Brock fa le valigie

“Ragazzo, sarò franco. Sei il quinto mediano nella mia gerarchia, stando così le cose vedrai la tribuna anche nei test di metà settimana. Vedi tu cosa fare”.

John Mitchell ha un discreto curriculum da giocatore e allenatore, c’è poco da dire. È uno dei soli tre giocatori ad aver giocato, capitanato e allenato gli All Blacks nell’arco di una sola vita. Ha una cultura sportiva e ovale enorme, si è a lungo ispirato a Phil Jackson, coach NBA che ha vinto qualcosina nella sua carriera e che ha lasciato qualche massima di un certo spessore. Solo che, chi ha avuto a che fare con Mitchell, si è reso conto di aver a che fare con almeno due persone racchiuse nello stesso corpo: una brillante, avanti di anni dal punto di vista della gestione di una squadra, coraggiosa, l’altra più complessa, introversa, molto meno comprensibile dal lato umano. La prima è quella che ha portato a testare il livello di alcool nel sangue dei suoi giocatori. Per carità, è il primo a bersi due birre al pub, ma in campo si va sobri e in forma. L’altra è quella che ha tagliato fuori dagli All Blacks gente come Taine Randell, Scott Robertson, Jeff Wilson e soprattutto Chris Cullen senza nemmeno la cortesia di una chiamata. Quella che lascerà in panca un certo Dan Carter quando i suoi All Blacks avranno estremo bisogno di uno che la buttasse dentro con buona frequenza.

E quella che presenta al ragazzo la cruda verità proprio quando tutto sembrava andar meglio.

Perché il ragazzo in questione è uno che si è fatto tutta la trafila delle nazionali australiane, è arrivato ad un passo dal titolo mondiale under 21, ha conquistato la convocazione per la Nazionale Seven, ma che sul più bello ha dovuto patire ripetutamente problemi all’inguine. Nel 2005 era nella rosa dei Reds, ma non riesce quasi mai a scendere in campo. E, a fine stagione, lo staff gli dice che per la stagione 2006 hanno già scelto un ragazzino che sta facendo il fenomeno al piano di sotto, tale Berrick Barnes. Per lui, al massimo, in programma ci sarebbe una bella dose di panchina. Arriva quindi ai Force, franchigia appena nata e alle prese con le difficoltà di chi debutta in un torneo in cui gravitano squadre più scafate. Si perde spesso, manca amalgama, tanti ragazzi sono alla prima esperienza a questo livello. Giornata dopo giornata le prestazioni migliorano, fino a che i Force si prendono la soddisfazione di costringere al pareggio i Crusaders futuri campioni. Il ragazzo segna la seconda meta appena un minuto dopo il suo ingresso in campo e finalmente può sorridere.

Peccato che, due giorni più tardi, i Force annuncino l’acquisto di Matt Giteau per la stagione 2007.

E allora Mitchell, che di quei Force è l’allenatore, parla chiaramente al giovane.

Ecco, col senno di poi siamo bravi tutti. Saremmo tutti in grado di vincere una Coppa del Mondo allenando la Namibia. E, a ben guardare le possibilità in mediana di quella squadra, quel ragazzo non l’avremmo messo al quinto posto. Certo, in un florido vivaio di talenti in grado di giocare ad alto livello almeno in due ruoli nevralgici, ecco, un mediano di apertura puro parte svantaggiato. Ma non certo dietro a James Hingeldorf, visto anche a Viadana e ben presto tornato al rugby domestico australiano. Non dietro a Lachlan McKay, un cap con l’Australia, anche lui fuori dai radar dell’alto livello dopo il 2008. Almeno alla pari con Ryan Cross, gran giocatore anche nel league. Forse solo Matt Giteau lo avrebbe sopravanzato, dopo anni di panchina alle sue spalle nelle giovanili.

