartono dai 22”

Ok. Arbitro, pali”

Il mister ha un altro scatto. Mi sa che non posso sbagliare nemmeno questo, altrimenti sono fottuto. Non sono 60 metri, ma sicuri più di 50, quasi sulla linea di touche. Dal mio lato buono. Uno, due, tre passi indietro. Uno di lato. Parto, la prendo bene. Dentro, al limite ma dentro, su le bandierine dei guardalinee. Pericolo scampato, per ora. Siamo a metà del primo tempo e forse siamo ancora in gara. Sotto di 12 punti ma con una mischia che gira alla grande e un piede, il mio, che al momento dice bene. E loro cominciano a capirlo. Non si divertono più. Mettiamo pressione al loro mediano di mischia, che sbaglia più di una volta, tagliamo i rifornimenti. Amets contesta tutto quel che può contestare, Andrea prende coraggio e spara anche un drop. Centra i pali. 21 a 12. Fate 15, vado di rimbalzo anch’io, su liberazione avversaria. Un colpo di mortaio.

Il mister? E chi ha il coraggio di guardarlo, il mister?

Loro non entrano più nella nostra metà campo. Ma quanto durerà? E quanto dureremo?

L’arbitro fischia. Ci incamminiamo verso lo spogliatoio, ma ci ferma Lorenzo.

Ragazzi, il mister vi vuole in panchina.”

Come?”

Si si, niente spogliatoio. Ha detto di dirvi che parlerà qui.”

Siamo spiazzati. Sono spiazzato. Non l’aveva mai fatto. E i gesti vistigli fare in panchina non promettevano granché bene. Forse era meglio ci spalasse addosso due badilate di concime in spogliatoio.

Sedetevi”

Tutti giù per terra. Nessuno fiata.

Continuate così, e non prendete punti nei primi 10 minuti. Andiamo”.

Punto. La messa è finita, andate in pace.

Cosa fate ancora seduti? Dai dai movimento, movimento!”

Cominciamo a corricchiare un po’. Mi avvicino a Lorenzo.

Oh ma, tu che eri in panchina, che ha detto prima?”

Prima quando?”

Nel primo tempo”

Niente di che”

Ma come niente di che? L’ho visto parecchio..agitato, diciamo”

Ma va, si stava pure divertendo”

Sicuro?”

Si si, vai tranquillo. Dai che rientrano”

Il Verona sta tornando in campo. Sembrano belli convinti come all’inizio. Ha ragione il mister, i primi 10 minuti sono fondamentali: chi segna taglia le gambe all’avversario, chi tiene in difesa vince la partita. Partono loro, il pallone scende in mano ad Andrea. Calcione lungo, ma che resta in campo. Chiamo io la linea e saliamo. Il loro estremo tenta la finta e la controfinta, ma ciccio mio non sei di certo Israel Folau. Bam, lo prendo e a terra. E perde il pallone indietro. Calcione, dove va va. L’ovale resta basso, rimbalza ed esce all’altezza della linea dei 10 metri avversari. Bel lavoro. Applaudono fuori dalla rete, ci sono anche fischi, ma vi ho già detto come la penso. Acqua fresca.

Touche per loro, vanno in fondo. Palla al mediano e subito fuori per l’australiano che serve all’interno. È una questione di decimi di secondo, ci bucano con l’ala. Provo ad appendermi, niente da fare, è andato. Corrono come razzi, sono in tre contro due, ma l’ala di cui sopra decide di non sfruttare il vantaggio numerico e prova da sola. Placcata all’ultimo. Recuperiamo in due o tre, siamo comunque pochi per una trincea. Il loro mediano prova ad estrarre la palla dal raggruppamento, uno dei nostri gli schiaffeggia le mani, l’arbitro tira fuori il braccio. Vantaggio. La giocano comunque, ma siamo rientrati in tanti e in qualche modo li arginiamo. L’arbitro fischia e torna sul vantaggio. Chiama Ivan e gli dice di che il prossimo fallo del genere sarà un giallo. Nel pieno dei 22 loro scelgono di calciare in touche. Antonio, seconda linea fa un cenno:

Raga, saltiamo”

Sei fuori? Siamo a 5 metri dalla nostra linea!”

