Capro espiatorio

Troncon prende la palla in mano, sotto la pioggia di Saint-Etienne. Mancano cinque minuti scarsi, l’arbitro ha appena fischiato un calcio di punizione per un intervento troppo garibaldino in maul da parte di un pilone scozzese. Linea dei dieci metri nemmeno toccata, molto angolato, a naso sono più di cinquanta metri. Il capitano si guarda attorno, vede il suo estremo venirgli incontro. Gli parla in francese. David ha un nonno di Sesto al Reghena, provincia di Pordenone, ma la lingua italiana, al di là delle Alpi, si perde ben prima che trascorrano due generazioni e difficilmente si recupera.

-Te la senti?

– Sì.

Coraggio o incoscienza, fate voi.

Perché per affrontare un momento del genere prendendo una decisione così di petto ci vogliono attributi grandi come una casa. Oppure un distacco dalla realtà di quelli da curare con sessanta euro all’ora.

Poi calcia.

David Bortolussi, estremo proveniente dal massimo campionato francese, ci estromette dai quarti di finale. Perché da noi, storicamente, va così. Il carro si riempie quando si vince, ma quando si perde lo tira solamente il capro espiatorio di turno. Perché va chiaramente detto, quella sera di fine settembre abbiamo tutti – chi più chi meno – estratto delle frecce avvelenate dalla nostra faretra dei giorni buoni e le abbiamo puntate contro quella maglia bianca numero 15. Tutti.

Solo che quei quarti di finale li abbiamo cominciati a perdere un po’ prima del fischio finale di Kaplan.

Forse li abbiamo persi di vista quando ci siamo resi conto che avremmo potuto sognare in grande, dopo il nostro miglior risultato di sempre al 6 Nazioni. Perché non avevamo mai vinto in trasferta come ad Edimburgo, e soprattutto perché non abbiamo mai bissato il primo successo come contro il Galles. Risultati storici, a cui va aggiunta la commovente prestazione di Twickenham, paradossalmente forse la nostra miglior partita di quel torneo. L’Italia di Pierre Berbizier è una squadra bella, scanzonata, varia nel suo gioco. Ha almeno due intere prime linee di livello mondiale, due fenomeni in terza, un mediano di mischia dall’intelligenza tattica sopraffina e almeno un paio di trequarti in grado di inventarsi la giocata decisiva.

Tutto quello che serve.

O forse no.

Siamo corti invece, cortissimi. Riusciamo a schierare dei buonissimi XV titolari, ma quando si accende la spia della riserva sono guai. Un esempio su tutti: nell’ultimo match del Sei Nazioni 2007 giochiamo senza Mauro Bergamasco, squalificato. Al suo posto inizia Maurizio Zaffiri, roccioso flanker aquilano, che però si rompe subito. Siamo costretti a giocare per settanta minuti con Simon Picone, mediano di mischia della Benetton, in terza linea. Duriamo un tempo, poi crolliamo. Per ovviare a questa situazione Berbizier e il suo staff cominciano già nel 2006 a guardarsi intorno. Si cercano italiani di seconda o terza generazione. Ce ne sono parecchi in giro per il mondo, vista la robusta storia migratoria italiana. Qualcuno di loro, per la legge dei grandi numeri, un pallone ovale lo dovrebbe saper trattare a modo. Avessero tutti risposto affermativamente avremmo risolto un paio di problemi. Non accetterà, per esempio, il pronipote di Raffaele Romano, nativo di Massa Lubrense ed emigrato a Nelson nel 192. È un ragazzone di due metri e con un 52 e mezzo di piede, particolarmente a suo agio in volo, gli avevano proposto di trasferirsi in Italia, ma disse che voleva provarci prima a Christchurch e con gli All Blacks. Eh, non aveva tutti i torti, Luke Romano. In Federazione Inglese, invece, ancora si chiedono chi abbia avuto la brillante idea di chiedere lumi su un giovane mediano di apertura in forza ai Wasps, tale Danny Cipriani. Probabilmente stanno ancora ridendo. Accettano, tra gli altri, Marko Stanojevic, ala di Bristol dallo scatto bruciante, figlio di un serbo e una italiana, e David Bortolussi, estremo del Montpellier nel Top14, dotato di gran piede. Nel giugno del 2006 battiamo il Giappone e perdiamo contro le Fiji schierando alcuni debuttanti, poi ci prepariamo a puntino per le qualificazioni alla Coppa del Mondo. Il gironcino a tre ci vede opposti a Portogallo e Russia. Segniamo centocinquanta punti in due partite, ma non è questo il punto: ci accorgiamo che due ali come Stanojevic e Robertson, insieme, aumentano a dismisura il nostro potenziale offensivo. Bortolussi ha un piede molto potente e anche discretamente preciso. A novembre teniamo sotto scacco l’Australia a Roma e perdiamo contro i Pumas una partita che potevamo tranquillamente portare a casa, poi si torna al 6 Nazioni dei record.