Nel 2006, però, a fare le valigie è Brock James, venticinquenne di Victoria. È una di quelle storie destinate a passare per un mare di delusioni, prima di emergere in un cielo di successi. Non andrà altrettanto bene ai Force, che arriveranno sì settimi nel 2007, ma poi si inabisseranno tra stagioni anonime e un John Mitchell incapace di tenere insieme lo spogliatoio.

A luglio del 2006, però, Brock non ha una squadra. Nell’emisfero sud è difficile, nel pieno dell’inverno australe, trovare rose di livello ancora in via di allestimento. Taranaki se lo riprenderebbe anche subito, dopo la buona vena del 2004. Ma non ci sono possibilità di salire al piano di sopra, la NZRU ha posto il veto sui giocatori non neozelandesi nelle franchigie. Non è facile: la scelta è tra una stagione senza contratto e una carriera fuori dai grandi palcoscenici.

L’empasse si sblocca quando si fa vivo Vern Cotter. Cotter ha appena lasciato i Crusaders, dove allenava la mischia, per accasarsi a Clermont, in Francia. Clermont ha una buona squadra, ma è a corto di mediani di apertura dopo il ritorno a casa di Stephen Jones, desideroso di giocarsi a Llanelli le sue chance di convocazione per la Coppa del Mondo dell’anno successivo. L’allenatore neozelandese aveva già pensato di portare con sé Cameron McIntyre, back-up di Dan Carter proprio ai Crusaders desideroso di trovare un po’ di minutaggio tutto per sé, ma Castres fa un’offerta migliore e se lo porta a casa.

No, non si può fare una stagione con un solo numero 10 di spessore internazionale, ossia il figiano Seremaia Bai. E allora James viene ingaggiato praticamente seduta stante.

Gli scetticismi durano il tempo di un paio di partite, poi in tribuna si comincia a darsi di gomito. No, un numero 10 del genere in Australia non poteva interessare. Uno così, a fare i conti con un secondo playmaker con la voce grossa, sarebbe stato veramente sprecato. Brock James, nonostante i problemi di orientamento che possono avere gli australiani che rimangono troppo distante da una spiaggia per troppo tempo, è un mediano di apertura che sembra fatto apposta per il gioco dell’emisfero nord. Meglio, sembra fatto apposta per un certo tipo di rugby francese: vario, divertente, scanzonato. Non sai mai cosa possa partire da quella centralina. Ha un piede che è come la mano di Mario Brega, po esse fero e po esse piuma. Può mandare nel panico qualsiasi triangolo allargato con lunghi calci tattici, può gettare nello sconforto seconde linee di difesa troppo arretrate con calcetti a scavalcare.

Non parliamo dei pali.

Può correre, può depositare passaggi che sembrano endecasillabi.

Ecco, magari non è un drago in difesa, ma con il panico che semina in attacco uno così non può non giocare.

Uno così fa vincere le partite.

Anche perché per le prime tre stagioni a Clermont è il capocannoniere del Top14, cosa non semplicissima se in Francia in quegli anni gravitano sir Jonny Wilkinson e Robocop, alias Roman Teulet, il giocatore più prolifico di sempre nella storia del campionato francese. E fa il diavolo a quattro pure in Challenge Cup, dove trascina i suoi al titolo segnando dodici punti in finale.

Uno così le partite le fa vincere.

Ecco, non proprio tutte.

Perché Clermont, tra la prima e la seconda decade del ventunesimo secolo, si dimostra squadra col braccino: tanto brava e splendida in stagione quanto maldestra e pasticciona nelle fasi finali. Vinceranno il primo titolo nel 2010, dopo dieci finali perse. Il finale di stagione di Brock, però, non è dei migliori: dopo un girone eliminatorio da leader, è il principale responsabile della sconfitta ai quarti di Heineken Cup contro il Leinster, in quella che forse è la sua peggiore prestazione di sempre sul suolo europeo: manca quattro calci di punizione, tre drop e una trasformazione, per un totale di ventitré punti, in una partita dominata dai Les Jeunards a Dublino. Brock perde la lucidità negli ultimi minuti, sbaglia calci che non butterebbe fuori nemmeno da bendato, sta di fatto che da lì a fine stagione la responsabilità dei calci se la prenderà Morgan Parra. Si prenderà una discreta rivincita nella semifinale del campionato francese, segnando nei supplementari contro Tolone un drop da 60 metri che scaverà il solco definitivo.