Non abbiamo niente da perdere”

Tu sei matto da legare”

Primo blocco, venitemi dietro, o la va o la spacca”

Loro lanciano, Antonio salta e sporca il pallone. Il volo ubriaco ci favorisce, è nostra. Prendiamo tempo, un paio di fasi, guadagniamo 4 metri, restiamo nei 22. Ci contestano, ma l’arbitro vede un fallo loro e fischia. Ci è andata bene.

È vero comunque, Antonio è un pazzo. Ma in fondo, chi non lo è qua tra di noi? Ivan che chiama una difesa quasi masochistica dopo neanche 20 minuti? Amets, che si è scucito la testa in un placcaggio e gira con un turbante da 10 minuti nonostante sia a centinaia di chilometri da casa solo per studiare, ubriacarsi e scopare tutto lo scopabile? Il sottoscritto, che decide di andare per i pali da quasi 60 metri? Lo siamo tutti. Lo è anche il mister, che in panca dà spettacolo tra bestemmie mute e gesti inconsulti e ci lascia fare quel che abbiamo deciso tra una botta e l’altra. Nessuno escluso. Ma forse è questo che spaventa le altre squadre, è questo che comincia a spaventare anche i veronesi: non siamo veloci, non abbiamo una gran mischia e tatticamente lasciamo alquanto a desiderare. Potrai esserci superiore, crederti superiore, ma non saprai mai quello che faremo, né come lo faremo. Siamo matti da legare, siamo ordigni pronti ad esplodere, siamo gatti attaccati ai maroni. Sta a te starci lontano nel punteggio, altrimenti sono cazzi tuoi. E tre punticini forse era il caso di portarli a casa, se proprio volevi vincere la partita.

Touche, palla nostra. Antonio chiama lo schema “27 negroni, con ghiaccio”

Vogliamo approfondire dove sono stati studiati questi schemi? Meglio di no, va’.

Qualcuno dice che una mischia con la M maiuscola deve avere almeno 4 figli di buona donna su 8. Ecco, noi ne abbiamo 7. Antonio è l’ottavo, buono come il pane, solo che è il più grosso di tutti. Nel dubbio gli avversari non vanno da lui a discutere, sbagliando clamorosamente e venendo respinti il più delle volte con perdite. Palla in mezzo, secondo blocco. Saltano anche loro, ma Antonio allunga le manone e agguanta la palla. Fuori Ivan, poi Andrea che cerca il buco e lo trova. L’australiano non è tutta sta cosa in difesa. Seguo il mio 10. Fissa il secondo centro, io mi presento lì. Passala cazzo, dai che vado in mezzo ai pali. Tira dritto lui invece.

E ha ragione, meta. Contro i suoi ex compagni di squadra.

E con un gran numero, tra l’altro.

Con la trasformazione c’è anche il sorpasso, se non ho sbagliato i conti. Mi prendo il mio tempo, quei 50 metri a rotta di collo mi ha tagliato fiato e gambe. Questa partita mi sta lasciando il segno, e vedo che purtroppo sono in buona compagnia. Due sono per terra coi crampi, non conto nemmeno chi ha le mani ai fianchi. Amets sta perdendo lucidità, la botta in testa purtroppo lo tiene a bagnomaria. Lo stesso Andrea si è preso le “spese di viaggio” quando ha schiacciato a terra. La difesa Sagra sta facendo effetto. Su di noi, purtroppo. Ivan chiede all’arbitro quanto manca, non meno di trenta minuti dico io. Trenta dice l’arbitro. Mezz’ora a questo livello di pressione è un suicidio di massa, più che uno sforzo. Ma qual è l’alternativa?

