Grandi domani

McGeechan ha lo sguardo disperatamente puntuale del britannico fuori dalla zona di comfort: vorrebbe tanto essere altrove, tra le sue viscere sta divampando una fornace di maledizioni, ma i lineamenti del viso, al di là di qualche ruga dovuta alla spossatezza, non traspaiono granché.

Gli chiedono come sia possibile che esista una così grande differenza tra i titolari e le riserve della sua selezione, lui risponde “I can’t”, non ce la fa.

La verità, anni dopo, la possiamo toccare con mano. Basterebbe sfogliare qualche pagina di storia del rugby per capire che lì al Rugby Park i suoi Lions non hanno giocato contro dei signori nessuno. Che i ragazzi di Waikato erano qualcosa di più delle mere statistiche che li avevano accompagnati nei taccuini britannici. E che – soprattutto – non bisogna mai sottovalutare un test infrasettimanale in un tour lungo e accidentato nella terra in cui il rugby è diventato un altro sport.

Solo che, nel 1993, quei ragazzi in rosso, giallo e nero, altro non sono che una tappa di avvicinamento all’incontro più difficile e importante, la “bella” contro gli All Blacks. Gavin Hastings e i suoi avevano perso di poco il primo incontro e vinto più nettamente il secondo, di lì a pochi giorni, in quel di Auckland, si sarebbe disputato l’incontro che suggella una carriera.

E allora, in quel di Hamilton, ci va la seconda squadra.

La squadra di solito utilizzata per gli incontri infrasettimanali, quelli con le rappresentative.

A guardare i nomi, a livello europeo è dura far di meglio: McGeechan schiera prima e seconda linea scozzese, Will Carling ai centri, Stuart Barnes all’apertura. Certo, i migliori sono a riposo, ma si sorpassano abbondantemente i 200 caps, ottenuti in tempi in cui gli incontri erano molto più rarefatti rispetto a quello  cui siamo abituati oggi.

Dall’altra parte, invece, i caps sono solo cinque. Tre li inanella Matthew Cooper, estremo o centro. Solido in difesa, non un cecchino al piede. Sarà in campo il giorno in cui i francesi decisero di regalare all’Eden Park di Auckland un ultimo giorno di mortalità, poi quasi entrerà nella storia, sfiorando la qualificazione mondiale con la maglia della Croazia. Gli altri due, uno a testa, appartengono a Brent Anderson, trentatreenne seconda linea, e a Graham Purvis, pilone destro.

Cinque caps.

Strano, se consideriamo che qualche mese prima hanno sbaragliato la concorrenza in NPC.

Più di qualcuno, però, ha preso parte a qualche tour.

Altri si sono ritrovati una bella colonna davanti.

Più di qualche altro ha deciso di rimanere, nonostante in Europa le offerte non fossero propriamente poche.

Si dice, però, che parecchi di quelli di Waikato abbiano materia grigia da vendere.

L’apertura, dicono, e pure il numero 8.

Quello esagerato, però, se chiedete a Hamilton e dintorni, è il tallonatore.

Lo chiamano Sumo, il ché vi dovrebbe dire molto sulla sua mobilità fisica. Ma a livello di concentrazione, di capacità di entrare nel match e di analisi di avversari e compagni è argenteo.

Non sbaglia un colpo, nemmeno fuori dalla mischia.

Non di rado, infatti, va dai suoi trequarti con una nuova giocata per loro.

La giocata, il più delle volte, finisce nel taccuino.

Al Rugby Park il pubblico è parecchio caldo, ma i Lions non hanno nemmeno il tempo di rendersi conto di quel potentissimo sedicesimo uomo. Quarantanove secondi e Wilson ha già schiacciato in bandierina.

No, non finisce qui.

Per ottanta minuti gli uomini di McGeechan sembrano il pugile che non riesce ad uscire dall’angolo. Ma non è che non abbiano le forze, non hanno proprio il tempo di levarsi dalle corde. I ragazzi di Waikato sono furenti e furiosi, in mischia quel tallonatore non fa vedere l’ovale ai cinque scozzesi che gli si parano davanti, al resto ci pensano gli altri: Duane Monkley, per esempio, numero 7. È un moto perpetuo, non dà tregua a nessuno dei suoi avversari. Segna due mete una più bella dell’altra, la seconda dopo una lunga sgroppata del numero 8, quelli vestiti di rosso non lo prendono mai.

