Tutta colpa di Luke

Lento.

Scarso.

Sopravvalutato.

Inguardabile.

Dite la verità, o voi che vi scolate la birra sul divano davanti all’ennesima partita di rugby della Nazionale: quante volte avete dedicato una di queste parole a qualche anima apparsa in TV?

Eddai, alzate quelle mani.  Perfetto, siete più di quelli che pensavo. Ottimo.

Nessuna statistica in corso, non vi preoccupate.

Perché capita a tutti, prima o poi, di smadonnare davanti all’ennesimo pallone perso in avanti, all’ennesima pedata fuori misura, all’ennesimo passaggio intercettato dall’avversario. Sbrachiamo sui nostri divani, coniamo epiteti irripetibili, vuoi perché certi colpi di genio sanno essere più unici che rari, vuoi perché, un paio di minuti più tardi, il soggetto a cui sono fischiate le orecchie ha cambiato la partita con un colpo di genio dei suoi.

Lo abbiamo fatto tutti.

Salvo poi dedicare ai nostri poveri portatori sani di acufene lunghi peana e lunghi applausi appena è giunta e giungerà la notizia del loro ritiro.

Tutti, nessuno escluso.

O forse no.

No, in verità con qualcuno siete andati avanti anche dopo.

E quei quattro epiteti lì sopra glieli avete dedicati in tanti, nonostante la carriera fosse finita e l’azzurro non lo indossasse da quasi due anni.

No, con Luke McLean non siete mai stati teneri.

Sarà per quel nome meno italico del vostro, che il più delle volte l’ha reso ai vostri occhi meno italiano di chi osservate ogni mattina allo specchio. Sarà per quel passato con altri colori addosso, perché un australiano campione del mondo con la sua Nazionale under 19 non può essere degno di vestire la maglia azzurra. Sarà perché quei compagni di squadra che si ritrovava, tali Will Genia, Christian Leali’ifano, David Pocock, Ben Lucas non sono che omonimi di quei campioni che passano da queste parti a novembre inoltrato. O sarà perché, nell’autunno del 2007, è sbarcato in Italia armato di una sola maglia a maniche lunghe, bermuda e un paio di infradito, pronto ad essere l’ennesimo straniero già pronto per il massimo campionato italiano.

Straniero comunitario, perché la madre si chiama Morelli. La nonna veniva da Edolo, provincia di Brescia.

E allora il ragazzo può già giocare per la Nazionale.

Apriti cielo.

Le levate di scudi che si sono viste in quei giorni, ragazzi.

Scudi abbassatisi piano piano, perché il ragazzo non è arrivato a Calvisano perché fa figo avere l’ennesimo giocatore straniero: questo è forte per davvero. Può giocare in tutti i ruoli dei trequarti, apertura compresa. Lo mettono estremo, è uno degli artefici dello scudetto, ottenuto annichilendo la fortissima Benetton di Franco Smith.

A giugno Nick Mallett lo convoca per i test estivi contro Sudafrica e Argentina. L’allenatore sudafricano decide di far giocare Luke apertura. I risultati sono rivedibili: il ragazzo è forte, ha temperamento, ma con l’Argentina prendiamo l’abbrivio giusto quando nella stanza dei bottoni c’è Andrea Marcato. L’esperimento continua, Luke gioca apertura per tutto il Sei Nazioni 2009, quello di Mauro Bergamasco mediano di mischia e quello dell’Italia orfana delle maul. Continuerà da estremo per tutta la gestione Mallett, poi Brunel lo adatterà anche all’ala, complice lo strepitoso finale di carriera di Andrea Masi, ma facendogli gestire la retroguardia da estremo aggiunto.

È riduttivo, però, mettere McLean in un ruolo e lasciarlo lì.

Perché non è esistita partita in cui abbia giocato in almeno due, tre ruoli diversi.

Da estremo, da ala con licenza di coprire tatticamente le incursioni di Masi. Da apertura aggiunta quando le nostre maglie in attacco tendevano a sfaldarsi. O’Shea, per sfruttare le sue capacità di playmaker, lo schiererà spesso primo centro, per tenerlo nel vivo del gioco e per permettere di ricostituire fin da subito un pericolo per le difese avversarie. A questo aggiungete una pedata che non abbiamo visto spesso dalle nostre parti: lunga, potente, precisa. Un placcaggio ortodosso, solo a prima vista morbido, efficace nel bloccare e rallentare avversari a volte di rango parecchio elevato. O’Driscoll deve ancora capire cosa successe in un caldo pomeriggio invernale a pochi metri dalla linea di meta del Flaminio, anno domini 2011.

Non sono in tanti i giocatori che, dal dopoguerra ad oggi, hanno saputo giostrarsi in così tanti ruoli nella linea dei trequarti della nostra Nazionale. Negli ultimi trent’anni si contano solamente lui e Andrea Masi.

Solo che, anche dopo aver appeso gli scarpini al chiodo, l’acufene di McLean non ha avuto pace.

Gli avete detto che è lento, talmente lento dal riprendere Fofana sul lanciato, fargli il giro attorno e innescare una meta, la prima contro la Francia nel 2013, che ancora per qualche anno odorerà di leggenda.

Gli avete detto che è scarso. Per referenze chiedete, oltre che agli azzurri coevi, pure ai suoi ex compagni a Treviso, ragazzi con cui è arrivato al settimo posto nel Pro12 quando irlandesi, scozzesi e gallesi cominciarono a capire che Monigo non è solo uno stadiolo a un’ora da Venezia. A Mallett, Brunel, O’Shea, agli allenatori di Sale e dei London Irish. A chi lo stava per selezionare per il Super Rugby, anticipato da un numero con prefisso italiano.