No, con quei presupposti non possiamo essere una sorpresa, nonostante qualche infortunio di troppo, e infatti facciamo bene.

Però.

C’è un però.

Ce ne sarebbero vari, in verità.

Berbizier, per esempio. Il ct azzurro ha tante qualità, ma non è certo un diplomatico. In un incontro con la stampa, nel 2006, qualcuno gli chiede cosa serva a questa Italia per diventare una grande squadra. “Servono un capitano, un calciatore e tredici giocatori. Presidente, mi servono un capitano e un calciatore”. Marco Bortolami non è troppo distante e non può non sentire. Tra i due, nonostante una riappacificazione dopo le due vittorie con Scozia e Galles, non sarà più come prima. L’aneddotica ovale narra di un vero e proprio tentativo di destituzione del capitano nell’intervallo del test autunnale contro il Canada. Non è elegantissimo nei modi, poi, nell’annunciare la sua partenza a fine Coppa del Mondo. Ha ricevuto una proposta dal Racing Metro, nella seconda serie francese, e non ci pensa due volte. L’effetto sul gruppo azzurro è devastante.

A giugno una selezione azzurra se ne va in Uruguay e Argentina. Ci sono alcuni senatori e molti azzurrabili che si giocano il posto. Non c’è Andrea Scanavacca, uno degli eroi di Murrayfield. Sarà l’unico di quella squadra a non venir nemmeno preso in considerazione per la Coppa del Mondo. L’altra sorpresa sarà l’assenza per infortunio di Nieto, el Chango, pilone dei Saracens tra i migliori delle nostre spedizioni. Peccato che in Inghilterra giochi e pure parecchio. In Sudamerica vinciamo senza brillare contro i generosi Teros, poi perdiamo male contro i Pumas, anch’essi in versione sperimentale. Ad agosto giochiamo a sprazzi contro il Giappone di John Kirwan e veniamo clamorosamente scippati in Irlanda, con l’arbitro che allo scadere convalida una meta di O’Gara che non sta né in cielo né in terra. Quel giorno ci rendiamo conto che se non facciamo cazzate la qualificazione ce la possiamo pure portare a casa, tra un drop chilometrico di Bortolussi, una arata in mischia e una scorribanda di Robertson.

È presto, però.

Il girone è fattibile, dobbiamo affrontare nell’ordine Nuova Zelanda, Romania, Portogallo e Scozia. Tutto lascia pensare ad un percorso ideale, con un picco di forma da raggiungere a fine settembre, proprio in previsione del match – presumibilmente – da dentro o fuori contro gli scozzesi. Il problema, però, è dietro l’angolo. Qualcuno dallo staff propone ai giocatori di girare le spalle all’Haka nel primo match del girone. La direttiva arriva inevitabilmente da Berbizier, che così facendo vorrebbe ricompattare le file azzurre. Il gruppo, se possibile, si spacca ancora di più. Capitan Bortolami decide di far votare i compagni, lo scontro è praticamente alla pari, ma vince l’idea del commissario tecnico. Nella storia, prima di allora, solamente una persona aveva deciso di ignorare palesemente l’haka prima di un match. Aveva pure un po’ a che fare con l’Italia, visto che i suoi avi arrivavano da Montecchio Precalcino, in provincia di Vicenza.

Solo che quello lì, che di nome faceva David e di cognome Campese, sapeva benissimo quel che stava facendo, e quel giorno gli All Blacks li battè praticamente da solo.

Noi, dopo venti minuti, siamo sotto di quasi quaranta punti. Perché se quelli vestiti di nero li fai incazzare devi assicurarti di avere, in caso il talento non fosse quello degli eletti, elmetti a sufficienza. Non va così: Dan Carter e soci si rendono conto che i metri di distanza tra la nostra prima linea di difesa e la seconda sono sufficienti per costruirci un ampio parcheggio, ci bombarderanno lì.