Rimane a Clermont fino al 2016, poi si trasferisce a La Rochelle. Chi l’ha visto a Treviso, in occasione di un incontro di Challenge Cup, racconta di un campione che per forza di cose non poteva più avere le gambe dei bei giorni, ma che quel pallone lo metteva sempre e solo dove voleva lui. Passerà pure per Bordeaux, poi tornerà sull’Atlantico a vestire il giallo nero, fortemente voluto dal nuovo coach, Ronan O’Gara, uno che qualche partita da numero 10 l’ha giocata, in carriera.

Non è sempre il primo mediano nella gerarchia dell’irlandese, se la batte alla pari col neozelandese Ihahia West e con Jules Plisson, talento francese che forse ha già dilapidato le sue fiches internazionali.

A fine stagione, molto probabilmente, farà di nuovo le valigie.

Non si sa dove andrà, né se giocherà ancora a rugby.

In qualsiasi posto decidesse di andare, comunque, emergerà in un cielo di successi.

Speriamo senza passare prima per altri mari di delusioni, infortuni o allenatori in alcune circostanze forse troppo frettolosi.

Noi, col senno del poi, vinceremmo i Mondiali con la Namibia.

In cabina di regia, per un Brock James, ci sarà sempre posto.

Non sappiamo se in panchina metteremmo mai John Mitchell.

Spiace, è la cruda verità.

Brock fa le valigie

Grandi domani

McGeechan ha lo sguardo disperatamente puntuale del britannico fuori dalla zona di comfort: vorrebbe tanto essere altrove, tra le sue viscere sta divampando una fornace di maledizioni, ma i lineamenti del viso, al di là di qualche ruga dovuta alla spossatezza, non traspaiono granché.

Gli chiedono come sia possibile che esista una così grande differenza tra i titolari e le riserve della sua selezione, lui risponde “I can’t”, non ce la fa.

La verità, anni dopo, la possiamo toccare con mano. Basterebbe sfogliare qualche pagina di storia del rugby per capire che lì al Rugby Park i suoi Lions non hanno giocato contro dei signori nessuno. Che i ragazzi di Waikato erano qualcosa di più delle mere statistiche che li avevano accompagnati nei taccuini britannici. E che – soprattutto – non bisogna mai sottovalutare un test infrasettimanale in un tour lungo e accidentato nella terra in cui il rugby è diventato un altro sport.

Solo che, nel 1993, quei ragazzi in rosso, giallo e nero, altro non sono che una tappa di avvicinamento all’incontro più difficile e importante, la “bella” contro gli All Blacks. Gavin Hastings e i suoi avevano perso di poco il primo incontro e vinto più nettamente il secondo, di lì a pochi giorni, in quel di Auckland, si sarebbe disputato l’incontro che suggella una carriera.

E allora, in quel di Hamilton, ci va la seconda squadra.

La squadra di solito utilizzata per gli incontri infrasettimanali, quelli con le rappresentative.

A guardare i nomi, a livello europeo è dura far di meglio: McGeechan schiera prima e seconda linea scozzese, Will Carling ai centri, Stuart Barnes all’apertura. Certo, i migliori sono a riposo, ma si sorpassano abbondantemente i 200 caps, ottenuti in tempi in cui gli incontri erano molto più rarefatti rispetto a quello  cui siamo abituati oggi.

Dall’altra parte, invece, i caps sono solo cinque. Tre li inanella Matthew Cooper, estremo o centro. Solido in difesa, non un cecchino al piede. Sarà in campo il giorno in cui i francesi decisero di regalare all’Eden Park di Auckland un ultimo giorno di mortalità, poi quasi entrerà nella storia, sfiorando la qualificazione mondiale con la maglia della Croazia. Gli altri due, uno a testa, appartengono a Brent Anderson, trentatreenne seconda linea, e a Graham Purvis, pilone destro.