Gli avete detto che è sopravvalutato. Gli scozzesi, quando espugnammo Murrayfield nel 2015, diedero il premio di man of the match ad un estremo che non smise per un secondo di minacciarli alla mano o al piede.

Gli avete detto che è inguardabile. Ad Ascoli i samoani, più che non riuscire a guardarlo, non riuscirono proprio a vederlo.

Non lo avete lasciato stare nemmeno nel momento in cui, di solito, si ringrazia per quanto fatto e dato.

No, era tutto dovuto.

E poi era un australiano scarso che ha fregato il posto ai nostri migliori virgulti.

Come quando Andy Murray, il campione olimpico britannico a Wimbledon, perse un torneo e da “campione inglese” divenne il “finalista scozzese”.

Solo che Murray, come McLean, qualcosa di importante sul verde l’ha fatto.

Con o senza acufene.

Noi, nel frattempo, stiamo stappando l’ennesima birra sul divano.

Un giorno impareremo a non rovesciarne troppa sul tappeto, appena vedremo l’ennesimo pallone cadere in avanti.

Né troppa birra, né troppa bile.

Grazie di tutto Luke.

Tutta colpa di Luke

Dopo la tempesta

Il 2009 non è un grande anno ovale, se si considerano i colori azzurri. E gli eufemismi.

Non ne vinciamo una. Meglio, non diamo mai l’impressione di poterne vincere una. Vuoi perché il ricambio generazionale non è all’altezza di altri, vuoi perché alcune regole sperimentali ci privano fino a luglio della maul, permettendo il suo abbattimento ogni volta che ne viene formata una. Vuoi perché alcune scelte di Nick Mallett hanno fatto gridare allo scandalo in uno dei templi del rugby mondiale.

No, non ne vinciamo una. Da quando abbiamo rischiato di battere l’Australia all’Euganeo non azzecchiamo una partita che sia una. Novembre 2008. Poi perdiamo male contro i Pumas e, soprattutto, contro i Pacific Islanders, fusione talentuosa ma fracassona delle tre potenze pacifiche. In quattro anni di tour non avevano mai vinto una partita, ma espugnano Reggio Emilia.

No, non riusciamo ad uscirne.

Certo, l’orgoglio ci permette di non far uscire dall’angolo gli All Blacks a San Siro, ma contro gli Springboks emergono tutti i nostri difetti: una difesa non sempre ineccepibile se attaccata da cingolati, pochi guizzi in attacco, nessun calciatore in grado di regalare macinato con costanza.

Resta Samoa.

Hai detto niente.

Certo, in Francia non c’hanno capito nulla, ma al Millennium hanno rischiato seriamente di portarla a casa.

Hanno due o tre uomini in grado di far parecchio male: Henry Tuilagi, per esempio. Ma pure Mapusua, che è il capitano e uno dei giocatori più in vista in Premiership. Census Johnston, che è un signor pilone. Ad Ascoli, però, arrivano un po’ corti: sono costretti a giocare con un centro all’apertura, un estremo di 21 anni senza uno straccio di esperienza internazionale e una mischia tutt’altro che irresistibile.

Nascondere la palla e punire ogni infrazione.

Sembra facile. Più facile.

Sembra la volta buona. Ci si può schiodare dallo zero carbonella.

Solo che in settimana si rompe Sergio Parisse. Il primo italiano di sempre a finire nella cinquina tra cui verrà scelto il miglior giocatore mondiale dell’anno. A San Siro Sergio ha fatto il fenomeno, contro il Sudafrica è stato tra gli ultimi ad arrendersi.

Contro Samoa, e per tutta la prima parte del 2010, non ci sarà.

Il 2009 non è un grande anno ovale, se si considerano i colori azzurri. E gli eufemismi.

Siamo dentro la tempesta, quando l’azzurro riempie il cuore.

Certo, direte, a rugby si gioca in quindici. E c’avete pure ragione.

Ma quando credete che sia iniziata la discesa e vi salta la catena, beh, un minimo le palle vi girano, dite la verità.

Perché perdere nello stesso crac il capitano e il giocatore che può risolvere quasi ogni problema in campo non è cosa semplice da mettere a posto. Mallett sceglie di spostare Zanni a numero 8, giocatore dalla mole di lavoro inversamente proporzionale all’eloquio sciorinato in campo.

E Zanni parla molto poco.

Samoa, nei primi minuti, si dimostra per quello che è: una squadra relativamente modesta se paragonata ad altre nazionali samoane, ma perfettamente in grado di rimanere in partita quando l’avversario ha paura di sferrare il colpo del ko.

E noi abbiamo una incredibile voglia di farci del male.

Intendiamoci, la tattica è giusta: rallentare il gioco, tenere il pallone e, quando necessario, farli ripartire da casa loro. E poi ripartire. Andiamo avanti con un calcio di Mirco Bergamasco, che dopo il disastro generale di Udine si è preso la responsabilità della piazzola. Poi, però, non battiamo il ferro finché è caldo: Tebaldi, quando apre, costringe i suoi trequarti a giocare con la difesa schierata e già pronta al placcaggio. Gower ogni tanto prova a variare il gioco, ma la difesa avversaria non ha matasse serie da sbrogliare.

Va da sé che allora, per il momento, bisogna risolverla con le prodezze dei singoli: Ghiraldini calcia un pallone che il mediano di mischia samoano non controlla, Mapusua e compagni si salvano a quattro, cinque metri dalla linea di meta, ma devono liberare al più presto. Fuimaono, buon centro a Gloucester ma apertura di livello diverso, calcia poco distante. Mirco Bergamasco gioca veloce per Luke McLean, che sembrerà pure lento e compassato, ma i samoani mica lo prendono mai. Otto a zero, sembra tutto in discesa.