Finisce 76 a 14, è un massacro. Non tanto per le proporzioni del punteggio, quanto per gli strascichi che lascerà nelle teste degli azzurri da lì a Saint-Etienne. Contro la Romania, per esempio, segniamo subito con Dellapé, ma poi spariamo dal campo. I romeni non sono dei fenomeni, nonostante i migliori giochino nel massimo campionato francese, ma contro di noi sembrano a lungo dei campioni. E per fortuna che il loro estremo, una vera catapulta al piede, non ne azzecca una dalla piazzola. A girare il match è la prestazione di Troncon, entrato nella ripresa e in grado di ridare ai compagni linfa e cattiveria perdute. E non va meglio contro i portoghesi, semiprofessionisti a cui un anno prima avevamo affibbiato un eloquente 83 a 0. Va subito a segno Masi, poi Bortolami si fa cacciare per dieci minuti. Mai visto il capitano così nervoso come a questa Coppa del Mondo. Marco paga per tutti, forse, il trovarsi tra l’incudine e il martello nel momento di massima tensione. Sono gli ultimi suoi istanti da capitano in una Coppa del Mondo, nel suo battibecco con un lusitano ha preso un colpo subdolo ma pericoloso alla cervicale, cosa che lo costringerà al collarino. Nel frattempo i portoghesi vanno in meta. Non la possono vincere, non la potrebbero veramente mai vincere, ma ci provano, cosa che a noi non passa nemmeno per la testa. Riusciamo ad allungare solamente al piede, prima che la stanchezza fermi del tutto i nostri avversari, inermi mentre chiudiamo la partita. Potremmo anche cercare il punto di bonus, ma Canale calcia inspiegabilmente il pallone fuori.

Ecco, no, non ci arriviamo bene a Saint-Etienne. Siamo fragili, involuti, i cugini timidi di quegli atleti in grado di mettere a ferro e fuoco Murrayfield e di mandare in crisi di nervi gli scozzesi. Scozzesi che finora hanno fatto tutto quel che serviva: hanno vinto con autorevolezza contro Romania e Portogallo, hanno perso male con gli All Blacks, ma dando l’impressione di aver tenuto qualche carta nascosta. Contro gli azzurri, tra gli altri, si rivedono capitan Jason Taylor e Dan Parks, assenti a febbraio. Resta fuori Scott Murray, uno dei leader della touche, al suo posto gioca Jim Hamilton, molto più pesante e abrasivo in mischia. Frank Hadden ha un piano molto evidente: pochi fronzoli, si tiene in mischia e cerchiamo di costringerli al fallo. Poi ci pensa Chris. Chris Paterson, uno dei calciatori più letali del rugby europeo. Dà il suo meglio da ala, ma può realmente giocare ovunque: apertura, estremo, volendo anche centro. Contro un giocatore del genere non ci si può permettere alcun fallo veniale, altrimenti sono tre punti quasi automatici.  È stato l’ultimo ad arrendersi al Sei Nazioni contro di noi, è il primo a marcare punti a Saint-Etienne. Due infrazioni, due calci nei primi cinque minuti, sei a zero.  Matematico. Noi siamo nervosissimi, non riusciamo a capire cosa ci stia realmente succedendo. A svegliarci è Mauro Bergamasco, costretto a fermare fallosamente un avversario lanciato in meta. Cartellino giallo, stavolta loro vanno in touche, vogliono mandarci fuori dal match il prima possibile. Solo che in qualche modo ci salviamo. E alla prima occasione utile facciamo male: Pez fuori dai 22 spara nell’alto dei cieli un pallone reso infido dalla pioggia incessante. I nostri centri si gettano sul punto di caduta, Mirco Bergamasco nella foga travolge l’arbitro. Il pallone è una saponetta, lo controlliamo noi. Troncon sulla linea di meta finta il passaggio ed entra di prepotenza, meta e sorpasso. Lo stadio ha un sussulto: la capienza massima è di circa 23000 spettatori, di cui circa la metà tifa Italia. Sono lì dall’alba, hanno preso confidenza con tribune e spalti sin dalla mattina, hanno pasteggiato vicino alle loro macchine più o meno come fecero quelli che se ne andarono a Grenoble a marzo del 1997. Dopo un inizio veramente difficile hanno dimenticato tutto e si stanno sgolando tutti, dal primo all’ultimo, compreso Marcello Lippi, che di Coppe del Mondo qualcosa ne sa.