Prendo tempo, è necessario per me e per gli altri. Non mi muovo. Sono davanti ai pali, una decina di metri, forse quindici, mai stato bravo a occhio, ma guai a partire, perché appena partirà la mia rincorsa loro partiranno e ne avrebbero di più, ne sono sicuro. È quasi un surplace ciclistico, una volata a due col gruppo lontano. Partono loro, l’arbitro li redarguisce e tornano. È il momento, vado io mentre indietreggiano. E centro i pali. Sorpasso, siamo sopra di uno. Ripartono loro, calciano corto. Vogliono recuperare la palla. Ci prendono alla sprovvista e con una sventagliata dei trequarti si aprono il campo. Arrivano nei nostri 22, ma siamo ancora abbastanza coperti. Il loro 9 si guarda intorno e fa partire più volte gli uomini di mischia, ma ho come l’impressione che anche loro siano stanchi, non guadagnano terreno. Mi arriva addosso il loro tallonatore come una furia, non so come ma lo prendo alto e lo ricaccio indietro. Poi è Andrea ad essere puntato da una loro terza linea, ma lo placca alle gambe e non lo fa avanzare. Non è più un gioco di squadra, o almeno non è più solo così. È una guerra di trincea mica da ridere, nella quale ognuno deve immolarsi. Persino Ivan, uno che i placcaggi li ha quasi sempre fatti per finta, sta picchiando come un metalmeccanico incattivito dalle bizze della suocera. Loro non avanzano, ma noi non riusciamo a rubar palla. Sudore, fiatoni che si ammazzano l’un l’altro, bestemmie e rantoli appena il placcaggio trancia qualche sogno di gloria. Finché il Fede, il mio secondo centro, ha una visione. “Droooooop” urla. Cazzo, il loro 10 è dietro, pronto a ricevere la palla. Ce l’hanno nascosto finora, ma dalla posizione del corpo mi sa che un paio di fasi ancora voleva farsele prima di colpire. Il loro 9 apre, il passaggio non è teso ma arriva a destinazione. Patrick, la loro apertura, lascia rimbalzare la palla. La gamba è inarcata, il gesto, dopo un’ora, non può più essere armonico, ma credo gli bastino i tre punti, a nessuno ora serve un trattato di neoclassicismo. Spara.

No.

Non spara, cade a terra fulminato.

Amets ha colpito e nessuno se ne era accorto.

In avanti, mischia per noi. Quel delinquente di un basco l’ha preso in pieno mentre rilasciava la palla, facendolo volare. Un tempismo e una forza nel gesto inaudite, a questi livelli e a questo punto del match. Soprattutto perché da almeno 5 minuti il nostro stava girando come un fantasma su e giù per il campo.

Bravo Amess”

Bravo bocia”

Passa al bar dopo a partia”

Si sono svegliati anche i suoi nuovi amici del bar.

Fallo, dategli il rosso diretto” grida uno dei tifosi ospiti.

El rosso ghe o demo a fine partia”. Gioco, set, incontro, a mio avviso.

Lui invece crolla a terra, distrutto. È stato enorme, ma ha finito le batterie.

Chiamiamo il cambio al mister, lui aveva già capito al volo, Ludo ha già finito il riscaldamento. Prendiamo un po’ di tempo. Amets è cosciente, respira, ma è sfinito. Non è che noi siamo messi meglio, eh, ma all’avversario non puoi far vedere di essere distrutto. Poi uno di loro prende e tira un calcione al nostro giocatore. Così, dal nulla. Questo non è più rugby, è violenza gratuita. E sfiniti o no decidiamo di reagire. Decidiamo, non è che prendi una decisione. Parti e basta. Non è una cosa giusta, né degna di onore, ma essere una squadra significa anche reagire quando uno dei tuoi è vittima di un sopruso. E questo, per me, vale nel rugby e nella vita, allo stesso livello. Ne prende tante, il loro 6. Si scatena un rissone da far West, e hai voglia a fischiare, mio caro arbitro. Il loro capitano prova a dissuaderci a parole, altri provano con le maniere forti.

Lui li calma.

Ragazzi, chiedo scusa io a nome di tutti. Ma continuiamo a giocare”

Sta bene, faccio lo stesso anch’io”, dice Ivan. Si torna tranquilli

L’arbitro fischia, chiama lì i capitani. Poi il loro 6 e Amets.