Il problema è che siamo attanagliati da una clamorosa paura di perdere: sbagliamo calci di spostamento relativamente semplici, gettiamo al vento occasioni clamorose, come quando prendiamo fallo in mischia chiusa per aver continuato a spingere dopo il fischio dell’arbitro.

E se sbagliamo le mischie vuol dire che nella tempesta ci siamo dentro fino al collo.

Samoa accorcia con Esau dalla piazzola, ma si vede che loro stanno peggio di noi: hanno già perso Tuilagi dopo dieci minuti, non vanno oltre a qualche fase confusionaria, provano i tre punti da metà campo.

Ne hanno poca, ma noi non ce ne accorgiamo. E allora via di raggruppamenti interminabili, di fasi lente, di gioco ridotto allo strettissimo indispensabile.

Per fortuna loro fanno fallo e Bergamasco e Gower riescono ad allungare. Il primo tempo si chiude sul 14 a 6, ma con una lucidità diversa la partita avrebbe potuto già essere bella che chiusa a doppia mandata.

La ripresa non presenta un copione diverso: noi sbagliamo troppe esecuzioni , Samoa cerca di sfruttare il piede potente di Esau. Per nostra fortuna l’estremo avversario non ci punisce ancora, ma il nostro colpo del ko latita.

Va da sé che allora, per il momento, bisogna risolverla con le prodezze dei singoli.

Altra liberazione pacifica dalla zona rossa, il pallone arriva a Tebaldi.

Tito non ha avuto fino a questo momento una grandissima giornata: troppo lento dietro ai raggruppamenti, troppo impreciso nei calci. Il coraggio però non gli manca, rilascia il pallone.

Drop.

La frustata è fantastica, il pallone passa in mezzo ai pali, 17 a 6.

Sergio Parisse, in panca con le stampelle, applaude e rincuora i suoi.

Prendiamo coraggio, cominciamo a sbagliare meno. La mischia finalmente ingrana e mette in ginocchio la prima linea avversaria.

Poi i samoani restano in 14, visto che Fa’afili decide di provare a decapitare McLean.

Rosso diretto, ma Bergamirco sbaglia il calcio dalla linea dei 22.

Poco dopo ne sbaglia uno anche Gower.

L’Italia, però, col passare dei minuti si è lasciata alle spalle il braccino del primo tempo e prova a chiudere la partita ancorandosi al piatto della casa.

La mischia, bravi.

Samoa, già in difficoltà con la prima linea titolare, capitola quando l’acido lattico ha la meglio, l’arbitro ci concede la meta tecnica. Di fatto la partita finisce qui, c’è ancora tempo per qualche incursione degli ospiti, ma nulla in grado di intaccare il 24 a 6 con il quale si conclude l’incontro.

Il 2009 non è un grande anno ovale, se si considerano i colori azzurri.

Ma riusciamo a concluderlo con un raggio di sole.

Troppo poco per abbronzarsi, il giusto per asciugarsi e ripensare al domani.

Perché dopo la tempesta si pensa sempre al domani.

A tutto quel che si può recuperare, a tutto quel che non si è fatto.

E che di sicuro, con il bel tempo, non tarderà a riuscire.

Forse.

Dopo la tempesta

Twickenham veste stretto

L’Inghilterra con il sole si dà fino ad un certo punto.

Il cielo delle grandi occasioni, da queste parti, è grigio come certi abiti formali, di quelli che può capitare di sentirsi a disagio quando li si porta. Una, forse due volte all’anno, forse ad un matrimonio, forse ad una cena aziendale, magari anche mai.

Eppure, in mezzo a quei colori tenui e marziali, gli inglesi si sentono a loro agio. Comodi come quando ci si scambia un colpo di bicchiere al pub. E sono ancora più a loro agio se vedono un pallone ovale caracollare da una pare all’altra di un prato verde, meglio se delimitato da pali e linee bianche.

Più a loro agio di tanti altri.

Twickenham, nel grigio, è il tempio che sembra inviolabile.

Soprattutto quando il settore ospiti pullula di italiani.

Mai battuti gli inglesi a rugby, non a livello di squadre maggiori.

Se escludiamo Huddersfield, perché lì, gli inglesi, segnarono solamente alcuni punti in più.

Ma dal 1998 sono passati quindici anni, è giunto forse il momento di riprovarci. Anche perché l’Italia del 6 Nazioni 2013 non è una squadra passata spesso nei nostri cieli: Parisse è in una annata di grazia, la generazione lanciata da Kirwan e Berbizier è al suo apogeo, altri giocatori stanno vivendo periodi di forma mai visti prima. La Benetton Treviso di Franco Smith si sta portando dove nessuna squadra italiana si è (ancora) portata in Europa. E i risultati, in campo, si vedono: a novembre gli azzurri tengono splendidamente il campo contro gli All Blacks e rischiano di far saltare il banco contro l’Australia al termine di una rimonta emozionante. E, a febbraio, la Francia cade all’Olimpico, bastonata più nel gioco che nel punteggio.

Certo, l’Italia è in quella fase della vita in cui non si sa ancora cosa si farà da grandi: contro una non irreprensibile Scozia si perde molto male. Contro il Galles per un’ora giochiamo discretamente, ma poi si aprono due varchi e gli uomini di Gatland scappano.

Poi tocca andare a Twickenham.

L’Inghilterra di Stuart Lancaster è una Rosa a cui manca poco per sbocciare. A novembre nel più famoso campo di cavoli ovale sono caduti pure gli All Blacks e niente sembra far presagire un rovescio contro gli azzurri. I bookmakers, quelli che scommettono pure sul colore della cravatta di Boris Johnson o su quanti “Order” dirà lo speaker della Camera martedì prossimo, non accettano quote al di sotto dei 26 punti di scarto. L’idea in Italia è che il colpaccio vero l’abbiamo mancato nel 2012, sotto la neve di Roma, contro una squadra inglese profondamente rinnovata e dall’esperienza relativa.