E poi, dietro, quell’apertura non sbaglia un colpo.

Dicono che nella linea dinastica alla Corona, cioè alla maglia numero 10 nera, sia il quinto. Forse il sesto. Solo che ti viene da pensare che un paio di quelli che lo precedono vengano da Marte, perché altrimenti non si spiega.

Il primo tempo si chiude sul 26 a 3, ma il risultato potrebbe essere anche più rotondo. Cooper non ha una gran giornata al piede, per esempio. E, dall’altra parte del campo, qualche sacrificio riesce a rendere meno disumana la tariffa.

Nella ripresa il copione non cambia: i Lions subiscono, Waikato potrebbe dilagare ma pecca di generosità. Segnano Collins, meraviglioso secondo centro che giocherà con i Maori All Blacks, e il tallonatore di cui sopra. Lo vedi, ha un ventre sfrontato, il passo macilento di chi è costretto a fare jogging la domenica mattina, ma nessuno lo riesce a placcare. Anche perché, per l’ennesima volta, si è presentato all’appuntamento con l’ovale come nemmeno il Filippo Inzaghi dei bei tempi d’oro.

Per i Lions segnerà Will Carling, capitano di giornata, a fischio finale ormai imminente.

McGeechan, a fine partita, ha lo sguardo disperatamente puntuale del britannico fuori dalla zona di comfort: vorrebbe tanto essere altrove, tra le sue viscere sta divampando una fornace di maledizioni, ma i lineamenti del viso, al di là di qualche ruga dovuta alla spossatezza, non traspaiono granché.

“I can’t”, non posso spiegare che è successo la dentro.

Difficile eh, se si è nel 1993 e se quegli avversari, così dannatamente irraggiungibili nel rettangolo verde, non sono stati visionati granché nei mesi precedenti.

D’altronde una squadra così, con solamente tre giocatori che hanno visto la felce argentata vicino al loro cuore e nemmeno così tante volte, mica sembrava così pericolosa.

La verità, anni dopo, la possiamo toccare con mano. Basterebbe sfogliare qualche pagina di storia del rugby per capire che lì al Rugby Park i suoi Lions non hanno giocato contro dei signori nessuno. O meglio, che quegli avversari così imprendibili, prima nel concetto e poi sul campo, mica erano destinati a rimanere dei buoni giocatori.

Duane Monkley, per esempio, qualche anno dopo, è diventato un apprezzato allenatore.

Di ottimo livello eh, ma nemmeno il migliore di quelli scesi in campo quel giorno.

Prendete quel tallonatore, per esempio.

Sumo, esatto.

Quello che inventava le giocate dei suoi trequarti pur rimanendo ancorato ad una mischia.

Anche lui diventerà un allenatore di una certa rilevanza, se è vero che ventiquattro anni dopo, dopo un lungo viaggio a cavallo delle migliori panchine europee, i Lions in Nuova Zelanda li guiderà lui. Si chiama Warren Gatland, nel suo ufficio privato ha ancora una sedia gialla, rossa e nera.

Oppure quel numero 8. Due gambe chilometriche, un’eleganza da destriero, un rilascio della palla soffice come una nuvola. Sei anni più tardi, non ancora quarantenne, riceverà una chiamata di quelle che lasciano il segno, visto che all’anagrafe il ragazzo è registrato come John Eric Paul Mitchell e avrà il coraggio di mettere assieme la più grossa quantità di talento offensivo e di sfrontatezza mai visti a queste latitudini.

Oppure quel mediano d’apertura.

Un numero 10 straordinario per leadership, senso dell’ordine e inventiva.

Spaventosamente sottovalutato in patria, considerato uno dei tanti da troppi allenatori e avversari, McGeechan in primis.

Per fortuna qualcuno laggiù, in quell’isola chiamata Nuova Zelanda, non si è fatto scappare Ian Foster troppo a lungo.

Uno di quelli che hanno sgomitato a lungo, imprigionato in una carriera normale.

Come Warren, come John.

Sapendo che, forse, un domani, sarebbero diventati dei giganti.

A Waikato sì, che se ne intendono.

Grandi domani

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