Debutto (Storia di Natale)

“Scaldati”.

No, nessuna voce, nessun labiale. Ma vedi il ragazzino alzarsi dalla panca di legno e lamiera, fredda come solo del legno e della lamiera sanno essere a fine dicembre, e cominciare a corricchiare. Ricominciare, per la precisione, che lo stare seduti era solo una pausa. Calzamaglia pesante, maglia della tuta, berretto di lana. Pochi centimetri quadri di pelle regalati al vento freddo. Al di là della linea bianca imperversa la battaglia. Chili e chili da una parte, chili e chili dall’altra, placcaggi, botte, qualche sventagliata. Fiati corti e ben visibili, terreno ghiacciato, sangue rappreso su ginocchia e braccia. Il pallone ovale viaggia da una parte all’altra, sovente cade, si riparte da mischie su mischie. Il ragazzino si scalda. Vorrebbero scaldarsi tanto anche quelli che la partita la stanno guardando, lassù dalle seggioline di plastica e dai gradoni della tribuna. Hanno freddo in campo, pensatevi loro lì, fermi, appollaiati. Ogni tanto si alzano in piedi, si scuotono, restano in movimento. Come se fossero loro i prossimi ad entrare in campo, da un momento all’altro.

Quello che si muove di più è Beppe, senza dubbio.

È frenetico, nervoso, continua a scuotere le gambe, come a volerle sciogliere, come a voler dire che di lì a poco potrebbe dare il suo laggiù, nel rettangolo verde.

No, quel tic ce l’ha sempre avuto. Non gli pesa il freddo, mai avuto grossi problemi col termometro basso. In tanti si girano a guardarlo, ma chi lo conosce sa che in quei momenti Beppe va lasciato stare. Va capito. Perché lo sente a chilometri di distanza che quel ragazzino si è alzato dalla panca. Lo ha sentito da dentro la Club House, ha appena scaricato il pane ancora caldo. Ad ogni partita interna ci pensa lui, fa gli straordinari, “Gli straordinari più belli del mondo”, dice lui. Stavolta si prende una pausa però, perché quel ragazzino se lo vuole proprio coccolare con gli occhi, come la prima volta che l’ostetrica glielo posò tra le braccia. Un quintale di uomo che si scioglie in lacrime non è spettacolo che si vede tutti i giorni, non ci sono confronti con trofei, vittorie o mischie ribaltate che tengano.

Quel ragazzino cresce bene, forte, ma senza il collo taurino del padre. Occhi azzurri e capelli biondi, e chi li ha mai visti per casa? Chi ha più confidenza lo prende bellamente per il culo, “quello non è figlio tuo” “è il figlio del postino”, etc. etc. Beppe ride, che non è permaloso, poi offre da bere al primo terzo tempo utile. Fino a quel marzo maledetto, a quel placcaggio perfetto, forse troppo. Fino a quando sotto le sue callose grinfie di terza linea d’annata non arrivò un ragazzetto un po’ troppo sbruffone. Veloce, velocissimo, ma con una lingua lunga che ve la regalo. È un finale al fotofinish tra madre, moglie e altre parentele meno strette. Beppe è fondamentalmente un buono, ma dopo 60 minuti al ragazzino scappa un rimbalzo della palla e lui gli è addosso. Il tempismo è perfetto, l’avversario ha appena messo le mani sull’ovale che già lo perde. Si rialza stordito, accusa il colpo. Finisce il match. Arrivano terzo tempo e ritorno alla quotidianità.

Qualche giorno dopo, però, arriva una raccomandata: è la notifica di una querela per lesioni, il padre del ragazzino ha colpito come chi ha profonda sete di vendetta.

Si parla di trauma cranico. A Beppe cade il mondo addosso. In tribunale finisce a tarallucci e vino, Beppe si affida a Marco, suo ex mediano di apertura e avvocato che non ha perso la lucidità che aveva quando si trovava davanti i pali.

Il padre del ragazzino sbraita, vuole addirittura il carcere.

Ce ne sono di personaggi così, eh.

Ironia della sorte, il giudice aveva le orecchie a cavolfiore.

Pilone, qualche stagione e chilo fa.

Archiviò il tutto, si chiese chi gli aveva portato davanti quel caso da poco.

Poi ci fu solo la faccia del padre alla frase “se non vuole che suo figlio si faccia male c’è sempre il balletto”. Assolto, e che goduria.

