Capro espiatorio

Troncon prende la palla in mano, sotto la pioggia di Saint-Etienne. Mancano cinque minuti scarsi, l’arbitro ha appena fischiato un calcio di punizione per un intervento troppo garibaldino in maul da parte di un pilone scozzese. Linea dei dieci metri nemmeno toccata, molto angolato, a naso sono più di cinquanta metri. Il capitano si guarda attorno, vede il suo estremo venirgli incontro. Gli parla in francese. David ha un nonno di Sesto al Reghena, provincia di Pordenone, ma la lingua italiana, al di là delle Alpi, si perde ben prima che trascorrano due generazioni e difficilmente si recupera.

-Te la senti?

– Sì.

Coraggio o incoscienza, fate voi.

Perché per affrontare un momento del genere prendendo una decisione così di petto ci vogliono attributi grandi come una casa. Oppure un distacco dalla realtà di quelli da curare con sessanta euro all’ora.

Poi calcia.

David Bortolussi, estremo proveniente dal massimo campionato francese, ci estromette dai quarti di finale. Perché da noi, storicamente, va così. Il carro si riempie quando si vince, ma quando si perde lo tira solamente il capro espiatorio di turno. Perché va chiaramente detto, quella sera di fine settembre abbiamo tutti – chi più chi meno – estratto delle frecce avvelenate dalla nostra faretra dei giorni buoni e le abbiamo puntate contro quella maglia bianca numero 15. Tutti.

Solo che quei quarti di finale li abbiamo cominciati a perdere un po’ prima del fischio finale di Kaplan.

Forse li abbiamo persi di vista quando ci siamo resi conto che avremmo potuto sognare in grande, dopo il nostro miglior risultato di sempre al 6 Nazioni. Perché non avevamo mai vinto in trasferta come ad Edimburgo, e soprattutto perché non abbiamo mai bissato il primo successo come contro il Galles. Risultati storici, a cui va aggiunta la commovente prestazione di Twickenham, paradossalmente forse la nostra miglior partita di quel torneo. L’Italia di Pierre Berbizier è una squadra bella, scanzonata, varia nel suo gioco. Ha almeno due intere prime linee di livello mondiale, due fenomeni in terza, un mediano di mischia dall’intelligenza tattica sopraffina e almeno un paio di trequarti in grado di inventarsi la giocata decisiva.

Tutto quello che serve.

O forse no.

Siamo corti invece, cortissimi. Riusciamo a schierare dei buonissimi XV titolari, ma quando si accende la spia della riserva sono guai. Un esempio su tutti: nell’ultimo match del Sei Nazioni 2007 giochiamo senza Mauro Bergamasco, squalificato. Al suo posto inizia Maurizio Zaffiri, roccioso flanker aquilano, che però si rompe subito. Siamo costretti a giocare per settanta minuti con Simon Picone, mediano di mischia della Benetton, in terza linea. Duriamo un tempo, poi crolliamo. Per ovviare a questa situazione Berbizier e il suo staff cominciano già nel 2006 a guardarsi intorno. Si cercano italiani di seconda o terza generazione. Ce ne sono parecchi in giro per il mondo, vista la robusta storia migratoria italiana. Qualcuno di loro, per la legge dei grandi numeri, un pallone ovale lo dovrebbe saper trattare a modo. Avessero tutti risposto affermativamente avremmo risolto un paio di problemi. Non accetterà, per esempio, il pronipote di Raffaele Romano, nativo di Massa Lubrense ed emigrato a Nelson nel 192. È un ragazzone di due metri e con un 52 e mezzo di piede, particolarmente a suo agio in volo, gli avevano proposto di trasferirsi in Italia, ma disse che voleva provarci prima a Christchurch e con gli All Blacks. Eh, non aveva tutti i torti, Luke Romano. In Federazione Inglese, invece, ancora si chiedono chi abbia avuto la brillante idea di chiedere lumi su un giovane mediano di apertura in forza ai Wasps, tale Danny Cipriani. Probabilmente stanno ancora ridendo. Accettano, tra gli altri, Marko Stanojevic, ala di Bristol dallo scatto bruciante, figlio di un serbo e una italiana, e David Bortolussi, estremo del Montpellier nel Top14, dotato di gran piede. Nel giugno del 2006 battiamo il Giappone e perdiamo contro le Fiji schierando alcuni debuttanti, poi ci prepariamo a puntino per le qualificazioni alla Coppa del Mondo. Il gironcino a tre ci vede opposti a Portogallo e Russia. Segniamo centocinquanta punti in due partite, ma non è questo il punto: ci accorgiamo che due ali come Stanojevic e Robertson, insieme, aumentano a dismisura il nostro potenziale offensivo. Bortolussi ha un piede molto potente e anche discretamente preciso. A novembre teniamo sotto scacco l’Australia a Roma e perdiamo contro i Pumas una partita che potevamo tranquillamente portare a casa, poi si torna al 6 Nazioni dei record.

No, con quei presupposti non possiamo essere una sorpresa, nonostante qualche infortunio di troppo, e infatti facciamo bene.

Però.

C’è un però.

Ce ne sarebbero vari, in verità.

Berbizier, per esempio. Il ct azzurro ha tante qualità, ma non è certo un diplomatico. In un incontro con la stampa, nel 2006, qualcuno gli chiede cosa serva a questa Italia per diventare una grande squadra. “Servono un capitano, un calciatore e tredici giocatori. Presidente, mi servono un capitano e un calciatore”. Marco Bortolami non è troppo distante e non può non sentire. Tra i due, nonostante una riappacificazione dopo le due vittorie con Scozia e Galles, non sarà più come prima. L’aneddotica ovale narra di un vero e proprio tentativo di destituzione del capitano nell’intervallo del test autunnale contro il Canada. Non è elegantissimo nei modi, poi, nell’annunciare la sua partenza a fine Coppa del Mondo. Ha ricevuto una proposta dal Racing Metro, nella seconda serie francese, e non ci pensa due volte. L’effetto sul gruppo azzurro è devastante.

A giugno una selezione azzurra se ne va in Uruguay e Argentina. Ci sono alcuni senatori e molti azzurrabili che si giocano il posto. Non c’è Andrea Scanavacca, uno degli eroi di Murrayfield. Sarà l’unico di quella squadra a non venir nemmeno preso in considerazione per la Coppa del Mondo. L’altra sorpresa sarà l’assenza per infortunio di Nieto, el Chango, pilone dei Saracens tra i migliori delle nostre spedizioni. Peccato che in Inghilterra giochi e pure parecchio. In Sudamerica vinciamo senza brillare contro i generosi Teros, poi perdiamo male contro i Pumas, anch’essi in versione sperimentale. Ad agosto giochiamo a sprazzi contro il Giappone di John Kirwan e veniamo clamorosamente scippati in Irlanda, con l’arbitro che allo scadere convalida una meta di O’Gara che non sta né in cielo né in terra. Quel giorno ci rendiamo conto che se non facciamo cazzate la qualificazione ce la possiamo pure portare a casa, tra un drop chilometrico di Bortolussi, una arata in mischia e una scorribanda di Robertson.

È presto, però.

Il girone è fattibile, dobbiamo affrontare nell’ordine Nuova Zelanda, Romania, Portogallo e Scozia. Tutto lascia pensare ad un percorso ideale, con un picco di forma da raggiungere a fine settembre, proprio in previsione del match – presumibilmente – da dentro o fuori contro gli scozzesi. Il problema, però, è dietro l’angolo. Qualcuno dallo staff propone ai giocatori di girare le spalle all’Haka nel primo match del girone. La direttiva arriva inevitabilmente da Berbizier, che così facendo vorrebbe ricompattare le file azzurre. Il gruppo, se possibile, si spacca ancora di più. Capitan Bortolami decide di far votare i compagni, lo scontro è praticamente alla pari, ma vince l’idea del commissario tecnico. Nella storia, prima di allora, solamente una persona aveva deciso di ignorare palesemente l’haka prima di un match. Aveva pure un po’ a che fare con l’Italia, visto che i suoi avi arrivavano da Montecchio Precalcino, in provincia di Vicenza.