Cinque caps.

Strano, se consideriamo che qualche mese prima hanno sbaragliato la concorrenza in NPC.

Più di qualcuno, però, ha preso parte a qualche tour.

Altri si sono ritrovati una bella colonna davanti.

Più di qualche altro ha deciso di rimanere, nonostante in Europa le offerte non fossero propriamente poche.

Si dice, però, che parecchi di quelli di Waikato abbiano materia grigia da vendere.

L’apertura, dicono, e pure il numero 8.

Quello esagerato, però, se chiedete a Hamilton e dintorni, è il tallonatore.

Lo chiamano Sumo, il ché vi dovrebbe dire molto sulla sua mobilità fisica. Ma a livello di concentrazione, di capacità di entrare nel match e di analisi di avversari e compagni è argenteo.

Non sbaglia un colpo, nemmeno fuori dalla mischia.

Non di rado, infatti, va dai suoi trequarti con una nuova giocata per loro.

La giocata, il più delle volte, finisce nel taccuino.

Al Rugby Park il pubblico è parecchio caldo, ma i Lions non hanno nemmeno il tempo di rendersi conto di quel potentissimo sedicesimo uomo. Quarantanove secondi e Wilson ha già schiacciato in bandierina.

No, non finisce qui.

Per ottanta minuti gli uomini di McGeechan sembrano il pugile che non riesce ad uscire dall’angolo. Ma non è che non abbiano le forze, non hanno proprio il tempo di levarsi dalle corde. I ragazzi di Waikato sono furenti e furiosi, in mischia quel tallonatore non fa vedere l’ovale ai cinque scozzesi che gli si parano davanti, al resto ci pensano gli altri: Duane Monkley, per esempio, numero 7. È un moto perpetuo, non dà tregua a nessuno dei suoi avversari. Segna due mete una più bella dell’altra, la seconda dopo una lunga sgroppata del numero 8, quelli vestiti di rosso non lo prendono mai.

E poi, dietro, quell’apertura non sbaglia un colpo.

Dicono che nella linea dinastica alla Corona, cioè alla maglia numero 10 nera, sia il quinto. Forse il sesto. Solo che ti viene da pensare che un paio di quelli che lo precedono vengano da Marte, perché altrimenti non si spiega.

Il primo tempo si chiude sul 26 a 3, ma il risultato potrebbe essere anche più rotondo. Cooper non ha una gran giornata al piede, per esempio. E, dall’altra parte del campo, qualche sacrificio riesce a rendere meno disumana la tariffa.

Nella ripresa il copione non cambia: i Lions subiscono, Waikato potrebbe dilagare ma pecca di generosità. Segnano Collins, meraviglioso secondo centro che giocherà con i Maori All Blacks, e il tallonatore di cui sopra. Lo vedi, ha un ventre sfrontato, il passo macilento di chi è costretto a fare jogging la domenica mattina, ma nessuno lo riesce a placcare. Anche perché, per l’ennesima volta, si è presentato all’appuntamento con l’ovale come nemmeno il Filippo Inzaghi dei bei tempi d’oro.

Per i Lions segnerà Will Carling, capitano di giornata, a fischio finale ormai imminente.

McGeechan, a fine partita, ha lo sguardo disperatamente puntuale del britannico fuori dalla zona di comfort: vorrebbe tanto essere altrove, tra le sue viscere sta divampando una fornace di maledizioni, ma i lineamenti del viso, al di là di qualche ruga dovuta alla spossatezza, non traspaiono granché.

“I can’t”, non posso spiegare che è successo la dentro.

Difficile eh, se si è nel 1993 e se quegli avversari, così dannatamente irraggiungibili nel rettangolo verde, non sono stati visionati granché nei mesi precedenti.

D’altronde una squadra così, con solamente tre giocatori che hanno visto la felce argentata vicino al loro cuore e nemmeno così tante volte, mica sembrava così pericolosa.