Solo che la notizia arriva subito al suo capo, in falegnameria. “Non ho scelta, Beppe”.

Le logiche del paesino non sempre ricalcano quello che succede altrove, c’è sempre uno strascico di troppo, un ulteriore chiacchiericcio, un buonsenso regalato un tanto al chilo.

Cartellino rosso, licenziato.

Era lì dentro da 25 anni, li conosce tutti.

Li conosceva tutti.

Niente, bisogna reinventarsi a 40 anni. È dura ripartire da zero ad un’età in cui qualcosa dovresti già averla in mano. È dura tornare a casa la sera, sentire il bimbo piangere e trattenersi dal versare lacrime sul cuscino. Beppe è umano, non ce la fa. Piange per tutta la notte, non trova pace.

In paese in tanti parlano del fattaccio, tutti dicono che Beppe ha ragione, nessuno fa niente.

E allora tocca andar via, lavoro non ce n’è e non di sole belle parole può vivere un bimbo.

Il ragazzino, intanto, smette il berretto. Chioma bionda, di un disordine provvisorio e che ineluttabilmente tornerà nei ranghi. I garretti si muovono agili, Beppe li vede e si ricorda di quel giorno in cui tutto cambiò. Il piccoletto avrà avuto si e no 4 anni e sgambettava tra gli stand dell’autogrill. Difficile ricordare quale, sono quasi tutti uguali, soprattutto al nord, soprattutto se fuori imperversano autunno e nebbia, non necessariamente in quest’ordine. Suona il telefono, la brava e dolce Mary prosegue da sola la sua lieve caccia al piccoletto tra scaffali e improbabili confezioni regalo. Dall’altra parte del telefono una voce sconosciuta, quasi impercettibile nel casino di rustichelle e caffemacchiatiintazzagrandeconpannaaparte, così, tutto attaccato.

Sanno tutto di lui, del suo dentro e fuori dal campo, dalla falegnameria e dal tribunale, che hanno un lavoretto umile per lui. Niente di che, ma tranquillo e sicuro. La voce rantola un indirizzo ed un orario, sono una cinquantina di chilometri di strade provinciali e comunali. Una faticaccia, vista la nebbia, ma o così o così. Il placcaggio di Mary intanto ha funzionato, il bimbo se ne sta buono tra le sue braccia, si parte subito. La coltre di nebbia è pesante, invalicabile, ma navigatore e un po’ di colpo d’occhio portano la macchina a riposare in un parcheggio distante dal centro.

Centro, parliamone, è una frazione, saranno al massimo 2000 abitanti.

L’indirizzo porta ad una minuscola panetteria. Cavolo, saranno le 4 del pomeriggio ma è bella piena. La famiglia entra, Beppe si annuncia, appare un vecchietto gentile ma dallo sguardo risoluto. “Vieni con me”. Non dice altro, poi si fa seguire, Beppe dietro a ruota. Vanno nel retro.

“Ragazzo, mi hanno detto che tu te ne intendi di legname, giusto?”

“Diciamo di si..cosa devo fare?”

“Ah, una cosetta tranquilla. Siamo tra i pochi che hanno ancora il forno a legna qui nei dintorni, io sono troppo vecchio per procurarmene di buona e i miei figli fanno altro. Ecco perché ho pensato a te. Te la senti, ragazzo?”

Beppe non se l’aspettava. Si è visto davanti falegnami con le mani nodose, piloni lanciati in velocità, aperture che placcano. Ha cambiato pannolini, diviso birre con sconosciuti in fredde notti nebbiose, ma mai si sarebbe aspettato che un vecchietto sorridente e con la voce lieve e grattugiata da qualche sigaretta nazionale lo mettesse così alle corde.

E senza apparente contatto.

Ma accetta, diventa un dipendente de “La Casa del Pane” del signor Gabriele e non ci pensa troppo. Mai davanti, mai a contatto diretto con le siorette del paesino, che poi magari si spaventano e non fanno più la pasta al forno più buona del mondo. né riuscirebbero a smacchiare quelle macchie che solo loro sanno togliere.

Dietro, tra legna, fuoco e levatacce a procurare materia prima buona. Impara anche ad impastare, il vecchietto lo prende con sé e gli insegna il mestiere, poco alla volta, ma il ragazzo impara in fretta.

Una mattina di dicembre suona il telefono.

È lui.

“Ragazzo, ho una consegna da farti fare. Vieni al negozio. E porta il bimbo”.