Contro quelli lì, il 10 marzo 2013, non è cosa.

Anche perché, fino a qualche ora prima del match, Parisse è dato per squalificato.

Laurent Cardona, arbitro francese, l’ha sentito imprecare in inglese.

Un italiano del Rio De La Plata, da quasi dieci anni in Francia, si mette ad insultare l’arbitro in inglese.

Poliglotta, il ragazzo.

Le accuse cadranno qualche giorno prima, Sergio potrà giocare.

Ma è dura lo stesso.

Per quanto Lancaster abbia infuso nei suoi ragazzi un rugby arioso, sincopato, in cui alcuni intenditori ci hanno visto pure qualche nota di jazz, gli inglesi non hanno mai dimenticato la prima regola aurea del loro gioco: avanzare.

E lo fanno maledettamente bene, a spallate.

Flood, schierato al posto di Farrell, capitalizza al piede, 6 a 0 dopo pochi minuti. Ma non è tanto il risultato, quanto tutto quel che riusciamo a scampare: per poco Brown non riesce a schiacciare dopo aver intercettato un calcio di Venditti. La mischia, per quanto riusciamo a schierare due intere prime linee di valore mondiale, arretra e arranca. Orquera accorcia dalla piazzola al primo sussulto azzurro, poi ci liberiamo dal torpore a cui eravamo stati costretti: Zanni e Parisse scavano un buco gigantesco lungo l’out di destra, entriamo nei 22, ma George Clancy, l’arbitro, ravvisa un tocco in avanti del nostro capitano. Era stato Brown col piede alla disperata, ma l’azione purtroppo muore lì. Nel nostro momento migliore, però, Gori la fa grossa: riceve palla da Parisse da mischia ordinata e calcia basso. L’ovale rimbalza sulle gambe di Flood, che si invola. Ugo lo trattiene per un braccio, Clancy e lo stesso numero 10 non perdonano: giallo e tre punti dalla piazzola.

Si torna a soffrire. Gli azzurri si difendono con unghie, denti e pure qualcos’altro: Garcia, per esempio, è praticamente schierato a uomo su Tuilagi, lo prende sempre e comunque.  Geldenhuys non lo vedi, ma non c’è inglese che non ne senta la presenza. Masi è ovunque, Orquera è palesemente il più mingherlino in campo ma nessuno se ne rende veramente conto.

Sì, bene, ottimo. Ma quanto potremo durare così?

Gli inglesi, infatti, sembrano poter dilagare da un momento all’altro.

Flood centra i pali altre due volte a cavallo dei due tempi, è 15 a 3.

Il cielo di Twickenham, però, questa volta non è l’abito più comodo del mondo.

Magari lo diventerà, magari toglieranno uno spillo fastidioso nei prossimi minuti.

Però nel frattempo Cittadini arrota Vunipola e Orquera accorcia, 15 a 6.

E nell’azione successiva l’aria comincia a farsi pesante: da touche inglese Care sbanana il calcio. L’ovale lo prende Alessandro Zanni. È da anni che non si vede Zanni retrocedere a contatto, non succede nemmeno questa volta. In pieni 22 Gori serve Orquera, che si rende conto che seconda linea di difesa è salita male.

E calcia all’ala.

Si avventa Luke McLean, uno dei giocatori più sottovalutati che abbiano vestito l’azzurro. È meta.

Agli inglesi, il vestito di cui sopra, comincia a prudere parecchio.

Orquera non trasforma da posizione difficile, e purtroppo concede il bis dopo che tre inglesi hanno cercato di fermare Venditti con le cattive e con le cattivissime. Flood poco dopo non ci riserva la stessa premura e ci ricaccia a meno sette, ma gli ultimi quindici minuti sono un assedio azzurro.

I padroni di casa sporcano qualsiasi raggruppamento, Clancy silente approva. I nostri ci provano tutti: Zanni non retrocede mai, Masi non trova nessuno dei suoi sul più bello, Venditti lo devono fermare in tre. McLean semina a più riprese uno come Ashton, magari non il più simpatico della compagnia (dopo i Monty Python lassù si è riso pochino), ma uno con le ali ai piedi. Garcia, che ha placcato qualsiasi cosa gli passasse accanto, adesso fa breccia spesso e volentieri, smentendo un vecchio ct che lo vedeva solamente come un autoscontro.

Poi, però, perdiamo palla in avanti.

Gli inglesi si guardano increduli, si sono salvati.

Si risistemano la cravatta come se nulla avesse rischiato di far cadere certezze su certezze.

D’altronde, il cielo di Twickenham è ancora lì, grigio, rassicurante come un abito formale portato da chi quell’abito lo sa portare.

A Cardiff andrà diversamente, sei giorni dopo.

Il rosso, in certe serate, non lo possono portare proprio tutti.

Gli azzurri, da Twickenham, escono da eroi.

Spettinati, vestiti meglio rispetto a quando avevano varcato la linea degli spogliatoi, ma certi che, quando si diventerà grandi, certi abiti non staranno male.

Speriamo di diventarlo, prima o poi.

Grandi, prima ancora che eleganti.

Poi qualche figurone lo faremo.

Con o senza abito. Con o senza grigio di Twickenham.

Quel che è certo è che saremo bellissimi.

Twickenham veste stretto

Acufene

Lento.

Scarso.

Sopravvalutato.

Inguardabile.

Dite la verità, o voi che vi scolate la birra sul divano davanti all’ennesima partita di rugby della Nazionale: quante volte avete dedicato una di queste parole a qualche anima apparsa in TV?

Eddai, alzate quelle mani.  Perfetto, siete più di quelli che pensavo. Ottimo.

Nessuna statistica in corso, non vi preoccupate.