Signori spero che tutto questo non accada più, né interventi del genere a gioco fermo né le risse da quartiere. Stiamo giocando a rugby. Era mischia rossa per in avanti nero, diventa punizione rossa. 6 nero, non ho scelta”. E sventola il cartellino rosso. Se ne va sconsolato, ha capito di aver fatto una cazzata. Esce dal campo e si dirige verso la nostra panchina. Poi tende la mano ad Amets, che nel frattempo era stato portato fuori. Lui replica. Il mister, silente, approva. Pace fatta, e forse è questo il bello del nostro sport. Si riprende a giocare, sempre sopra di uno. Calcio in touche, andiamo nella loro metà campo.

Mojito Nardini alto 2 mezzo”. Palla sul primo blocco, per gli astemi. Giusto, nascondiamo la palla. Antonio prende palla, via con la maul.

Raggruppamento in piedi, possibilmente avanzante. E avanziamo.

L’arbitro tira fuori il braccio, vantaggio nostro. Ivan tira fuori la palla e si prende il calcio, poi la da a me. “Pali”. Sono distrutto, quasi ci vedo doppio, ma non posso sottrarmi. Rincorsa, calcio, palo, poi dentro. Bruttissimo, ma vale lo stesso tre punti. Siamo a più 4. Non è finita, ma ho come la sensazione che la salita dura sia terminata. Gli avversari sono in 14 ora, guai a sottovalutarli, ma sono stanchi. E nervosi, tanto nervosi. La loro apertura dispensa “fuck” a destra e a manca ad ogni errore manuale o al piede. Sbagliano cose elementari, hanno reazioni oltre misura. Ogni volta che provano ad attaccarci si infrangono sulla nostra difesa. Poi si guardano, non sanno più cosa fare. Eppure anche noi siamo sfiniti. Vuoi vedere che quella tattica suicida ha fatto veramente effetto? Il mister fa due o tre cambi, anche gli ospiti fanno le loro sostituzioni, ma gli equilibri in campo non cambiano. Anzi, in mischia li buttiamo ancora più indietro, e dire che i loro neoentrati nel ruolo sarebbero i titolari designati. La verità, cosa che non ci aspettavamo, è che pensavano di averla già vinta e hanno sottovalutato il nostro ritorno, i nostri calci, i miei calci, la pressione. Quando si sono accorti che non riuscivano più a far nulla si sono innervositi, hanno perso smalto, che non è propriamente merce che recuperi subito. Avanti nostro, intanto, visto che nemmeno noi siamo più delle rose, mischia per loro. Mancano 10 minuti. Tirano fuori a stento la palla, il loro 9 ha già due dei nostri alle calcagna ma riesce lo stesso a servire l’australiano, che calcia via. Alla disperata. La palla la prende il Fede, che riparte e va a sbattere. Se non trovate più il martello e dovete fissare dei chiodi vi presto il Fede e la sua fronte, effetto assicurato. Raggruppamento, Ivan tira fuori la palla all’altezza, Andrea risponde e va addosso, io in sostegno. Restiamo in piedi e li mandiamo indietro, poi a terra. Poi due terze linee, poi il tallonatore, usiamo i chili e nascondiamo la palla. Loro provano a giocare con le mani a terra, l’arbitro vede, vantaggio. Giochiamola ,dai. Ivan fa un calcetto per se stesso e la prende, altro raggruppamento, siamo nei 22. Andrea prende palla e serve il sottoscritto all’apertura, un suonatore di grancassa che dirige l’orchestra. Tiro dritto, nessuna finta, nessun fronzolo, non sono capace, guadagno due metri. Loro non contestano. Ivan prova ancora da solo, viene fermato e portato in questura da due avanti. E proviamo ancora con gli uomini di mischia. Non cedono. Guardo Ivan, Ivan guarda me. Ha capito. Retrocedo di due-tre passi, il passaggio è teso. La prendo.