Richiesta strana, che c’entra il bambino?

Ne parla anche a Mary, il bimbo ascolta e non sente più ragioni.

“Papà, voglio venire con te!”

Ciao, vince a mani basse. Il vecchio Giovanni li aspetta al solito parcheggio, un gran sacco a terra. “Porta tutto a questo indirizzo, ci vediamo domani”

“Domani? Signor Gabriele, il furgone glielo porto fra un’ora”

“Non preoccuparti, vai tranquillo e portami tutto domani”.

Il bimbo si mette la cintura e se ne sta lì, buono e tranquillo. Beppe si chiede spesso da chi abbia mai preso ‘sto ragazzino, visto che a 4 anni lui già vantava ginocchia sbucciate e gomiti scorticati ovunque. Poi arriva all’indirizzo.

Che strano, un campo sportivo. A chi lo porto il pane qua?

Scarica pane, bimbo e si avvia. Una volta gli avevano parlato di un bar dentro il campetto, magari il pane lo attendono lì.

Si, ma cavolo, sono le sei di sera, chi vuole pane fresco a quest’ora? Poi legge due parole.

Club House.

Poi nota i pali. E quelli che ci giocano sotto.

Cuore in ghiaccio.

“Tu devi essere Beppe! Benvenuto!”

Beppe non parla più, non capisce più nulla. Vorrebbe anche dire qualcosa, ma provateci voi a dire qualcosa, poi recapitate la vostra risposta qui.

“Sono Giovanni, vieni con me. Posa pure il pane, poi gli spogliatoi sono lì fuori, in fondo a destra”

“Spogliatoi?”

“Si, Gabriele non ti ha detto niente? Prova a guardare nel retro del furgone”. Poi dà un buffetto al piccoletto. “Dovrebbe esserci qualcosa anche per il piloncino”

Beppe apre il portellone. Dietro ad un sacco vuoto non aveva notato due borsoni, uno grande e uno piccolo. Riforniti di tutto punto.

“Il signor Gabriele è nostro sponsor, quando ha saputo di te e della tua storia ci ha avvisato subito e ci ha chiesto informazioni. Oh, di te si è parlato e anche parecchio. Certo che ce ne vuole di culo per trovarsi il giudice pilone eh?”

Occhiolino, poi prepara due birre.

“Dai, beviamo, appoggia qui e vai a cambiarti, al piccolino ci pensiamo noi”.

Beppe non lo ammetterà mai, ma c’è chi giura e spergiura che quella notte abbia lasciato il cuscino umido di lacrime. Trova nuovi amici, nuovi compagni di birra, diventa proprietario de “La Casa del Pane” quando il buon Gabriele dispiega le ali verso la pensione.

Il bimbo intanto ha messo il caschetto. Al di là della linea bianca imperversa la battaglia. Chili e chili da una parte, chili e chili dall’altra, placcaggi, botte.

Il biondino si è fatto strada in allenamento, ora è giusto che inizi le sue battaglie.

Giovanni lo ha visto crescere, poi è andato da Beppe: “Oh, il tuo ragazzino non sarà un killer come te, ma ha due mani e due piedi che cantano. Io te lo dico, questo fa strada”.

Beppe sorrise. E sorride ancora, il suo piccolino sta entrando in campo.

È sabato 24 dicembre, il rugby (forse) ha una nuova stella.

Beppe lo sa, vede sugli spalti la sua Mary, entrambi sorridono.

Il bimbetto, biondo sotto il caschetto alla Larkham, entra in campo. In tanti non se ne accorgono, qualcuno gli dà una pacca sulle spalle, qualcuno si raccomanda. Qualcuno ha già capito cosa gli aspetta e cosa succederà, se qualcuno dovesse crederci fino in fondo.

Dicono avrà futuro, dicono potrebbe cambiare tutto. Dicono che uno così poi non l’hanno più visto, altri giurano che un giorno tornerà a sciogliersi un po’ ai bordi di quel campo. Non è dato saperlo.

 

Forse questa storia l’avete già sentita da qualche parte, scritta e raccontata  con parole migliori di queste.

Forse può essere capitata, a voi o a chi avete la fortuna di conoscere.

Forse anche voi siete in giro nella nebbia a cercare qualcosa, o qualcuno, che dia speranza ancora, sotto forma di lavoro, di una birra o di una serata tra risate e schiamazzi. Di una donna, due donne, quante ne volete. Del sorriso dei vostri figli.