Solo che quello lì, che di nome faceva David e di cognome Campese, sapeva benissimo quel che stava facendo, e quel giorno gli All Blacks li battè praticamente da solo.

Noi, dopo venti minuti, siamo sotto di quasi quaranta punti. Perché se quelli vestiti di nero li fai incazzare devi assicurarti di avere, in caso il talento non fosse quello degli eletti, elmetti a sufficienza. Non va così: Dan Carter e soci si rendono conto che i metri di distanza tra la nostra prima linea di difesa e la seconda sono sufficienti per costruirci un ampio parcheggio, ci bombarderanno lì.

Finisce 76 a 14, è un massacro. Non tanto per le proporzioni del punteggio, quanto per gli strascichi che lascerà nelle teste degli azzurri da lì a Saint-Etienne. Contro la Romania, per esempio, segniamo subito con Dellapé, ma poi spariamo dal campo. I romeni non sono dei fenomeni, nonostante i migliori giochino nel massimo campionato francese, ma contro di noi sembrano a lungo dei campioni. E per fortuna che il loro estremo, una vera catapulta al piede, non ne azzecca una dalla piazzola. A girare il match è la prestazione di Troncon, entrato nella ripresa e in grado di ridare ai compagni linfa e cattiveria perdute. E non va meglio contro i portoghesi, semiprofessionisti a cui un anno prima avevamo affibbiato un eloquente 83 a 0. Va subito a segno Masi, poi Bortolami si fa cacciare per dieci minuti. Mai visto il capitano così nervoso come a questa Coppa del Mondo. Marco paga per tutti, forse, il trovarsi tra l’incudine e il martello nel momento di massima tensione. Sono gli ultimi suoi istanti da capitano in una Coppa del Mondo, nel suo battibecco con un lusitano ha preso un colpo subdolo ma pericoloso alla cervicale, cosa che lo costringerà al collarino. Nel frattempo i portoghesi vanno in meta. Non la possono vincere, non la potrebbero veramente mai vincere, ma ci provano, cosa che a noi non passa nemmeno per la testa. Riusciamo ad allungare solamente al piede, prima che la stanchezza fermi del tutto i nostri avversari, inermi mentre chiudiamo la partita. Potremmo anche cercare il punto di bonus, ma Canale calcia inspiegabilmente il pallone fuori.

Ecco, no, non ci arriviamo bene a Saint-Etienne. Siamo fragili, involuti, i cugini timidi di quegli atleti in grado di mettere a ferro e fuoco Murrayfield e di mandare in crisi di nervi gli scozzesi. Scozzesi che finora hanno fatto tutto quel che serviva: hanno vinto con autorevolezza contro Romania e Portogallo, hanno perso male con gli All Blacks, ma dando l’impressione di aver tenuto qualche carta nascosta. Contro gli azzurri, tra gli altri, si rivedono capitan Jason Taylor e Dan Parks, assenti a febbraio. Resta fuori Scott Murray, uno dei leader della touche, al suo posto gioca Jim Hamilton, molto più pesante e abrasivo in mischia. Frank Hadden ha un piano molto evidente: pochi fronzoli, si tiene in mischia e cerchiamo di costringerli al fallo. Poi ci pensa Chris. Chris Paterson, uno dei calciatori più letali del rugby europeo. Dà il suo meglio da ala, ma può realmente giocare ovunque: apertura, estremo, volendo anche centro. Contro un giocatore del genere non ci si può permettere alcun fallo veniale, altrimenti sono tre punti quasi automatici.  È stato l’ultimo ad arrendersi al Sei Nazioni contro di noi, è il primo a marcare punti a Saint-Etienne. Due infrazioni, due calci nei primi cinque minuti, sei a zero.  Matematico. Noi siamo nervosissimi, non riusciamo a capire cosa ci stia realmente succedendo. A svegliarci è Mauro Bergamasco, costretto a fermare fallosamente un avversario lanciato in meta. Cartellino giallo, stavolta loro vanno in touche, vogliono mandarci fuori dal match il prima possibile. Solo che in qualche modo ci salviamo. E alla prima occasione utile facciamo male: Pez fuori dai 22 spara nell’alto dei cieli un pallone reso infido dalla pioggia incessante. I nostri centri si gettano sul punto di caduta, Mirco Bergamasco nella foga travolge l’arbitro. Il pallone è una saponetta, lo controlliamo noi. Troncon sulla linea di meta finta il passaggio ed entra di prepotenza, meta e sorpasso. Lo stadio ha un sussulto: la capienza massima è di circa 23000 spettatori, di cui circa la metà tifa Italia. Sono lì dall’alba, hanno preso confidenza con tribune e spalti sin dalla mattina, hanno pasteggiato vicino alle loro macchine più o meno come fecero quelli che se ne andarono a Grenoble a marzo del 1997. Dopo un inizio veramente difficile hanno dimenticato tutto e si stanno sgolando tutti, dal primo all’ultimo, compreso Marcello Lippi, che di Coppe del Mondo qualcosa ne sa.

Sembra l’inizio di una nuova partita, anche perché poco dopo Bortolussi arrotonda dalla piazzola, 10 a 6. Non è così. Perché Hadden ha imparato benissimo la lezione di febbraio: contro questo tipo di Italia non si possono lasciare punti per strada. Quelle nove punizioni calciate in touche a Murrayfield avrebbero potuto far molto comodo se calciate tra i pali, soprattutto in un finale senza rincorse e senza rischio di andare in riserva. E, soprattutto, contro la squadra messa in campo da Berbizier non ci si può improvvisare grandi pirotecnici al largo, ed è questo il motivo per cui Dan Parks è in campo: ogni volta che può, l’apertura di origine australiana ci ricaccia indietro, ci costringe a giocare nella nostra metà campo. Le conseguenze di tutto questo portano la Scozia ancora avanti: due sciocchezze di Troncon e Bergamasco (un placcaggio alto e uno sgambetto) e torniamo sotto. Bortolussi prova due volte da distanza siderale, ma il pallone esce a lato. Paterson, nella ripresa, arrotonda con altri due calci.

È dura, è durissima. Ma negli ultimi venti minuti riusciamo finalmente a scuoterci e a far vedere il nostro miglior rugby dell’ultimo mese: azioni ficcanti, mediana finalmente libera dai legacci tattici, i primi cinque uomini finalmente in grado di far strada. Hines si becca un giallo per un fallo professionale, centriamo i pali per due volte e torniamo a distanza di calcio. La partita diventa un braccio di ferro in cui nessuno dei contendenti riesce a piegare l’altrui resistenza: si gioca prevalentemente a centrocampo, con poche variazioni dovute ai calci tattici di Parks e Paterson da una parte e di Bortolussi e Pez dall’altra. Ramiro ancora non lo sa, ma è al suo ultimo match in azzurro. È forse il giocatore che più ha sofferto il confronto con Sua Maestà Diego Dominguez, essendo stato il primo a prenderne il posto. È stato epurato da Kirwan prima del Mondiale 2003, si è ripreso il posto grazie ad una enorme prestazione contro i Pumas a Belgrano, agli albori della gestione Berbizier. È il numero 10 forse più offensivo che abbiamo avuto negli ultimi vent’anni, in grado di rompere a ripetizione le linee avversarie, ma a Saint-Etienne sta giocando dietro la linea e sta usando praticamente solo la tomaia tattica. I trequarti scozzesi sono grossi, potenti, ma non sono eccessivamente veloci, uno come lui potrebbe far comodo. Ma si continua a calciare.