Perché capita a tutti, prima o poi, di smadonnare davanti all’ennesimo pallone perso in avanti, all’ennesima pedata fuori misura, all’ennesimo passaggio intercettato dall’avversario. Sbrachiamo sui nostri divani, coniamo epiteti irripetibili, vuoi perché certi colpi di genio sanno essere più unici che rari, vuoi perché, un paio di minuti più tardi, il soggetto a cui sono fischiate le orecchie ha cambiato la partita con un colpo di genio dei suoi.

Lo abbiamo fatto tutti.

Salvo poi dedicare ai nostri poveri portatori sani di acufene lunghi peana e lunghi applausi appena è giunta e giungerà la notizia del loro ritiro.

Tutti, nessuno escluso.

O forse no.

No, in verità con qualcuno siete andati avanti anche dopo.

E quei quattro epiteti lì sopra glieli avete dedicati in tanti, nonostante la carriera fosse finita e l’azzurro non lo indossasse da quasi due anni.

No, con Luke McLean non siete mai stati teneri.

Sarà per quel nome meno italico del vostro, che il più delle volte l’ha reso ai vostri occhi meno italiano di chi osservate ogni mattina allo specchio. Sarà per quel passato con altri colori addosso, perché un australiano campione del mondo con la sua Nazionale under 19 secondo molti non può essere degno di vestire la maglia azzurra. Sarà perché quei compagni di squadra che si ritrovava, tali Will Genia, Christian Leali’ifano, David Pocock, Ben Lucas non sono che omonimi di quei campioni che passano da queste parti a novembre inoltrato. O sarà perché, nell’autunno del 2007, è sbarcato in Italia armato di una sola maglia a maniche lunghe, bermuda e un paio di infradito, pronto ad essere l’ennesimo straniero già pronto per il massimo campionato italiano.

Straniero comunitario, perché la madre si chiama Morelli. La nonna veniva da Edolo, provincia di Brescia.

E allora il ragazzo può già giocare per la Nazionale.

Apriti cielo.

Le levate di scudi che si sono viste in quei giorni, ragazzi.

Scudi abbassatisi piano piano, perché il ragazzo non è arrivato a Calvisano perché fa figo avere l’ennesimo giocatore straniero: questo è forte per davvero. Può giocare in tutti i ruoli dei trequarti, apertura compresa. Lo mettono estremo, è uno degli artefici dello scudetto, ottenuto annichilendo la fortissima Benetton di Franco Smith.

A giugno Nick Mallett lo convoca per i test estivi contro Sudafrica e Argentina. L’allenatore sudafricano decide di far giocare Luke apertura. I risultati sono rivedibili: il ragazzo è forte, ha temperamento, ma con l’Argentina prendiamo l’abbrivio giusto quando nella stanza dei bottoni c’è Andrea Marcato. L’esperimento continua, Luke gioca apertura per tutto il Sei Nazioni 2009, quello di Mauro Bergamasco mediano di mischia e quello dell’Italia orfana delle maul. Continuerà da estremo per tutta la gestione Mallett, poi Brunel lo adatterà anche all’ala, complice lo strepitoso finale di carriera di Andrea Masi, ma facendogli gestire la retroguardia da estremo aggiunto.

È riduttivo, però, mettere McLean in un ruolo e lasciarlo lì.

Perché non è esistita partita in cui abbia giocato in almeno due, tre ruoli diversi.

Da estremo, da ala con licenza di coprire tatticamente le incursioni di Masi. Da apertura aggiunta quando le nostre maglie in attacco tendevano a sfaldarsi. O’Shea, per sfruttare le sue capacità di playmaker, lo schiererà spesso primo centro, per tenerlo nel vivo del gioco e per permettere di ricostituire fin da subito un pericolo per le difese avversarie. A questo aggiungete una pedata che non abbiamo visto spesso dalle nostre parti: lunga, potente, precisa. Un placcaggio ortodosso, solo a prima vista morbido, efficace nel bloccare e rallentare avversari a volte di rango parecchio elevato. O’Driscoll deve ancora capire cosa successe in un caldo pomeriggio invernale a pochi metri dalla linea di meta del Flaminio, anno domini 2011.

Non sono in tanti i giocatori che, dal dopoguerra ad oggi, hanno saputo giostrarsi in così tanti ruoli nella linea dei trequarti della nostra Nazionale. Negli ultimi trent’anni si contano solamente lui e Andrea Masi.

Solo che, anche dopo aver appeso gli scarpini al chiodo, l’acufene di McLean non ha avuto pace.

Gli avete detto che è lento, talmente lento dal riprendere Fofana sul lanciato, fargli il giro attorno e innescare una meta, la prima contro la Francia nel 2013, che ancora per qualche anno odorerà di leggenda.

Gli avete detto che è scarso. Per referenze chiedete, oltre che agli azzurri coevi, pure ai suoi ex compagni a Treviso, ragazzi con cui è arrivato al settimo posto nel Pro12 quando irlandesi, scozzesi e gallesi cominciarono a capire che Monigo non è solo uno stadiolo a un’ora da Venezia. A Mallett, Brunel, O’Shea, agli allenatori di Sale e dei London Irish. A chi lo stava per selezionare per il Super Rugby, anticipato da un numero con prefisso italiano.

Gli avete detto che è sopravvalutato. Gli scozzesi, quando espugnammo Murrayfield nel 2015, diedero il premio di man of the match ad un estremo che non smise per un secondo di minacciarli alla mano o al piede. Magari non appariscente, ma senza neppure un calo che fosse uno.

Gli avete detto che è inguardabile. Ad Ascoli i samoani, più che non riuscire a guardarlo, non riuscirono proprio a vederlo.

Non lo avete lasciato stare nemmeno nel momento in cui, di solito, si ringrazia per quanto fatto e dato.