La verità, anni dopo, la possiamo toccare con mano. Basterebbe sfogliare qualche pagina di storia del rugby per capire che lì al Rugby Park i suoi Lions non hanno giocato contro dei signori nessuno. O meglio, che quegli avversari così imprendibili, prima nel concetto e poi sul campo, mica erano destinati a rimanere dei buoni giocatori.

Duane Monkley, per esempio, qualche anno dopo, è diventato un apprezzato allenatore.

Di ottimo livello eh, ma nemmeno il migliore di quelli scesi in campo quel giorno.

Prendete quel tallonatore, per esempio.

Sumo, esatto.

Quello che inventava le giocate dei suoi trequarti pur rimanendo ancorato ad una mischia.

Anche lui diventerà un allenatore di una certa rilevanza, se è vero che ventiquattro anni dopo, dopo un lungo viaggio a cavallo delle migliori panchine europee, i Lions in Nuova Zelanda li guiderà lui. Si chiama Warren Gatland, nel suo ufficio privato ha ancora una sedia gialla, rossa e nera.

Oppure quel numero 8. Due gambe chilometriche, un’eleganza da destriero, un rilascio della palla soffice come una nuvola. Sei anni più tardi, non ancora quarantenne, riceverà una chiamata di quelle che lasciano il segno, visto che all’anagrafe il ragazzo è registrato come John Eric Paul Mitchell e avrà il coraggio di mettere assieme la più grossa quantità di talento offensivo e di sfrontatezza mai visti a queste latitudini.

Oppure quel mediano d’apertura.

Un numero 10 straordinario per leadership, senso dell’ordine e inventiva.

Spaventosamente sottovalutato in patria, considerato uno dei tanti da troppi allenatori e avversari, McGeechan in primis.

Per fortuna qualcuno laggiù, in quell’isola chiamata Nuova Zelanda, non si è fatto scappare Ian Foster troppo a lungo.

Uno di quelli che hanno sgomitato a lungo, imprigionato in una carriera normale.

Come Warren, come John.

Sapendo che, forse, un domani, sarebbero diventati dei giganti.

A Waikato sì, che se ne intendono.

Grandi domani

I rimpianti del giovane Cullen

“Sì, ho più di un rimpianto con gli All Blacks”.

Non la possono dire in tanti, una frase del genere. Giusto poco più di un migliaio di persone. Giusto quelli che, almeno una volta nella vita, hanno indossato una maglia nera con la felce argentata all’altezza del cuore. E viene facile pensare che, a dire queste parole, sia qualcuno da ricercare tra i giocatori con uno, due, al massimo quattro/cinque caps, di quelli durati lo spazio di un tour europeo o di un Tri Nations. Meno di una generazione.

Nossignori, siete tutti in errore.

Perché chi si confida così davanti ad un giornalista è qualcuno che ha collezionato 58 caps, ha partecipato ad una Coppa del Mondo e ha segnato 46 mete. Perché chi si confida così si è meritato in carriera il soprannome di Paekakariki Express, l’Espresso di Paekakariki, paese al nord di Wellington. Perché chi si confida così si chiama Christian Cullen ed ha tutto il diritto di avere i suoi rimpianti ovali.

Perché se fin da piccolo sei un predestinato è normale che le aspirazioni siano alte, se non altissime. Pure il DNA è buono, visto che è pronipote di Brian Steele, già All Blacks negli anni ’50. Il ragazzo, però, secondo gli addetti ai lavori sembra avere molte più frecce al suo arco: viene convocato nella selezione scolastica nel 1993, nei Colts (la Nazionale under 21) nel 1994, in quella a sette nel 1995.

Se considerate che il ragazzo è nato nel 1976, beh, due o tre risorse dalla sua le deve avere.

Innanzitutto una velocità di base che non si è sempre vista, arricchita da una capacità di accelerare e decelerare nello stretto degna delle migliori scatole del cambio del circo della Formula Uno. A questo aggiungete una larvata capacità di leggere le intenzioni dei compagni di squadra e di intuire l’angolo più favorevole per andare oltre la difesa. Dulcis in fundo, una devastante cattiveria agonistica negli ultimi 10 metri . Se l’ovale finisce in mano sua in quella zona di campo è meta, oppure bisogna pregare fortissimo.