Gli scozzesi, ad ogni modo, cominciano a perdere colpi. Fanno falli, perdono terreno. È vero, in touche sono più forti, l’assenza di Bortolami si sta facendo sentire più del dovuto, ma non sono più quelli del primo minuto. Manca la lucidità, quella che ti permette di stare al tuo posto in una maul a cinquanta metri dai pali. Linea dei dieci metri nemmeno toccata, molto angolato, a naso sono più di cinquanta metri. Il capitano si guarda attorno, vede il suo estremo venirgli incontro. Gli parla in francese. David ha un nonno di Sesto al Reghena, provincia di Udine, ma la lingua italiana, al di là delle Alpi, si perde ben prima che trascorrano due generazioni e difficilmente si recupera.

-Te la senti?

– Sì.

Lo sappiamo tutti com’è finita.

E lo sappiamo tutti a chi abbiamo dedicato le nostre peggiori frecce avvelenate. Perché se quel calcio fosse entrato staremmo tutti parlando di Bortolussi eroe azzurro, anziché di uno scarso panchinaro francese, e delle non dolcissime parole dedicategli da Pierre Berbizier il giorno della sua prima convocazione (“Si era bono giocava con Fransia”).  Gli avrebbero fatto fare un paio di spot pubblicitari e almeno qualche ospitata televisiva. Sesto al Reghena sarebbe diventata una sorta di Meadsville in salsa italica. Forse parleremmo di una storica Italia ai suoi primi quarti di finale, ad una sfida sulla carta non improba con i Pumas, di un movimento che da lì sarebbe decollato fino a toccare vette inesplorate. Di qualche showgirl che comincia ad impazzire volentieri per una palla ovale.

E invece, per colpa di David Bortolussi, siamo usciti.

Perché è stata solamente colpa sua. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo,
come lacrime nella pioggia di Saint-Etienne.

E chi dice il contrario non sa nemmeno com’è fatto, un carro dei vincitori.

E nemmeno un capro espiatorio.

Capro espiatorio

Un agnello in mezzo ai lupi

Gli spogliatoi sono fatti di anime. Si intrecciano, cercano di fare il loro, si ingarbugliano. Se il groviglio viene bene, capace che riusciamo a sfangarla pure, in certi casi, da qui a fra ottanta minuti. Anime belle in corpi bruttissimi, anime brutte in visi angelici, gladiatori in vesti di putti. Ce n’è per tutti. Da fuori tutti gli spogliatoi, soprattutto quando giochi in campo neutro, dicono poco. È tutto lì dentro, è tutto qui dentro. C’è il mister che dà le ultime direttive, il capitano che parla. C’è chi piange, di solito è quello più grosso. Non chiedetemi perché, è così e ve lo giuro sui miei 138 chili di granitica esistenza. Poi ci si raggruppa tutti insieme. C’è chi dice che quello è l’abbraccio più bello del mondo. A suffragare questa tesi di solito sono quelli che ancora non hanno figli, ma non è un’opinione da buttare. O meglio, non ci vanno troppo distante. Queste cose, però, le vedi solo se sei parte di uno spogliatoio. Le capisci da dentro, le vivi. E non è nemmeno così facile raccontarle. Ci riescono molto meglio quelli che, in uno stanzone del genere, non ci sono mai entrati, ma questa è un’altra storia. Quel che vi posso garantire è che da fuori si percepisce poco.

La differenza la si vede fuori. Maglie pesanti, ignoranti, rosse di un rosso veterano di mille lavatrici. E questi siamo noi. Maglie nere, leggere, aerodinamiche, aderenti, appena sfornate. E quelli sono loro. All Blacks. Li guardi bene, lì incolonnati fuori dalla porta dello spogliatoio, e capisci che il discorso dei grovigli di anime fatti bene non può valere per tutti. Non sempre, almeno. Oggi no, di sicuro. Non è sminuire me e i miei compagni, non fraintendetemi. È che sono due cose completamente diverse: Kobe e Simmenthal, caviale e tonno in scatola, lino e acrilico, Portogallo e All Blacks. Serve tutto, non esistono scelte sbagliate, ma si parla di cose diverse. I miei compagni lo sanno, io lo so. Lo sanno pure loro, di là, nonostante credo non sappiano nemmeno chi siamo e da dove veniamo. Certo, ora potrei cominciare a raccontarvi la lunga storia di Cenerentola, oppure quella di Davide e Golia. No, non è proprio così. La nostra è la storia di una generazione all’ultima spiaggia, di ragazzi con capelli bianchi e radicali liberi in costante aumento. Di gente che a rugby ci gioca se e solo se riesce a timbrare il cartellino e a farsi pagare ogni tot del mese. Di ragazzi che, al netto di un rimborso spese neanche troppo fenomenale, devono pagarsi le trasferte e giocarsi bene i giorni di ferie. Per la contentezza di mogli, fidanzate e figli. Ci sono avvocati, professori universitari, studenti. Il nostro numero 9 si è fatto conoscere come rugbista quando si è fatto l’Erasmus in Italia, per dire. Gente che se si fa male seriamente sono cazzi suoi e basta, o quasi. Io sono un veterinario. Ho un mio ambulatorio, ma il più delle volte mi potete vedere in giro per Coimbra e dintorni tra stalle e pollai. Pochi pollai, a dire la verità, sono pur sempre 138 chili di cristiano e nessun essere umano sano di mente metterebbe tra le mie mani un pulcino o un passerotto, a meno di emergenze.

Il mio destino, forse, è scritto nel mio nome.

Mi chiamo Rui Cordeiro. Cordeiro nella lingua di Pessoa è l’agnello.

Ne ho soccorsi tanti, nella mia carriera, ma come me nessuno mai. Un bell’agnello grasso e grosso, con pochi peli in testa e un po’ troppi sulla lingua. Non è che nelle storie l’agnello faccia sempre una bella fine, eh. Pure in mischia tante volte è così, visto che il rugby da queste parti è soprattutto rugby a 7. Cordeiro significa agnello, e in una squadra che in giro per il mondo si fa chiamare “Os Lobos”, i Lupi, capirete che non è semplice trattenere la risata.

Sono quello che soffre, l’agnello sacrificale. Buona questa.

Tre anni fa però, nel 2004, mica ridevano in tanti, in Europa. Nel giro di pochi mesi riusciamo a battere Georgia e Romania e a vincere l’European Championship, quello che tutti chiamano “6 Nazioni B”. Tomaz Morais, ex centro della nostra nazionale, giocatore di ottimo livello, viene eletto allenatore dell’anno. Siamo una bella squadra, tosta, inferiore davanti ma mobile e cinica quanto basta per far male.

No, non siamo al livello delle grandi nazionali europee.

A ricordarmelo costantemente sono i 200 punti presi in due partite dai Borders, squadra che ora non esiste nemmeno più. Ci dicono che, però, abbiamo delle buone possibilità di qualificarci per la Coppa del Mondo del 2007.

Basta ripetersi, dicono.

Ma credo che quelli che qua sopra descrivono gli spogliatoi da fuori siano gli stessi che non hanno mai giocato contro Georgia e Romania. Tra 2005 e 2006 perdiamo contro entrambe e, nella classifica aggregata, siamo terzi. Le cose si complicano, l’iter si allunga. Finiamo in un gironcino a tre con Italia e Russia, bisogna arrivare almeno secondi per continuare a sperare. Perdiamo pure alcuni naturalizzati, dicono non abbiano il nulla osta. Contro l’Italia ne pigliamo più di ottanta, ci giochiamo tutto contro i russi in casa. La sfanghiamo, 26 a 23, ci ritocca la Georgia e perdiamo ancora. Giocare in Georgia e contro la Georgia è una delle esperienze più dure ed esaltanti del rugby. Sono appassionati, esperti, ma impietosi con l’avversario. Noi, non crolliamo, ma loro la mettono sulla mischia.