Sembra l’inizio di una nuova partita, anche perché poco dopo Bortolussi arrotonda dalla piazzola, 10 a 6. Non è così. Perché Hadden ha imparato benissimo la lezione di febbraio: contro questo tipo di Italia non si possono lasciare punti per strada. Quelle nove punizioni calciate in touche a Murrayfield avrebbero potuto far molto comodo se calciate tra i pali, soprattutto in un finale senza rincorse e senza rischio di andare in riserva. E, soprattutto, contro la squadra messa in campo da Berbizier non ci si può improvvisare grandi pirotecnici al largo, ed è questo il motivo per cui Dan Parks è in campo: ogni volta che può, l’apertura di origine australiana ci ricaccia indietro, ci costringe a giocare nella nostra metà campo. Le conseguenze di tutto questo portano la Scozia ancora avanti: due sciocchezze di Troncon e Bergamasco (un placcaggio alto e uno sgambetto) e torniamo sotto. Bortolussi prova due volte da distanza siderale, ma il pallone esce a lato. Paterson, nella ripresa, arrotonda con altri due calci.

È dura, è durissima. Ma negli ultimi venti minuti riusciamo finalmente a scuoterci e a far vedere il nostro miglior rugby dell’ultimo mese: azioni ficcanti, mediana finalmente libera dai legacci tattici, i primi cinque uomini finalmente in grado di far strada. Hines si becca un giallo per un fallo professionale, centriamo i pali per due volte e torniamo a distanza di calcio. La partita diventa un braccio di ferro in cui nessuno dei contendenti riesce a piegare l’altrui resistenza: si gioca prevalentemente a centrocampo, con poche variazioni dovute ai calci tattici di Parks e Paterson da una parte e di Bortolussi e Pez dall’altra. Ramiro ancora non lo sa, ma è al suo ultimo match in azzurro. È forse il giocatore che più ha sofferto il confronto con Sua Maestà Diego Dominguez, essendo stato il primo a prenderne il posto. È stato epurato da Kirwan prima del Mondiale 2003, si è ripreso il posto grazie ad una enorme prestazione contro i Pumas a Belgrano, agli albori della gestione Berbizier. È il numero 10 forse più offensivo che abbiamo avuto negli ultimi vent’anni, in grado di rompere a ripetizione le linee avversarie, ma a Saint-Etienne sta giocando dietro la linea e sta usando praticamente solo la tomaia tattica. I trequarti scozzesi sono grossi, potenti, ma non sono eccessivamente veloci, uno come lui potrebbe far comodo. Ma si continua a calciare.

Gli scozzesi, ad ogni modo, cominciano a perdere colpi. Fanno falli, perdono terreno. È vero, in touche sono più forti, l’assenza di Bortolami si sta facendo sentire più del dovuto, ma non sono più quelli del primo minuto. Manca la lucidità, quella che ti permette di stare al tuo posto in una maul a cinquanta metri dai pali. Linea dei dieci metri nemmeno toccata, molto angolato, a naso sono più di cinquanta metri. Il capitano si guarda attorno, vede il suo estremo venirgli incontro. Gli parla in francese. David ha un nonno di Sesto al Reghena, provincia di Udine, ma la lingua italiana, al di là delle Alpi, si perde ben prima che trascorrano due generazioni e difficilmente si recupera.

-Te la senti?

– Sì.

Lo sappiamo tutti com’è finita.

E lo sappiamo tutti a chi abbiamo dedicato le nostre peggiori frecce avvelenate. Perché se quel calcio fosse entrato staremmo tutti parlando di Bortolussi eroe azzurro, anziché di uno scarso panchinaro francese, e delle non dolcissime parole dedicategli da Pierre Berbizier il giorno della sua prima convocazione (“Si era bono giocava con Fransia”).  Gli avrebbero fatto fare un paio di spot pubblicitari e almeno qualche ospitata televisiva. Sesto al Reghena sarebbe diventata una sorta di Meadsville in salsa italica. Forse parleremmo di una storica Italia ai suoi primi quarti di finale, ad una sfida sulla carta non improba con i Pumas, di un movimento che da lì sarebbe decollato fino a toccare vette inesplorate. Di qualche showgirl che comincia ad impazzire volentieri per una palla ovale.

E invece, per colpa di David Bortolussi, siamo usciti.

Perché è stata solamente colpa sua. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo,
come lacrime nella pioggia di Saint-Etienne.

E chi dice il contrario non sa nemmeno com’è fatto, un carro dei vincitori.

E nemmeno un capro espiatorio.

Capro espiatorio

Lascia un commento