Chi non gioca a calcio non ha palle!”

Lascio ricadere.

Cosa te ne vai di casa a fare? Non stai bene qua con i tuoi genitori?”

Colpisco.

Cancari, i me cancari!”

Dentro. 28 a 21, sbatto il pugno in aria, è finita. Mancano 5 minuti, ma sento che è finita.

Lo sa anche il mister che continua a urlare “Cancari, cancari!” a tutti.

Lo sanno anche gli avversari, che al momento sembrano tanti pugili suonati.

Lo sanno anche fuori. Uno ha recuperato addirittura una sirena a manovella, di quelle che lanciavano l’allarme durante la guerra, e la sta facendo andare a tutto spiano.

Non accade più nulla, siamo tutti distrutti. Quando l’arbitro fischia non sono in tanti dei nostri ad esultare. Non è che non vogliamo, non ci riusciamo proprio. Giusto i panchinari. E il mister. Sembra un ragazzino, non pare nemmeno più lui. O forse si, ma il lui di 20 anni fa, quello che quando si metteva in moto faceva venire gli incubi a chi si metteva sulla sua strada. Mi abbraccia e mi sembra che quasi quasi sia commosso. Ma forse è solo una perdita. Di sicuro non gli chiederò mai lumi su questo.

Bocia, quante mete hanno fatto loro?”

Tre, mi sembra”

E quattro all’andata fa sette, giusto?”

Si Mister”

Te voio ben bocia!”

La stagione è finita, andate in pace.

 

Numero 12”, lavata e stirata. E rammendata, che il numero si era un po’ rovinato. Capirai, dopo una stagione del genere. Maglia da ridare al mister. Le tiene tutte lui, è un simbolo. E bisogna andare a casa sua a riportargliele, che lui vuole parlarci singolarmente. Parcheggio vicino alla sua Punto, dall’altra parte del pino che delimita i posti macchina. Busso, è lui ad aprirmi. Torvo, ma vabbè, c’ho fatto il callo.

Cosa bevi? Vino, birra o grappa?” Analcolici credo non sia il caso di chiederli.

Birra, ma poca che devo guidare”

Sta ben. Bravo toso”

Ciao amore!” Una voce arriva dalle scale.

Ebbene si, è Martina.

La mia Martina. Ci frequentiamo. Da poco, ma ci vogliamo bene. È vero: è decisa, silenziosa e testarda, ma con un cuore che ha solo bisogno di essere scoperto. E anche stavolta sono stato fortunato”

Come amore?” Ahia. Doveva dirlo lei al padre, mi sa che non l’ha fatto.

Eh si papà, usciamo insieme, non te l’avevo detto. Sei pronto?”

Lui si gira verso di me.

Adesso mi placca e mi mette nel baule della macchina.

Niente birra per te, devi guidare” Sta bene. Benissimo. Non bevo più. Poi mi prende da parte, approfittando dell’ultimo passaggio della bimba davanti allo specchio. “Ma spiegami una roba”. Ahia. Anche i baffi sembrano in grado di schiaffeggiarmi, in qualsiasi momento.

Spiegami. Come hai fatto? Non ti ho mai visto insieme a lei. E io la controllo spesso. Pensavo fossi anche un poco recion, a dirla tutta”.

Non so perché, ma mi gioco la carta-ignoranza. Non chiedetemi perché, questo tipo di cose non si spiegano.

Eh mister, che le devo dire.. ecco, è come nel rugby. Tre punti alla volta, pressione, pazienza.”

Mi guarda male. Tanto male.

Cazzo, mi sa che non dovevo.

Poi esplode a ridere.

Mi arriva una manata sulla schiena.

Sei forte. Com’è che ti chiami?”

Edoardo, mister”

Edoardo, te si proprio un càncaro. Portala a casa sana e salva, sennò ghe penso mi.”

Ah, e dammi il numero di Incubo, che mi ha detto che da lui ghe xe bone ombre e una volta ndemo trovarlo”

Mi sa che è la sua benedizione.

Un’ultima stagione da càncari

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