Siamo sfiniti, ma non è ancora detta l’ultima parola. C’è ancora un biglietto per la Francia. Passa per Africa e Sudamerica, per Rabat e Montevideo. Il Marocco è tosto, ha gente che gioca in Francia da anni, ma riusciamo a batterlo. Rimaniamo in due per un posto, noi e l’Uruguay. Loro hanno un pedigree molto superiore al nostro, giocatori tosti e cattivi come la peste, ma a Lisbona li battiamo. Ci giochiamo tutto a Montevideo, altro catino bollente. Perdono per un rosso Bado, il loro giocatore più rappresentativo, ma mica mollano. In mischia me la devo vedere con Pablo Lemoine, ex colonna dello Stade Français, a questi livelli uno dei piloni più forti mai visti. Faccio una fatica terribile, mi mette in croce, ma non faccio falli stupidi, soprattutto nel finale. Perdiamo 18 a 12, passiamo per un punto. Siamo al Mondiale! È una delle serate più belle della mia vita, una notte da raccontare ai nipotini.

Beh, ecco, a patto di omettere qualche particolare.

Nel centro storico di Montevideo abbiamo uno scambio di vedute con gli avversari, qualcuno alza le mani, qualcuno chiama la polizia. In sei dei nostri passano la notte in carcere, e capirete che spiegare a casa che forse non si prende l’aereo per via di un paio di manette, beh, non è il migliore dei mondi possibili. Nemmeno con una qualificazione alla Coppa del Mondo in tasca. Vasco Uva, il nostro capitano, nel pomeriggio del lunedì aveva un’udienza e doveva a tutti i costi tornare a Lisbona, mamma mia quanto sudava.

Sapete, quel giorno a Montevideo nessuno ci dava un soldo. Nessuno avrebbe mai scommesso su di noi. Ma quel giorno abbiamo capito che ogni singolo momento di salita, ogni secondo dietro a delle sbarre, ogni centimetro che perdiamo in mischia ha fatto di noi quello che siamo: un gruppo solido, magari non il più forte del mondo, ma coeso e organizzato come un branco di lupi. Appena possiamo facciamo di tutto per rimanere uniti. Anche ora, anche nel momento in cui dobbiamo scendere in campo. Ognuno con la mano sulla spalla del compagno che ci sta davanti. Gli All Blacks sembrano non guardarci, quasi non badano a noi. D’altronde sono i favoriti per il titolo. Ne lasciano a riposo tanti, ma gente come Conrad Smith, Nick Evans, Jerry Collins prima di oggi li abbiamo visti solamente in TV.

O pagando fior di biglietti, anche aerei. Io parto dalla panchina, ma l’haka me la godo in campo.

Sono terribili, furenti, le maglie stesse evidenziano muscoli che non esistono.

O meglio, muscoli che da me hanno marcato visita molto tempo fa.

Se mai ci sono stati.

Tomaz, il coach, ci ha detto di resistere il più possibile. Di provarci, in caso, che se la prendono sotto gamba qualcosa possono concedere. Hai voglia a provarci, questi attaccano come belve. Sono cinghiali, tori, ippopotami, tutte bestie che quando decidono di andare oltre vanno oltre. Noi? Una diga fatta di lupi. Bolsi, fisicamente inferiori, con qualche pelo bianco di troppo. Certo che siamo bestie feroci pure noi, ma se le prede sono più veloci rimaniamo magri, affamati e segaligni.

Io un po’ meno, ma questa è un’altra storia.

Ci segnano subito due mete. Poi, però, cominciano a strafare. Rallentano, commettono leggerezze. Qualche spazio, è vero, ce lo concedono. Gonçalo, il nostro numero 10, l’eroe del titolo europeo del 2004, butta dentro un drop e ci mette nel tabellino. Eh sì, però loro si risvegliano. Segnano altre sei mete prima dell’intervallo, totale 52 punti. Già durante il primo tempo il coach mi aveva chiamato: “Entri tu”. Le gambe cedono per un momento, vuoi perché non ti aspetti mai di entrare così presto, vuoi perché ti preoccupi un po’ per il compagno che ti lascia il posto. Passo l’intervallo a scaldarmi, a corricchiare, a provare ingaggi. Mi aspetta Greg Somerville, non so se rendo l’idea. E, in panchina, pronto a subentrargli, c’è Carl Hayman. Due monumenti della mischia neozelandese. Due mostri di tecnica e di bravura. Certo, non è che abbia affrontato degli scarsoni finora: in carriera mi sono capitati davanti, oltre a quel Lemoine, tutti i georgiani e romeni che vi vengono in mente (ve li regalo, se volete), Perugini e Castrogiovanni, Euan Murray.

Come questi, però, nessuno.

Oh, devo dirlo: mi sento parecchio un agnello, davanti a quelli là. Un agnello in mezzo ai lupi, un agnello che deve far coraggio e morale ai lupi. Il coach ci incoraggia e ci dice di non arrenderci, che prima o poi un errore lo faranno.

Che ti viene pure da chiedergli se ha veramente presente chi sono quelli lì vestiti di nero, che forse mica l’ha capito.

Poi, però, fanno rimbalzare un ovale a terra. Si addormentano e si smarriscono.

Ora o mai più.

Siamo a centimetri dalla linea. Non è che facciamo breccia, ma la palla ce l’abbiamo noi e, almeno per ora, non riescono a togliercela. Ci proviamo a testate, testate su testate. E sempre un paio a ripulire. Siamo stanchi, ma siamo il miglior groviglio che possiamo mai essere. Tocca a me. Loro hanno già capito che cosa farò. Mica sono credibile come calciatore, né come apertura. E però sono 138 chili di veterinario con pochi peli sulla testa e troppi sulla lingua, servirà pure a qualcosa tutto ‘sto carico sporgente. Vado oltre, mi cadono sopra in due o tre, non mi ricordo. Ho schiacciato, esulto, ma l’arbitro non ha visto.

Va al piano di sopra, chiama il TMO.

Parlottano. Poi torna e fischia: è meta.

Loro si guardano per un po’, non se l’aspettavano. Dicono che di solito, in questi frangenti, si rischia di perdere il controllo del match, l’inerzia tende a cambiare e a ravvivare l’incontro.

Ma credo non sia questo il caso, visto che ci fanno altre otto mete.

Usciamo comunque tra gli applausi. Dicono che lo stadio sia venuto giù dopo la mia meta, ma io non me ne sono reso conto. Passi mesi, forse anni della tua vita a pensare a come reagirai quanto ti renderai conto di aver fatto qualcosa di grande e poi puff, in quel momento sei il più rincoglionito del mondo.

Non facciamo a tempo a sederci negli spogliatoi che bussano alla porta.

Sono loro.

E hanno delle birre in mano.

Quella destinata al sottoscritto me la porge Carl Hayman.

E ora chi glielo dice che sono un pilone di 138 chili ASTEMIO?

Sì, siamo una minoranza, ma sappiamo tener su una mischia anche noi. E ringraziateci, quando afasici e barcollanti riuscite ad elemosinare un passaggio verso casa dopo il terzo tempo.

Hayman mi guarda, mi faccio capire. Afferra al volo e torna con una gazosa.

Poi si resta insieme per un po’, si parla del più e del meno. Oh, vi dico la verità, mica mi ricordo tanto bene quel che ho detto al mio avversario. Mica mi ricordo se gli ho detto che la prossima partita, quella contro la Romania, sarà l’ultima della mia carriera. Mica mi viene in mente se gli ho detto che sono un veterinario e che certe volte curo vitelli dal collo meno pronunciato dal suo.