No, era tutto dovuto.

E poi era un australiano scarso che ha fregato il posto ai nostri migliori virgulti.

Come quando Andy Murray, il campione olimpico britannico a Wimbledon, perse un torneo e divenne il finalista scozzese.

Solo che Murray, come McLean, qualcosa di importante sul verde l’ha fatto.

Con o senza acufene.

Noi, nel frattempo, stiamo stappando l’ennesima birra sul divano.

Un giorno impareremo a non rovesciarne troppa sul tappeto, appena vedremo l’ennesimo pallone cadere in avanti.

Grazie di tutto Luke.

Acufene

Il cielo sopra Murrayfield

Touch, crouch, set. La mischia azzurra va giù quasi subito, Clancy fischia, Punizione per la Scozia. Greig Laidlaw dalla panchina non capisce subito e alza il braccio per maledire qualcuno. Poi si rende conto che la palla è loro e rotea il pugno. Sorride e irride qualcuno. Murrayfield esulta, produce un boato che senti che lo tiene dentro da un po’. Sa di sollievo, di paure  andate via, di spettri dileguatisi non si sa dove, ma via di qui. Forse nel cielo, un grigio non troppo grigio a cui non siamo (e non saremo mai) troppo abituati, quello di Murrayfield, Edimburgo. Certo, è febbraio, ma se vai lì in gita a maggio non è che sia tutta ‘sta Maracaibo. Il match riprende, la palla ce l’ha Peter Horne, centro dei Glasgow Warriors. A lui il compito di calciare e cacciare via quel pallone. Fuori, il più lontano possibile. Via da casa loro, verso il campo dell’Italia, che non ha i mezzi per giocarsi ancora il match ma che è ancora lì. Dai, fuori, prendiamo la touche e vendiamo la metà campo. Copione scontato, ma per vincere a volte non servono gli effetti speciali. È che nessuno forse si aspettava che l’Italia, che quest’Italia, riuscisse a scombinare così tanto il match. Pazienza l’Italia del 2013, la più forte mai vista al Sei Nazioni, che comunque a Murrayfield ne prese 34. Pazienza quella del 2007, meno profonda ma abile a sfruttare un gameplan scozzese a dir poco scriteriato.

Quella del 2015 no però. Non questa.

Frenata dalle beghe della Federazione, da un paio di stagioni magre di Benetton e Zebre, da un Sei Nazioni 2014 disastroso. E non è che nelle prime due giornate abbiano tanto invertito la rotta: un’ora di Piave contro l’Irlanda, 47 punti dall’Inghilterra. La stampa anglosassone che la vorrebbe fuori dal Sei Nazioni. Senza almeno 5 giocatori in grado di essere titolari fissi. Con due esordienti e un mediano di apertura autore di due buoni match a novembre, ma che fino a due stagioni fa giocava pur sempre nella seconda serie italiana. Tre stagioni fa, addirittura panchina nella seconda serie neozelandese.

Certo, manca qualcuno pure alla Scozia. Finn Russell, per esempio. Fino a qualche anno prima faceva il cesellatore, in due anni ha scalato i vertici del rugby scozzese. Non è un’apertura da figurine, non è un Jonny Wilkinson in quanto a stile, ma è devastante negli spazi e sa tutto quel che c’è da fare, ovunque ed in ogni momento. Solo che nella sua ubiquità ha placcato un gallese in volo nel turno successivo. Squalificato dalla Commissione Internazionale. A Vern Cotter, neozelandese da poco sulla panca, non mancherebbero alternative: ci sarebbero Duncan Weir, Tom Heathcote. Perfino Laidlaw sarebbe un buon 10. La scelta ricade invece su Peter Horne, che è un signor centro. È meno performante in cabina di regia rispetto ad altri suoi colleghi, ma è di Glasgow, come tutta la linea dei trequarti che si ritrova alle spalle. Come altri nove compagni titolari. Vern Cotter sa quello che fa (per referenze citofonare  Clermont), punta tutto sull’ossatura dei Warriors che a maggio vinceranno il Pro 12 e i risultati gli danno ragione: in meno di una stagione prende in mano una squadra di cilindrata inferiore e la fa rendere al massimo, sfruttando un ricambio generazionale che finalmente gli mette a disposizione una quantità di talento che, tra i trequarti, non si vedeva da tempo. A cominciare da una freccia come Tommy Seymour, passando per Mark Bennett e Alex Dunbar. E, dulcis in fundo, Stuart Hogg. Ventitrè anni che su quel viso da britannico abbruttito da qualche pub di troppo sembrano almeno almeno dieci in più. Sì, certo, ma due gambe e un cervello che a Melrose, patria storica del Seven, non erano abituati a vedere da un bel po’. A tanti ricorda Gavin Hastings, leggendario estremo di Edimburgo, solo che Hogg corre il doppio.

Lo sanno bene i gallesi, che l’hanno visto scattare a metà campo.

L’abbiamo visto noi nel 2013, nei suoi 22, intercettarci nel nostro momento migliore.

Differenze? Nessuna.