E se non l’avete ancora, questo qualcosa, vi auguriamo di trovarlo, prima o poi.

 

Buon Natale a tutti.

Debutto (Storia di Natale)

Debutto

“Scaldati”. No, nessuna voce, nessun labiale. Ma vedi il ragazzino alzarsi dalla panca di legno e lamiera, fredda come solo del legno e della lamiera sanno essere a fine dicembre, e cominciare a corricchiare. Ricominciare, per la precisione, che lo stare seduti era solo una pausa. Calzamaglia pesante, maglia della tuta, berretto di lana. Pochi centimetri quadri di pelle regalati al vento freddo. Al di là della linea bianca imperversa la battaglia. Chili e chili da una parte, chili e chili dall’altra, placcaggi, botte, qualche sventagliata. Fiati corti e ben visibili, terreno ghiacciato, sangue rappreso su ginocchia e braccia. Il pallone ovale viaggia da una parte all’altra, sovente cade, si riparte da mischie su mischie. Il ragazzino si scalda. Vorrebbero scaldarsi tanto anche quelli che la partita la stanno guardando, lassù dalle seggioline di plastica e dai gradoni della tribuna. Hanno freddo in campo, pensatevi loro lì, fermi, appollaiati. Ogni tanto si alzano in piedi, si scuotono, restano in movimento. Come se fossero loro i prossimi ad entrare in campo, da un momento all’altro. Quello che si muove di più è Beppe, senza dubbio. È frenetico, nervoso, continua a scuotere le gambe, come a volerle sciogliere, come a voler dire che di lì a poco potrebbe dare il suo laggiù, nel rettangolo verde. No, quel tic ce l’ha sempre avuto. Non gli pesa il freddo, mai avuto grossi problemi col termometro basso. In tanti si girano a guardarlo, ma chi lo conosce sa che in quei momenti Beppe va lasciato stare. Va capito. Perché lo sente a chilometri di distanza che quel ragazzino si è alzato dalla panca. Lo ha sentito da dentro la Club House, ha appena scaricato il pane ancora caldo. Ad ogni partita interna ci pensa lui, fa gli straordinari, “Gli straordinari più belli del mondo”, dice lui. Stavolta si prende una pausa però, perché quel ragazzino se lo vuole proprio coccolare con gli occhi, come la prima volta che l’ostetrica glielo posò tra le braccia. Un quintale di uomo che si scioglie in lacrime non è spettacolo che si vede tutti i giorni, non ci sono confronti con trofei, vittorie o mischie ribaltate che tengano.

Quel ragazzino cresce bene, forte, ma senza il collo taurino del padre. Occhi azzurri e capelli biondi, e chi li ha mai visti per casa? Chi ha più confidenza lo prende bellamente per il culo, “quello non è figlio tuo” “è il figlio del postino”, etc. etc. Beppe ride, che non è permaloso, poi offre da bere al primo terzo tempo utile. Fino a quel marzo maledetto, a quel placcaggio perfetto, forse troppo. Fino a quando sotto le sue callose grinfie di terza linea d’annata non arrivò un ragazzetto un po’ troppo sbruffone. Veloce, velocissimo, ma con una lingua lunga che ve la regalo. È un finale al fotofinish tra madre, moglie e altre parentele meno strette. Beppe è fondamentalmente un buono, ma dopo 60 minuti al ragazzino scappa un rimbalzo della palla e lui gli è addosso. Il tempismo è perfetto, l’avversario ha appena messo le mani sull’ovale che già lo perde. Si rialza stordito, accusa il colpo. Finisce il match. Arrivano terzo tempo e ritorno alla quotidianità.

Qualche giorno dopo, però, arriva una raccomandata: è la notifica di una querela per lesioni, il padre del ragazzino ha colpito come chi ha profonda sete di vendetta. Si parla di trauma cranico. A Beppe cade il mondo addosso. In tribunale finisce a tarallucci e vino, Beppe si affida a Marco, suo ex mediano di apertura e avvocato che non ha perso la lucidità che aveva quando si trovava davanti i pali. Il padre del ragazzino sbraita, vuole addirittura il carcere. Ce ne sono di personaggi così, eh. Ironia della sorte, il giudice aveva le orecchie a cavolfiore. Pilone, qualche stagione e chilo fa. Archiviò il tutto, si chiese chi gli aveva portato davanti quel caso da poco. Poi ci fu solo la faccia del padre alla frase “se non vuole che suo figlio si faccia male c’è sempre il balletto”. Assolto, e che goduria. Solo che la notizia arriva subito al suo capo, in falegnameria. “Non ho scelta, Beppe”.