Ma le preghiere, se non si considerano quelle recitate sottoforma di placcaggi, funzionano poco.

Gioca ala o preferibilmente estremo, ruolo in cui riesce ad essere molto più imprevedibile e libero di cogliere impreparati gli avversari, ma in realtà la cosa non conta: non è questione di essere forte in entrambi i ruoli, è questione di essere fortissimo in entrambi i ruoli.

Con la Nazionale Seven segna diciotto mete a Hong  Kong, alle quali aggiunge più di venti trasformazioni. Finisce nel taccuino di molti osservatori, ma il ragazzo non vorrebbe spostarsi di troppi chilometri da casa. E allora, quando si fa avanti qualcuno di Wellington, non ci sono scuse.

Nel 1996 firma per gli Hurricanes e diventa di fatto un giocatore professionista. Debutterà, di lì a pochi giorni, nel primo match in assoluto del neonato Super Rugby. Il livello è altissimo, c’è il meglio del rugby dell’emisfero sud, ma Christian segna sette mete nei nove incontri in cui appare a referto. Eh no, il ragazzo non soffre i primi passi nei salotti ovali che contano. E lo dimostrerà pure qualche mese più tardi, quando a farlo debuttare saranno gli All Blacks: tre mete all’esordio contro Samoa, quattro contro la Scozia. Poi però si infortuna al ginocchio e deve saltare la seconda parte della stagione.

Eh, non facile ritornare come prima, dopo essersi sbranati un ginocchio.

Certo, ditelo agli avversari: nel 1997 segna undici mete in dieci incontri con gli Hurricanes e dodici in dodici presenze con gli All Blacks. È praticamente inarrestabile, devastante in campo aperto, è uno dei pochi a prendere per mano una nazionale, quella neozelandese, che nel 1998 vive uno dei periodi più grigi della sua storia, facendo registrare cinque sconfitte consecutive. E si candida ad essere uno degli osservati speciali tra gli All Blacks in vista della Coppa del Mondo del 1999.

Ora rileggetevi la frase tra virgolette qua sopra.

Dite la verità, morite dalla voglia di mandarlo a quel paese.

Di rinfacciargli che una carriera del genere non è da rimpiangere, semmai da raccontare ai nipoti.

E avreste pure ragione, se tutto il discorso finisse qui.

La Coppa del Mondo del 1999, però, è alle porte e John Hart, il selezionatore degli All Blacks, è in una posizione in cui tanti vorrebbero essere, e quindi in una posizione che nessuno vorrebbe veramente ricoprire. Ha a che fare con un triangolo allargato potenzialmente esagerato per qualità, quantità, classe, velocità e potenza, ma con almeno quattro fenomeni da sistemare in tre posti. Ci sono Jonah Lomu e Tana Umaga, per esempio. C’è Jeff Wilson, che qualsiasi attrezzo sportivo decida di toccare riesce ad essere decisivo a livello mondiale. È nazionale neozelandese di cricket, è stato un campione scolastico di staffetta ed ha giocato a basket a buoni livelli domestici. Con una palla da rugby in mano è illegale, soprattutto da estremo.

Sì, certo, e Cullen come lo tieni fuori?

Hart decide di metterlo secondo centro. In fondo, con un Ieremia che è un grimaldello perfetto, un Cullen gli spazi li può esplorare come e quanto vuole. E poi a livello giovanile ha già giocato nella cerniera, vuoi che vada tutto male?

No, non va tutto male. Non fino alla semifinale.

Segna due mete Jonah Lomu, Mehrtens al piede fa più o meno quello che vuole.