Corsa a cannone e meta. Alla vigilia il nostro spauracchio, su tutti, è lui. A questo però va aggiunto che arriviamo in Scozia con due o tre pesi mica da ridere nello zaino già di nostro. Martin Castrogiovanni si è infortunato giocando con un cane, Zanni e Sgarbi sono in infermeria da tempo. Nelle settimane precedenti si sono fermati Masi e Campagnaro. Se non è emergenza totale poco ci manca. Jacques Brunel fa debuttare allora Enrico Bacchin come primo centro e Michele Visentin all’ala. In prima linea a destra siamo abbastanza coperti, con Chistolini titolare e Cittadini in panca. In mediana la scelta ricade ancora su Kelly Haimona, ventinovenne di Hawke’s Bay in forza alle Zebre. Ha debuttato a novembre contro Samoa e Pumas giocando due signori match e alimentando il mito del successore di Diego Dominguez, poi il nulla o poco più. Avrebbe un gioco al piede che per quel che abbiamo in mente di fare non dispiace, ma è lento e prevedibile, e se già dietro soffri di tuo la superiore qualità altrui figurarsi se si finisce in moviola. In panchina c’è Allan, che non è Dan Carter ma che a detta di molti è comunque tutta un’altra cosa. Tommaso però deve sedersi, mancano pochi incontri alla Coppa del Mondo e Haimona ha già intascato l’investitura e il posto da titolare.

Poi, nel 2016, si vedrà.

Sta di fatto che dopo sette minuti Haimona telefona un passaggio all’esterno e Mark Bennett capisce al volo. Cinquanta  metri di corsa, meta in mezzo ai pali. Dieci a 0, perché i primi punti li avevamo già regalati su possesso nostro nei primi secondi del match, Laidlaw ha già ringraziato. Il match per noi è un dramma vero, gli scozzesi ci attaccano alla mano e fanno sempre strada. Murrayfield ruggisce, sa che dopo due buoni incontri ma nulla più forse è la volta buona per dar fiato alle cornamuse. Sul calcio di avvio di Haimona Lamont mette un piede fuori, touche nostra nei loro 22. In campo aperto Hogg e compagni ci stanno facendo a fette, è vero, ma appena Biagi porta giù il pallone decidono di esagerare.

Vogliono umiliarci in maul.

Ci spingono fuori lateralmente, ma non si curano del fatto che noi siamo già passati. È un peccato di superbia di una gravità incalcolabile, e se ne renderanno conto molto presto. Andiamo oltre di prepotenza, è Furno a schiacciare. Potremmo tornare a tre punti, ma Haimona sventa la minaccia. Non è un fuoco di psglia però: ci siamo, non abbiamo a naso troppe munizioni, perciò ci attacchiamo principalmente a difesa e orgoglio. Poi si vedrà. Non sapremo mai se gli azzurri qui si sono ricordati della Francia di Lievremont alla Coppa del Mondo del 2011, di quelli che dopo un girone disastroso hanno lasciato perdere tutto e ne hanno fatto un affare da uomini, piacerebbe tanto fosse così. Sta di fatto che la partita cambia. Non abbiamo le gambe per reggerli, ma ci mettiamo i placcaggi di George Biagi, che ha mamma scozzese e quindi sente parecchio il match, la ferocia agonistica di Simone Favaro, le corse scapigliate di Joshua Furno. E Sua Maestà Sergio Parisse, amato da noi, amatissimo all’estero, in tutta la sua sostanza. In tanti da noi reputano troppo vezzoso il suo trattamento dell’ovale, tutti quei sottomano, quelle finte. Bene, provate ad andare oltre il Vallo di Adriano a fare un discorso del genere.

Rideranno anche a Stonehenge.

La verità è che per avere un giocatore del genere farebbero carte false ovunque, pure in nuova Zelanda, pure in casa di Kieran Read. E non è solo quello che lascia sul campo, è proprio il modo di prendere per il coppino i suoi e metterseli nel caso in spalla, sia a parole che coi placcaggi. In caso di necessità lo trovate a recuperare le palle alte, a ricevere il pallone del mediano di mischia al posto dell’apertura. Ovunque. Anche a Murrayfield. La Scozia era pronta a tutto, ma non a una così tenace reazione italiana e, come tante squadre britanniche che non se l’aspettano, piano piano si placa. Va a segno con Laidlaw dalla piazzola, risponde Haimona, poi ancora Laidlaw. Gli scozzesi provano ancora a farci male alla mano, ma noi in difesa ci siamo dati una sistemata e reggiamo. E da questo momento in poi bisogna togliersi tanto di cappello davanti al nipote della signora Elsa, nata ad Odolo in provincia di Brescia e trasferitasi in Australia in cerca di lavoro negli anni ’30. Il nipote all’anagrafe è registrato come Luke Joseph McLean, gli piace il calcio ma ad un certo punto è “costretto” a giocare a rugby. È campione del mondo under 19 con l’Australia nel 2006 (la stessa nidiata di David Pocock e Christian Leali’ifano), poi nel 2008 viene chiamato in Italia dal Calvisano, provincia di Brescia. Da lì in poi i colori azzurri trovano un giocatore mai troppo amato dal pubblico, ma glaciale nei momenti topici e sicuro nella gestione dell’ovale, al piede e alla mano. È lui a mettersi spesso alle spalle di Gori e a dettare i ritmi, con Haimona che spesso scala a primo centro. Non sarà una svolta epocale, ma ogni volta che tocca palla gli scozzesi non sono più così irreprensibili, né riescono più a leggerci così facilmente.