Cartellino rosso, licenziato.

Era lì dentro da 25 anni, li conosce tutti.

Li conosceva tutti.

Niente, bisogna reinventarsi a 40 anni. È dura ripartire da zero ad un’età in cui qualcosa dovresti già averla in mano. È dura tornare a casa la sera, sentire il bimbo piangere e trattenersi dal versare lacrime sul cuscino. Beppe è umano, non ce la fa. Piange per tutta la notte, non trova pace. In paese in tanti parlano del fattaccio, tutti dicono che Beppe ha ragione, nessuno fa niente. E allora tocca andar via, lavoro non ce n’è e non di sole belle parole può vivere un bimbo.

Il ragazzino, intanto, smette il berretto. Chioma bionda, di un disordine provvisorio e che ineluttabilmente tornerà nei ranghi. I garretti si muovono agili, Beppe li vede e si ricorda di quel giorno in cui tutto cambiò. Il piccoletto avrà avuto si e no 4 anni e sgambettava tra gli stand dell’autogrill. Difficile ricordare quale, sono quasi tutti uguali, soprattutto al nord, soprattutto se fuori imperversano autunno e nebbia, non necessariamente in quest’ordine. Suona il telefono, la brava e dolce Mary prosegue da sola la sua lieve caccia al piccoletto tra scaffali e improbabili confezioni regalo. Dall’altra parte del telefono una voce sconosciuta, quasi impercettibile nel casino di rustichelle e caffemacchiatiintazzagrandeconpannaaparte, tutto attaccato. Sanno tutto di lui, del suo dentro e fuori dal campo, dalla falegnameria e dal tribunale, che hanno un lavoretto umile per lui. Niente di che, ma tranquillo e sicuro. La voce rantola un indirizzo ed un orario, sono una cinquantina di chilometri di strade provinciali e comunali. Una faticaccia, vista la nebbia, ma o così o così. Il placcaggio di Mary intanto ha funzionato, il bimbo se ne sta buono tra le sue braccia, si parte subito. La coltre di nebbia è pesante, invalicabile, ma navigatore e un po’ di colpo d’occhio portano la macchina a riposare in un parcheggio distante dal centro. Centro, parliamone, è una frazione, saranno al massimo 2000 abitanti. L’indirizzo porta ad una minuscola panetteria. Cavolo, saranno le 4 del pomeriggio ma è bella piena. La famiglia entra, Beppe si annuncia, appare un vecchietto gentile ma dallo sguardo risoluto. “Vieni con me”. Non dice altro, poi si fa seguire, Beppe dietro a ruota. Vanno nel retro.

“Ragazzo, mi hanno detto che tu te ne intendi di legname, giusto?”

“Diciamo di si..cosa devo fare?”

“Ah, una cosetta tranquilla. Siamo tra i pochi che hanno ancora il forno a legna qui nei dintorni, io sono troppo vecchio per procurarmene di buona e i miei figli fanno altro. Ecco perché ho pensato a te. Te la senti, ragazzo?”

Beppe non se l’aspettava. Si è visto davanti falegnami con le mani nodose, piloni lanciati in velocità, aperture che placcano. Ha cambiato pannolini, diviso birre con sconosciuti in fredde notti nebbiose, ma mai si sarebbe aspettato che un vecchietto sorridente e con la voce lieve e grattugiata lo mettesse così alle corde. E senza apparente contatto. Ma accetta, diventa un dipendente de “La Casa del Pane” del signor Gabriele e non ci pensa troppo. Mai davanti, mai a contatto diretto con le siorette del paesino, che poi magari si spaventano e non fanno più la pasta al forno più buona del mondo. Dietro, tra legna, fuoco e levatacce a procurare materia prima buona. Impara anche ad impastare, il vecchietto lo prende con sé e gli insegna il mestiere, poco alla volta, ma il ragazzo impara in fretta.

Una mattina di dicembre suona il telefono. È lui.

“Ragazzo, ho una consegna da farti fare. Vieni al negozio. E porta il bimbo”.

Richiesta strana, che c’entra il bambino?

Ne parla anche a Mary, il bimbo ascolta e non sente più ragioni.

“Papà, voglio venire con te!”