So solo che lì, in quello spogliatoio, si stava tanto bene. Anime belle in corpi bruttissimi, anime brutte in visi angelici, gladiatori in vesti di putti. Veterinari, avvocati, studenti, professori, campioni di rugby.

Ce n’è per tutti.

Gli spogliatoi sono fatti di anime che si intrecciano e si ingarbugliano. E voi che rimanete là fuori non sapete nemmeno cosa vi perdete.

Mi chiamo Rui Cordeiro, ho 31 anni portati malissimo e 138 chili di granitica resistenza a botte, placcaggi e piloni avversari. Sono quasi un ex giocatore di rugby, ho segnato una meta agli All Blacks e convinto Carl Hayman dell’esistenza di piloni astemi nel nostro universo. Durissima, se ci pensate.

Sarà molto più dura, la settimana prossima, convincere Pedro, il toro della famiglia Rodrigues, dell’esistenza di piloni col collo più grosso del suo.

E convincere tutti che, a volte, un agnello in mezzo ai lupi ci sta proprio bene.

Un agnello in mezzo ai lupi

Evviva il Re!

Guglielmo il Conquistatore divenne re d’Inghilterra nel 1066 dopo aver sconfitto l’esercito anglosassone nella battaglia di Hastings. Trattandosi il buon Guglielmo di un normanno abbiamo a che fare quindi con il Crunch più grosso e importante mai portato a casa dai francesi. Ma siccome siamo partiti da molto (troppo, forse) lontano, andiamo subito al sodo: tra i vari poteri annoverabili dal nuovo re d’Inghilterra, sin dalla sua nascita, figura quello della guarigione dalle scrofole.

Abbiamo davanti quindi un re taumaturgo, signore e signori, in grado di guarire, in linea teorica, malattie e ferite infette. In linea teorica, perché poi nulla risulta dal personale score del re alla voce “guarigioni”.

Dicono però la taumaturgia fosse ereditaria.

E allora ci piace pensare che, nel corso degli anni, qualche parente alla lontana del vecchio normanno sia andato ad abitare nel Surrey, poco distante da Londra. E che questi parenti negli anni ’70 abbiano messo insieme il DNA e il sangue necessari per creare un altro erede in grado di guarire con la sola imposizione delle mani. Saremmo allora in grado di spiegare tante cose successe in questo pazzo mondo ovale negli ultimi 20 anni. Saremmo in grado di capire come nel 2007 una Nazionale spenta, abulica, senza una vera e propria guida sia riuscita ad arrivare ad una finale di Coppa del Mondo contro gli Springboks forse più feroci di sempre.

E a giocarsela per gran parte di quegli ultimi 80 minuti.

Saremmo in grado anche di capire anche come questo nuovo taumaturgo sia riuscito in qualche modo a imporre le mani pure su sé stesso, prima di prendere in mano e per mano i suoi. Forse riusciremmo a capire qualcosa di questo biondino, che di nome fa Jonathan Peter Wilkinson e che nel 2003, a 24 anni, è salito sul tetto del mondo.

Poi però qualcosa va storto.

Più di qualcosa: una spalla, un ematoma al braccio, due volte i legamenti mediali del ginocchio, un attacco di appendicite, un’ernia, ancora una volta i legamenti del ginocchio, un rene, innumerevoli caviglie distorte.

Mancano giusto le cavallette.

No, non è finita qui. Perché insieme a questa serie di infortuni, infortuni che avrebbero abbattuto chiunque, arriva anche la cosa peggiore che possa colpire un uomo nel ventunesimo secolo: Jonny cade in depressione, si avvicendano attacchi d’ansia che colpiscono più duro di un Brian Lima in volo e attimi di sconforto.  Ne prende coscienza in tempo utile ed ha il coraggio di ripartire, di farsi aiutare.

E poi di tornare a giocare.

Il primo match con la maglia bianca e la rosa sul cuore dopo il Mondiale 2003 è la Calcutta Cup del 2007. Tre anni e mezzo senza incontri internazionali, se escludiamo il tour dei Lions del 2005 (trovando pure il tempo di salvare i britannici da una clamorosa imbarcata contro i Pumas). Era tornato a giocare un match in Premiership appena due settimane prima. Segnerà 27 punti, con tanto di meta in bandierina. Sette giorni dopo batterà quasi da solo una grande Italia, segnate altri 15 punti.

Ma non è una grande Inghilterra, se bisogna dirla tutta.

Scordatevi quella armata di filibustieri meglio conosciuta come Dads’ Army, quella che tra 2002 e 2003 mise a soqquadro il mondo del rugby, soprattutto a sud dell’equatore. Sono rimasti due o tre eroi decorati, c’è ancora Lawrence Dallaglio, ci sono ancora Mike Catt e Josh Lewsey, c’è l’eterno Simon Shaw, ma non è più la stessa cosa. L’emisfero Sud ha cambiato marcia, Springboks in testa. Nel 2004 questi ultimi cambiano ct. Al posto di Straeuli arriva l’ex allenatore della Nazionale under 21, si chiama Jacob Westerduin, ma il mondo lo conosce con un altro nome, meno boero e più inglese: Jake White. Il nuovo coach, tra le altre cose, comincia ad avvalersi di una eminenza grigia del rugby, uno che il Mondiale l’ha perso nel 2003 da allenatore e che nel 2015 proprio agli Springboks farà uno sgambetto di quelli da ricordare: si chiama Eddie Jones, uno a cui ogni amante del rugby dovrebbe come minimo una birra. Ne viene fuori una generazione di talento, forza fisica e cattiveria agonistica incredibili, irraggiungibili per gli standard dell’emisfero nord. Se ne accorgono subito, gli inglesi, che fanno l’errore di testare alcuni nuovi innesti negli incontri precedenti al Tri Nations. A questo aggiungete del cibo avariato e qualche notte in bagno, fanno 113 punti in due incontri, è un vero massacro. Jonny Wilkinson è in campo entrambe le volte, ma non è cosa. Poi, per non farsi mancar nulla, si infortuna alla caviglia e deve saltare i primi due match del girone. Che può pure andar bene se debutti contro gli Stati Uniti, meno se dopo qualche giorno ti ritrovi davanti ancora gli Springboks. Anche perché l’unica vera alternativa a questi livelli in cabina di regia si chiama Charlie Hodgson, ma è a casa infortunato. Non è che manchino altre alternative, ci mancherebbe: ci sarebbe Andy Goode, ma l’opinione pubblica inglese storce il naso. Fisico imbarazzante. Sì, magari giudichiamolo per mani e piedi da fenomeno, ma va bene.

Si punta tantissimo su Olly Barkley, che da ragazzino era un fenomeno e va in cerca di conferme. Contro gli americani è lui il 10 titolare, ma non convince fino in fondo.

È diventato infatti nel tempo un primo centro con grandissime mani e grandissimi piedi, ma in cabina di regia non riesce a far fruttare al meglio le grandissime abilità di cui dispone. Finisce con una vittoria, ma non arriva il punto di bonus e per di più Barkley fa crac. Con gli Springboks tocca al veterano Mike Catt. Non va a finire bene: i sudafricani sono ovunque, erodono il terreno, ogni volta che prendono palla sono pericolosi. Gli inglesi non ne vengono fuori, nella ripresa in regia va addirittura Andy Farrell, ma non segnano nemmeno con la matita.

E ora che si fa?

Quattro punti in due partite per i campioni del mondo in carica sono pochi, troppo pochi. I giornali inglesi, che in caso di sconfitta sanno essere molto più realisti della regina, associano questa Inghilterra a quella del Tour of Hell, quella che nel 1998 uscì dall’emisfero sud con le ossa rotte.