No, non premono più come all’inizio, ma nemmeno noi riusciamo a metterli in grossa difficoltà. Siamo sotto 16 a 8, la partita è ancora lunga, ma la sensazione generale è che serva l’episodio che dia coraggio alla compagnia. Guadagniamo un calcio piazzato da mischia nei 22 scozzesi. La posizione è defilata, ma non sono più di 25 metri. L’ovale resta praticamente nella tomaia di Haimona. La palla sale, ma ha poca benzina e cade prima di arrivare ai pali. Il sottoscritto, che quella partita l’ha vista in televisione, ha tirato fuori dalla propria personale faretra delle frecce avvelenate contro l’umanità che non pensava di avere. Poi è un lampo: Giovambattista Venditti, all’ala, ha visto il volo spezzato e ha capito tutto. Brucia tre scozzesi nello scatto, si avventa sul pallone aereo e prova a schiacciare in un groviglio talmente ben riuscito che Laocoonte, non avesse le mani impegnate, applaudirebbe di gusto. L’arbitro chiama il TMO, dalle telecamere si vedono i 100 e passa chili di Venditti intrufolarsi nella selva di muscoli scozzesi e schiacciare la palla. Meta italiana, e inizia ufficialmente un’altra partita. I padroni di casa accusano il colpo, la baldanza dei primi minuti lascia spazio sempre di più al cielo grigio di Edimburgo. Poche idee, paura tanta. Non che l’Italia faccia chissà cosa, ma i placcaggi di Favaro cominciano a farsi sentire, così come le catapulte di McLean e l’esempio di Parisse. I nuovi si sacrificano, soprattutto Bacchin, che mette a segno 11 placcaggi. Minto ne mette giù 13, Ghiraldini 14. La mischia inizia a macinare terreno. Solo che non facciamo punti nei primi 20 minuti della ripresa. Si, ma mica è così facile: tra di loro stanno facendo un partitone Blair Cowan, terza linea neozelandese naturalizzata, Rob Harley, flanker pel di carota e abrasivo come pochi altri giocatori in Europa, e Jonny Gray, fratello di Richie, mostruoso in touche e nei placcaggi. Allan, che è entrato al posto di un claudicante Haimona, ad un certo punto avrebbe la possibilità di portarci avanti, ma gli tremano le tomaie non centra i pali da posizione comoda. Non lo imita Laidlaw poco dopo in una delle nostre poche sbavature della ripresa, la Scozia va a più 4.

A ben vedere, però, i padroni di casa non hanno molta birra nelle gambe. Li abbiamo cotti a puntino, sono avanti solo per via di un nostro risveglio tardivo, sanno che ogni fase statica potrebbe essere un problema serio. Gli azzurri vincono bene una mischia a metà campo, calcio, andiamo nei loro 22. Il pallone viene tenuto alto, è ancora mischia azzurra. Cittadini, entrato nella ripresa, sta facendo diventar matto Dickinson, Lovotti contro Murray tira fuori i denti. Li buttiamo indietro un paio di volte, l’arbitro Clancy ravvisa un solo fallo. Gli scozzesi sono più scafati di noi in queste occasioni, perdono tempo, fanno un paio di cambi e ci riprovano. Ancora un reset. Touch, crouch, set. La mischia azzurra si allunga e va giù quasi subito, Clancy fischia ancora. Punizione, stavolta per la Scozia. Greig Laidlaw dalla panchina non capisce subito e alza il braccio per maledire qualcuno. Poi si rende conto che la palla è loro e rotea il pugno. Sorride e irride, probabilmente il destinatario è la nostra panchina. Murrayfield esulta, produce un boato che senti che lo tiene dentro da un po’. Sa di sollievo, di paure  andate via, di spettri dileguatisi non si sa dove, ma via di qui. Forse nel cielo di Murrayfield, che ora è grigio solo per noi che non ci siamo abituati. Ci abituiamo poco, a dire il vero, a quei colori. Meno di loro di sicuro. Il match riprende, la palla ce l’ha Peter Horne, che sembrava dovesse essere l’arma in più e invece non ha fatto giocare i suoi come poteva. Né come doveva. Via da casa loro, verso il campo dell’Italia, che come il bombo non ha ali apparentemente adatte al volo ma che se ne frega e non cede. Dai, fuori, si dicono in tanti, prendiamo la touche e vendiamo la metà campo. Horne calcia, ma fa subito una smorfia. Forse un crampo, forse una bella cazzata. La palla non esce e arriva a Vunisa che sfonda. Gli scozzesi lo prendono, ma fanno fallo. Avremmo un vantaggio, ma Parisse non vuole azioni gratis e ferma il gioco. Vuole la touche, McLean lo accontenta. Furno prende una palla vitale e forma la maul, gli scozzesi non hanno le armi per fermarci legalmente, né si possono permettere di farci altri regali come quello del primo tempo. Fanno crollare la maul, Clancy fischia e manda fuori Toolis, seconda di origine australiana. Andiamo ancora in touche, Manici lancia, Furno la prende ancora. Loro provano a metterci giù con le buone e con le cattive. Riparte Cittadini, ma è da solo. Siamo ai 5 metri. Gori apre a sinistra, riceve Manici, che si gira e con gli altri forma la maul. Spingono tutti, avanti e non: Parisse e la sua leadership, Furno e i suoi muscoli scapigliati, il sangue non più freddo (e vorrei ben vedere) di McLean, la meglio gioventù di Bacchin.

Tutti.

La maul sa essere democratica, quando ci si mette.

Il pack scozzese crolla, Clancy fischia e va sotto i pali. Meta tecnica. Mani nei capelli, arriva un altro giallo per loro, Capitan Sergio è a terra, sfiancato e in lacrime, Allan è già in piazzola e firma altri due punti, il tempo è già scaduto. Murrayfield lentamente si spopola, a poco a poco rimangono solamente gli italiani. Vince a mani basse sugli spalti lo striscione “Braveheart è il mio film preferito”. Spicca, colorato di bianco rosso e verde, nel silenzio e nelle facce grigie di Murrayfield, il cui cielo non perdona e resta lì, imparziale ed incurante di gioie e dolori umani.  Gioie che ti devi guadagnare minuto per minuto, placcaggio per placcaggio, punto per punto. Gioie che per noi sono rimaste lì, forse non ci stavano nel bagaglio a mano. Forse le abbiamo lasciate noi di proposito, per ricordare ai posteri che lì abbiamo gioito ed esultato. Chissà se il firmamento scozzese, quello sopra Murrayfield, ce le conserverà finché non avremo le forze (e la voglia) di andarcele a riprendere.

 

Il cielo sopra Murrayfield