Ciao, vince a mani basse. Il vecchio Giovanni li aspetta al solito parcheggio, un gran sacco a terra. “Porta tutto a questo indirizzo, ci vediamo domani”

“Domani? Signor Gabriele, il furgone glielo porto fra un’ora”

“Non preoccuparti, vai tranquillo e portami tutto domani”.

Il bimbo si mette la cintura e se ne sta lì, buono e tranquillo. Beppe si chiede spesso da chi abbia mai preso ‘sto ragazzino, visto che a 4 anni lui già vantava ginocchia sbucciate e gomiti scorticati ovunque. Poi arriva all’indirizzo.

Che strano, un campo sportivo. A chi lo porto il pane qua?

Scarica pane, bimbo e si avvia. Una volta gli avevano parlato di un bar dentro il campetto, magari il pane lo attendono lì. Si, ma cavolo, sono le 6 di sera, chi vuole pane fresco a quest’ora? Poi legge due parole.

Club House.

Poi nota i pali. E quelli che ci giocano sotto.

Cuore in ghiaccio.

“Tu devi essere Beppe! Benvenuto!”

Beppe non parla più, non capisce più nulla. Vorrebbe anche dire qualcosa, ma provateci voi a dire qualcosa, poi recapitate la vostra risposta qui.

“Sono Giovanni, vieni con me. Posa pure il pane, poi gli spogliatoi sono lì fuori, in fondo a destra”

“Sp-spogliatoi?”

“Si, Gabriele non ti ha detto niente? Prova a guardare nel retro del furgone”. Poi dà un buffetto al piccoletto. “Dovrebbe esserci qualcosa anche per il piloncino”

Beppe apre il portellone. Dietro ad un sacco vuoto non aveva notato due borsoni, uno grande e uno piccolo. Riforniti di tutto punto.

“Il signor Gabriele è nostro sponsor, quando ha saputo di te e della tua storia ci ha avvisato subito e ci ha chiesto informazioni. Oh, di te si è parlato e anche parecchio. Certo che ce ne vuole di culo per trovarsi il giudice pilone eh?” Fa l’occhiolino, poi prepara due birre. “Dai, beviamo, appoggia qui e vai a cambiarti, al piccolino ci pensiamo noi”.

Beppe non lo ammetterà mai, ma c’è chi giura e spergiura che quella notte abbia lasciato il cuscino umido di lacrime. Trova nuovi amici, nuovi compagni di birra, diventa proprietario de “La Casa del Pane” quando il buon Gabriele dispiega le ali verso la pensione.

Il bimbo intanto ha messo il caschetto. Al di là della linea bianca imperversa la battaglia. Chili e chili da una parte, chili e chili dall’altra, placcaggi, botte.

Il biondino si è fatto strada in allenamento, ora è giusto che inizi le sue battaglie.

Giovanni lo ha visto crescere, poi è andato da Beppe: “Oh, il tuo ragazzino non sarà un killer come te, ma ha due mani e due piedi che cantano. Io te lo dico, questo fa strada”.

Beppe sorrise. E sorride ancora, il suo piccolino sta entrando in campo.

È sabato 24 dicembre, il rugby (forse) ha una nuova stella.

Beppe lo sa, vede sugli spalti la sua Mary, entrambi sorridono.

Il bimbetto, biondo sotto il caschetto alla Larkham, entra in campo. In tanti non se ne accorgono, qualcuno gli dà una pacca sulle spalle, qualcuno si raccomanda. Qualcuno ha già capito cosa gli aspetta e cosa succederà, se qualcuno dovesse crederci fino in fondo.

Dicono avrà futuro, dicono potrebbe cambiare tutto. Dicono che uno così poi non l’hanno più visto, altri giurano che un giorno tornerà a sciogliersi un po’ ai bordi di quel campo. Non è dato saperlo.

 

Forse questa storia l’avete già sentita da qualche parte, scritta e raccontata  con parole migliori di queste.

Forse può essere capitata, a voi o a chi avete la fortuna di conoscere.

Forse anche voi siete in giro nella nebbia a cercare qualcosa, o qualcuno, che dia speranza ancora, sotto forma di lavoro, di una birra o di una serata tra risate e schiamazzi. Di una donna, due donne, quante ne volete. Del sorriso dei vostri figli.

E se non l’avete ancora, questo qualcosa, vi auguriamo di trovarlo, prima o poi.

 

Buon Natale a tutti.

Debutto