Il ct Brian Ashton è subissato di critiche, ma finalmente Jonny è pronto a uscire dall’infermeria. Contro Samoa, in un mondo perfetto, se ne starebbe comodo in panchina, pronto magari a raddrizzare la barca nel finale, in caso stia andando tutto per il peggio. No, numero dieci titolare, in tanti hanno annusato che il XV della Rosa rischia parecchio grosso. Va subito in meta Corry, poi il numero 10 di bianco vestito si presenta: drop in mezzo ai pali, 10 a 0 dopo 6 minuti. Sembra una strada in discesa, ma i samoani stupiscono e fanno le formichine: a ogni infrazione inglese si va in piazzola, i fratelli Tuilagi, il cervello di Mapusua e il piede di Crichton (che a fine carriera passerà anche per l’Aquila) tengono a galla gli isolani.

Solo che dall’altra parte Jonny a poco a poco prende confidenza: calcia un grubber che è praticamente uno Swarovski, Paul Sackey raccoglie da terra e porta i suoi sul 23 a 6. Crichton ricuce, poi Schwalger brucia i trequarti inglesi e schiaccia il 26 a 22 ad inizio ripresa. È il momento più duro per gli inglesi, perché questi non si scollano dalla scia. Mancano dieci minuti al termine. Una legge non scritta del rugby dice che una squadra pacifica sotto break a pochi giri d’orologio dal termine è più pericolosa di un fucile puntato. Per referenze chiedere al Galles.

Ci pensa Jonny: altro drop, altro centro.

Capiamoci, però: questo non è il più grande Wilkinson mai apparso su un prato verde. Dalla piazzola sbaglia cose che prima degli infortuni non avrebbe calciato fuori nemmeno da bendato. Però siamo davanti all’uomo giusto al momento giusto: è un leader, prende per mano tutti i suoi e li tira fuori dal baratro. E come fai a non seguire ciecamente uno che a diciannove anni è uscito vivo e vegeto da un tour nell’Emisfero Sud, tour che ha stroncato carriere e che avrebbe ammazzato gente ben più navigata? Come fai a non farti guidare da uno così?

I samoani si sciolgono, arrivano altre due mete e pratica chiusa. Per la qualificazione bisogna però giocarsi tutto con Tonga, la vera sorpresa del girone: ha battuto Samoa e Stati Uniti e messo in grossa difficoltà gli Springboks, perdendo solamente di 5 punti. Contro gli inglesi partono fortissimo, vanno avanti 10 a 3, poi subiscono 2 mete di Sackey e due calci di Jonny. Pierre Hola segna il calcio del 13 a 19, ma Wilkinson e compagni non sono più quelli dei primi due incontri e la chiudono col bonus.

Si va ai quarti contro l’Australia, segnate dodici punti per il numero 10 in bianco e una prestazione mostruosa della prima linea (per piacere, guardatevi cosa fa Sheridan a Shepherdson e a Baxter nel secondo tempo).

Semifinale contro la Francia, e scusate se diciamo che non è mai uno scontro banale.

Anche perché Lewsey buggera Traille e segna la meta del vantaggio dopo soli 78 secondi.

I francesi si trovano davanti ad uno Stade de France improvvisamente muto. Dopo aver buttato fuori gli All Blacks tutto sembrava possibile, nonostante i Pumas li avessero spennati al debutto. Poco a poco però i padroni di casa tornano sotto con Beauxis e sorpassano prima della fine del tempo. È una partita dura, poco spettacolare, vincono a mani basse le difese. Beauxis allunga dalla piazzola, adesso è 9 a 5. L’apertura francese prova a più riprese il drop, vuole allungare, sa che portarsi in volata questi inglesi con quel biondino lì, quello che se scalda il piedino sono volatili per diabetici, diventa dura.

Niente da fare, ne prova tre, nessun centro.

Tra gli inglesi a dare la scossa è Jason Robinson, in vero e proprio stato di grazia per tutto il Mondiale, tra i pochi a predicare nel deserto dall’inizio.

E poi c’è Jonny: butta dentro due calci nei momenti più duri e riporta avanti i suoi, 11 a 9. Poi al 75′ riceve palla da Richards, biondo come Matt Dawson, prende la mira e spara il drop che assicura la vittoria ai suoi.

Come quattro anni prima, ma senza tutta quella bellezza e quella facilità nel percorso. Ma forse per questo ancora più bello nel suo essere all’improvviso costretto all’umanità, tra aliti caldi e nient’affatto angelici e ovali che non filano più lisci come un tempo. È finale, davanti ancora gli Springboks, che hanno dato trentasette punti ai meravigliosi Pumas di Loffreda. Sembra già tutto scritto, ma gli inglesi non sono più quelli timidi e impacciati di inizio torneo.

In touche contro Matfield e Bakkies Botha, però, è sofferenza vera.

E quello Schalk Burger in terza linea sembra quel mostro che pensavamo si nascondesse nei nostri armadi quando eravamo bambini: grosso, cattivo, tremendamente efficace. Montgomery passa, pareggia Wilkinson, poi ancora Montgomery, due volte. Il Sudafrica ne ha di più, si vede, ha ancora qualche carta da giocarsi, ma all’improvviso Tait recupera un brutto passaggio di Gomarsall a metà campo e si invola. Si mangia 50 metri di campo, si beve tutti, pure Montgomery. Poi appare Matfield, quasi dal nulla. Palla fuori immediata, Cueto riceve in bandierina e schiaccia. Solo che il piede tocca la linea bianca, rimessa sudafricana. Gli Springboks per qualche minuto sbandano, si rendono conto che il Mondiale lo possono anche perdere. Wilkinson centra i pali di nuovo, solo tre punti di ritardo. I bianchi però finiscono la benzina, soprattutto davanti, e allora Montgomery allunga ancora. Poi Frans Steyn dà una spolverata alla catapulta che si trova sotto la caviglia e sigilla la vittoria da cinquanta metri.

Vincono loro, giusto così, le ultime testate inglesi sono i colpi del pugile in difficoltà, i colpi di chi sa già che sta perdendo incontro e lucidità, ma che metti mai che lo prendo bene per una volta.

Non succederà.

La Coppa va ai più forti, com’è giusto che sia.

Gli inglesi, dietro agli sguardi delusi e corrucciati, nascondono una discreta contentezza. Non lo diranno mai, anche perché arrivare secondi brucia sempre e comunque, a tutti i livelli, ma sono quasi sollevati dopo un inizio a dir poco traumatico. Neanche ci speravano alla finale dopo quel 36 a zero sul groppone.

Si sentono come guariti da qualcosa, da qualcuno.

Ma in fondo dicono che la taumaturgia fosse ereditaria. Dicono che l’ultimo regnante ad attribuirsi poteri di guarigione e di taumaturgia al di là della Manica sia stata Anna Stuart, passata ad altra dimensione nel 1714. Dicono che il buon Guglielmo il Conquistatore, vincitore del più grosso Crunch tra Inglesi (Anglosassoni) e Francesi, non avesse mai manifestato questi poteri in terra inglese, che si sia limitato a portare ad Hastings e dintorni i lasciti delle sue radici, oltre a quella che è stata la nonna della lingua inglese che conosciamo. Al resto ci penserà un suo omonimo, bardo nativo di Stratfod-upon-Avon, ma questa è un’altra storia.

Ci piace pensare però che, nel corso degli anni, qualche parente alla lontana del vecchio normanno sia andato ad abitare nel Surrey, poco distante da Londra. E che questi parenti negli anni ’70 abbiano messo insieme il DNA e il sangue necessari per creare un altro erede in grado di guarire con la sola imposizione delle mani sé stesso e una Nazionale lontana dai fasti di quattro anni prima.

Con la sola imposizione delle mani.

E dei piedi.

Possibilmente su un pallone ovale.

Evviva il Re!