Solo che la Francia si inventa trenta minuti mai più visti a quei livelli e demolisce i sogni degli All Blacks. Christian, come detto, gioca secondo centro, ma lo vedi che non è a suo agio: certo, corre negli spazi, ma non ha dalla sua la capacità di essere decisivo nello stretto, né le grandi capacità di distribuzione dell’ovale dei califfi del ruolo. Si dà da fare, esce dal campo sempre distrutto, ma a quei livelli non può essere un centro. Hart ammetterà più avanti che forse sarebbe stato meglio mettere Umaga centro, Wilson e Lomu ali e Cullen estremo, quando però la Web Ellis Cup era già a Canberra.

Nei primi test post Coppa del Mondo Cullen si riprende la sua maglia numero 15, segnando altre sette mete in quattro incontri del Tri Nations. Poi però il ginocchio fa crac e deve saltare gran parte del 2001, dichiarandosi non disponibile per il tour autunnale europeo.

Solo che qui accade qualcosa, visto che il nuovo selezionatore degli All Blacks, John Mitchell, decide di escluderlo in conferenza stampa. Il rapporto tra i due non decollerà mai, ma proprio mai. Certo, Christian torna in Nazionale nel 2002 e segna altre quattro mete in cinque incontri, ma l’impressione è che per convincere Mitchell ci voglia altro. Altro da altre otto mete in dodici incontri con gli Hurricanes. Fanno 56 mete in sette stagioni, nel 2003 è record indiscusso. Verrà battuto solamente da Doug Howlett e Joe Roff, entrambi giocando molte più partite di Cullen.

Il 2003 è l’anno della Coppa del Mondo. In Nuova Zelanda si stanno ancora leccando le ferite per il quarto posto ottenuto quattro anni prima e non sarebbe male fare uno scherzetto ai Wallabies, detentori del trofeo e paese ospitante. Christian ha una concorrenza siderale: Leon McDonald, Ben Blair e Mils Muliaina sono compagni e avversari tosti, e infatti Mitchell li chiama tutti e tre, Cullen rimane a casa. Sono in molti a sollevare critiche, facendo notare che uno come l’estremo degli Hurricanes Mitchell non ce l’ha in rosa.

E uno spiraglio sembra aprirsi quando Blair si infortuna.

Eh no, adesso la strada è spianata.

Adesso non può non chiamarlo.

E infatti Mitchell chiama Ben Atiga, ventenne di Auckland senza contratto.

In conferenza stampa il coach parla di Cullen al passato.

È stato un grande giocatore, ha dato tanto, ma ora largo ai giovani.

Ventisette anni, evidentemente, sono età da pensione.

Christian Cullen prende atto e decide di cambiare aria.

Si trasferisce in Irlanda, gioca col Munster per quattro stagioni, ma una spalla improvvisamente ballerina gli impedisce di dare un contributo maggiore ai suoi. Si ritira nel 2007, ad appena trentun anni.

Trentun anni, cinquantotto caps con gli All Blacks, quarantasei mete segnate con il completo nero e la felce argentata sul cuore. Altre cinquantasei mete segnate con gli Hurricanes, una medaglia d’oro ai Giochi del Commonwealth con la Nazionale Seven. Ma pure una Coppa del Mondo giocata fuori ruolo, un’altra saltata perché un allenatore da quell’orecchio (e da quell’occhio) sembrava non voler capire troppo, due o tre infortuni che hanno limitato una carriera che avrebbe potuto abbracciare altro.

Ora.

Siete ancora sicuri di voler ancora mandare a quel paese Christian Cullen?

No, perché carriere enormi come queste, con un po’ di fortuna in più, avrebbero potuto essere enormi.

Avrebbero potuto regalare momenti forse un giorno leggendari, storie da incastonare in una Storia ovale più grande.

Anche gli All Blacks, anche quelli più forti, sanno che qualche volta avrebbero potuto fare di meglio.

Che qualche volta avrebbero meritato di meglio.

Christian lo sapeva, Christian lo sa. E allora due rimpianti qui e là se li merita pure lui.

Perché anche gli All Blacks sono umani.

Solitamente quando non possono giocare a rugby.

I rimpianti del giovane Cullen