Agnello in mezzo ai lupi

Gli spogliatoi sono fatti di anime. Si intrecciano, cercano di fare il loro, si ingarbugliano. Se il groviglio viene bene, capace che riusciamo a sfangarla pure, in certi casi, da qui a fra ottanta minuti. Anime belle in corpi bruttissimi, anime brutte in visi angelici, gladiatori in vesti di putti. Ce n’è per tutti. Da fuori tutti gli spogliatoi, soprattutto quando giochi in campo neutro, dicono poco. È tutto lì dentro, è tutto qui dentro. C’è il mister che dà le ultime direttive, il capitano che parla. C’è chi piange, di solito è quello più grosso. Non chiedetemi perché, è così e ve lo giuro sui miei 138 chili di granitica esistenza. Poi ci si raggruppa tutti insieme. C’è chi dice che quello è l’abbraccio più bello del mondo. A suffragare questa tesi di solito sono quelli che ancora non hanno figli, ma non è un’opinione da buttare. O meglio, non ci vanno troppo distante. Queste cose, però, le vedi solo se sei parte di uno spogliatoio. Le capisci da dentro, le vivi. E non è nemmeno così facile raccontarle. Ci riescono molto meglio quelli che, in uno stanzone del genere, non ci sono mai entrati, ma questa è un’altra storia. Quel che vi posso garantire è che da fuori si percepisce poco.

La differenza la si vede fuori. Maglie pesanti, ignoranti, rosse di un rosso veterano di mille lavatrici. E questi siamo noi. Maglie nere, leggere, aerodinamiche, aderenti, appena sfornate. E quelli sono loro. All Blacks. Li guardi bene, lì incolonnati fuori dalla porta dello spogliatoio, e capisci che il discorso dei grovigli di anime fatti bene non può valere per tutti. Non sempre, almeno. Oggi no, di sicuro. Non è sminuire me e i miei compagni, non fraintendetemi. È che sono due cose completamente diverse: Kobe e Simmenthal, caviale e tonno in scatola, lino e acrilico, Portogallo e All Blacks. Serve tutto, non esistono scelte sbagliate, ma si parla di cose diverse. I miei compagni lo sanno, io lo so. Lo sanno pure loro, di là, nonostante credo non sappiano nemmeno chi siamo e da dove veniamo. Certo, ora potrei cominciare a raccontarvi la lunga storia di Cenerentola, oppure quella di Davide e Golia. No, non è proprio così. La nostra è la storia di una generazione all’ultima spiaggia, di ragazzi con capelli bianchi e radicali liberi in costante aumento. Di gente che a rugby ci gioca se e solo se riesce a timbrare il cartellino e a farsi pagare ogni tot del mese. Di ragazzi che, al netto di un rimborso spese neanche troppo fenomenale, devono pagarsi le trasferte e giocarsi bene i giorni di ferie. Per la contentezza di mogli, fidanzate e figli. Ci sono avvocati, professori universitari, studenti. Il nostro numero 9 si è fatto conoscere come rugbista quando si è fatto l’Erasmus in Italia, per dire. Gente che se si fa male seriamente sono cazzi suoi e basta, o quasi. Io sono un veterinario. Ho un mio ambulatorio, ma il più delle volte mi potete vedere in giro per Coimbra e dintorni tra stalle e pollai. Pochi pollai, a dire la verità, sono pur sempre 138 chili di cristiano e nessun essere umano sano di mente metterebbe tra le mie mani un pulcino o un passerotto, a meno di emergenze.

Il mio destino, forse, è scritto nel mio nome.

Mi chiamo Rui Cordeiro. Cordeiro nella lingua di Pessoa è l’agnello.

Ne ho soccorsi tanti, nella mia carriera, ma come me nessuno mai. Un bell’agnello grasso e grosso, con pochi peli in testa e un po’ troppi sulla lingua. Non è che nelle storie l’agnello faccia sempre una bella fine, eh. Pure in mischia tante volte è così, visto che il rugby da queste parti è soprattutto rugby a 7. Cordeiro significa agnello, e in una squadra che in giro per il mondo si fa chiamare “Os Lobos”, i Lupi, capirete che non è semplice trattenere la risata.

Sono quello che soffre, l’agnello sacrificale. Buona questa.

Tre anni fa però, nel 2004, mica ridevano in tanti, in Europa. Nel giro di pochi mesi riusciamo a battere Georgia e Romania e a vincere l’European Championship, quello che tutti chiamano “6 Nazioni B”. Tomaz Morais, ex centro della nostra nazionale, giocatore di ottimo livello, viene eletto allenatore dell’anno. Siamo una bella squadra, tosta, inferiore davanti ma mobile e cinica quanto basta per far male.

No, non siamo al livello delle grandi nazionali europee.

A ricordarmelo costantemente sono i 200 punti presi in due partite dai Borders, squadra che ora non esiste nemmeno più. Ci dicono che, però, abbiamo delle buone possibilità di qualificarci per la Coppa del Mondo del 2007.

Basta ripetersi, dicono.

Ma credo che quelli che qua sopra descrivono gli spogliatoi da fuori siano gli stessi che non hanno mai giocato contro Georgia e Romania. Tra 2005 e 2006 perdiamo contro entrambe e, nella classifica aggregata, siamo terzi. Le cose si complicano, l’iter si allunga. Finiamo in un gironcino a tre con Italia e Russia, bisogna arrivare almeno secondi per continuare a sperare. Perdiamo pure alcuni naturalizzati, dicono non abbiano il nulla osta. Contro l’Italia ne pigliamo più di ottanta, ci giochiamo tutto contro i russi in casa. La sfanghiamo, 26 a 23, ci ritocca la Georgia e perdiamo ancora. Giocare in Georgia e contro la Georgia è una delle esperienze più dure ed esaltanti del rugby. Sono appassionati, esperti, ma impietosi con l’avversario. Noi, non crolliamo, ma loro la mettono sulla mischia.

Siamo sfiniti, ma non è ancora detta l’ultima parola. C’è ancora un biglietto per la Francia. Passa per Africa e Sudamerica, per Rabat e Montevideo. Il Marocco è tosto, ha gente che gioca in Francia da anni, ma riusciamo a batterlo. Rimaniamo in due per un posto, noi e l’Uruguay. Loro hanno un pedigree molto superiore al nostro, giocatori tosti e cattivi come la peste, ma a Lisbona li battiamo. Ci giochiamo tutto a Montevideo, altro catino bollente. Perdono per un rosso Bado, il loro giocatore più rappresentativo, ma mica mollano. In mischia me la devo vedere con Pablo Lemoine, ex colonna dello Stade Français, a questi livelli uno dei piloni più forti mai visti. Faccio una fatica terribile, mi mette in croce, ma non faccio falli stupidi, soprattutto nel finale. Perdiamo 18 a 12, passiamo per un punto. Siamo al Mondiale! È una delle serate più belle della mia vita, una notte da raccontare ai nipotini.

Beh, ecco, a patto di omettere qualche particolare.

Nel centro storico di Montevideo abbiamo uno scambio di vedute con gli avversari, qualcuno alza le mani, qualcuno chiama la polizia. In sei dei nostri passano la notte in carcere, e capirete che spiegare a casa che forse non si prende l’aereo per via di un paio di manette, beh, non è il migliore dei mondi possibili. Nemmeno con una qualificazione alla Coppa del Mondo in tasca. Vasco Uva, il nostro capitano, nel pomeriggio del lunedì aveva un’udienza e doveva a tutti i costi tornare a Lisbona, mamma mia quanto sudava.

Sapete, quel giorno a Montevideo nessuno ci dava un soldo. Nessuno avrebbe mai scommesso su di noi. Ma quel giorno abbiamo capito che ogni singolo momento di salita, ogni secondo dietro a delle sbarre, ogni centimetro che perdiamo in mischia ha fatto di noi quello che siamo: un gruppo solido, magari non il più forte del mondo, ma coeso e organizzato come un branco di lupi. Appena possiamo facciamo di tutto per rimanere uniti. Anche ora, anche nel momento in cui dobbiamo scendere in campo. Ognuno con la mano sulla spalla del compagno che ci sta davanti. Gli All Blacks sembrano non guardarci, quasi non badano a noi. D’altronde sono i favoriti per il titolo. Ne lasciano a riposo tanti, ma gente come Conrad Smith, Nick Evans, Jerry Collins prima di oggi li abbiamo visti solamente in TV.

O pagando fior di biglietti, anche aerei. Io parto dalla panchina, ma l’haka me la godo in campo.

Sono terribili, furenti, le maglie stesse evidenziano muscoli che non esistono.

O meglio, muscoli che da me hanno marcato visita molto tempo fa.

Se mai ci sono stati.

Tomaz, il coach, ci ha detto di resistere il più possibile. Di provarci, in caso, che se la prendono sotto gamba qualcosa possono concedere. Hai voglia a provarci, questi attaccano come belve. Sono cinghiali, tori, ippopotami, tutte bestie che quando decidono di andare oltre vanno oltre. Noi? Una diga fatta di lupi. Bolsi, fisicamente inferiori, con qualche pelo bianco di troppo. Certo che siamo bestie feroci pure noi, ma se le prede sono più veloci rimaniamo magri, affamati e segaligni.

Io un po’ meno, ma questa è un’altra storia.

Ci segnano subito due mete. Poi, però, cominciano a strafare. Rallentano, commettono leggerezze. Qualche spazio, è vero, ce lo concedono. Gonçalo, il nostro numero 10, l’eroe del titolo europeo del 2004, butta dentro un drop e ci mette nel tabellino. Eh sì, però loro si risvegliano. Segnano altre sei mete prima dell’intervallo, totale 52 punti. Già durante il primo tempo il coach mi aveva chiamato: “Entri tu”. Le gambe cedono per un momento, vuoi perché non ti aspetti mai di entrare così presto, vuoi perché ti preoccupi un po’ per il compagno che ti lascia il posto. Passo l’intervallo a scaldarmi, a corricchiare, a provare ingaggi. Mi aspetta Greg Somerville, non so se rendo l’idea. E, in panchina, pronto a subentrargli, c’è Carl Hayman. Due monumenti della mischia neozelandese. Due mostri di tecnica e di bravura. Certo, non è che abbia affrontato degli scarsoni finora: in carriera mi sono capitati davanti, oltre a quel Lemoine, tutti i georgiani e romeni che vi vengono in mente (ve li regalo, se volete), Perugini e Castrogiovanni, Euan Murray.

Come questi, però, nessuno.

Oh, devo dirlo: mi sento parecchio un agnello, davanti a quelli là. Un agnello in mezzo ai lupi, un agnello che deve far coraggio e morale ai lupi. Il coach ci incoraggia e ci dice di non arrenderci, che prima o poi un errore lo faranno.

Che ti viene pure da chiedergli se ha veramente presente chi sono quelli lì vestiti di nero, che forse mica l’ha capito.

Poi, però, fanno rimbalzare un ovale a terra. Si addormentano e si smarriscono.

Ora o mai più.

Siamo a centimetri dalla linea. Non è che facciamo breccia, ma la palla ce l’abbiamo noi e, almeno per ora, non riescono a togliercela. Ci proviamo a testate, testate su testate. E sempre un paio a ripulire. Siamo stanchi, ma siamo il miglior groviglio che possiamo mai essere. Tocca a me. Loro hanno già capito che cosa farò. Mica sono credibile come calciatore, né come apertura. E però sono 138 chili di veterinario con pochi peli sulla testa e troppi sulla lingua, servirà pure a qualcosa tutto ‘sto carico sporgente. Vado oltre, mi cadono sopra in due o tre, non mi ricordo. Ho schiacciato, esulto, ma l’arbitro non ha visto.

Va al piano di sopra, chiama il TMO.

Parlottano. Poi torna e fischia: è meta.

Loro si guardano per un po’, non se l’aspettavano. Dicono che di solito, in questi frangenti, si rischia di perdere il controllo del match, l’inerzia tende a cambiare e a ravvivare l’incontro.

Ma credo non sia questo il caso, visto che ci fanno altre otto mete.

Usciamo comunque tra gli applausi. Dicono che lo stadio sia venuto giù dopo la mia meta, ma io non me ne sono reso conto. Passi mesi, forse anni della tua vita a pensare a come reagirai quanto ti renderai conto di aver fatto qualcosa di grande e poi puff, in quel momento sei il più rincoglionito del mondo.

Non facciamo a tempo a sederci negli spogliatoi che bussano alla porta.

Sono loro.

E hanno delle birre in mano.

Quella destinata al sottoscritto me la porge Carl Hayman.

E ora chi glielo dice che sono un pilone di 138 chili ASTEMIO?

Sì, siamo una minoranza, ma sappiamo tener su una mischia anche noi. E ringraziateci, quando afasici e barcollanti riuscite ad elemosinare un passaggio verso casa dopo il terzo tempo.

Hayman mi guarda, mi faccio capire. Afferra al volo e torna con una gazosa.

Poi si resta insieme per un po’, si parla del più e del meno. Oh, vi dico la verità, mica mi ricordo tanto bene quel che ho detto al mio avversario. Mica mi ricordo se gli ho detto che la prossima partita, quella contro la Romania, sarà l’ultima della mia carriera. Mica mi viene in mente se gli ho detto che sono un veterinario e che certe volte curo vitelli dal collo meno pronunciato dal suo.

So solo che lì, in quello spogliatoio, si stava tanto bene. Anime belle in corpi bruttissimi, anime brutte in visi angelici, gladiatori in vesti di putti. Veterinari, avvocati, studenti, professori, campioni di rugby.

Ce n’è per tutti.

Gli spogliatoi sono fatti di anime che si intrecciano e si ingarbugliano. E voi che rimanete là fuori non sapete nemmeno cosa vi perdete.

Mi chiamo Rui Cordeiro, ho 31 anni portati malissimo e 138 chili di granitica resistenza a botte, placcaggi e piloni avversari. Sono quasi un ex giocatore di rugby, ho segnato una meta agli All Blacks e convinto Carl Hayman dell’esistenza di piloni astemi nel nostro universo. Durissima, se ci pensate.

Sarà molto più dura, la settimana prossima, convincere Pedro, il toro della famiglia Rodrigues, dell’esistenza di piloni col collo più grosso del suo.

E convincere tutti che, a volte, un agnello in mezzo ai lupi ci sta proprio bene.

Agnello in mezzo ai lupi

Linea bianca

Ve lo giuro, quella era una meta grande come una casa. Certo, non sapevo dove fosse la mia gamba sinistra in quel momento, ma mica era per terra. Cavolo, non sono Yuri Chechi. Quella era meta. Jonny era già pronto per trasformarla, e lo sa pure chiunque ci sia lassù a vegliare che l’avrebbe buttata dentro. E poi, con noi davanti, avrei voluto vederli, gli Springboks. Mostruosi per tutto la Coppa del Mondo, inumani contro chiunque, ma attanagliati da una folle paura quel giorno. Ci avevano massacrato nel girone, trentasei punti a zero, senza colpo ferire. Ci avevano distrutto nei test-match prima della Coppa del Mondo, più di cento punti in due partite con mezza squadra abbracciata al water per via di un certo pesce avariato. Dicono che da quelle parti mangiare e bere non sia sempre la cosa più bella del mondo. Oh, lo dicono gli All Blacks, mica noi. Pesce avariato, sembra. Fosse ancora vivo mio bisnonno Antonio li prenderebbe a bastonate uno per uno. Sangue caldo sulla terraferma, sangue freddo sui pescherecci. A Santander sapeva come trattare la materia, a inizio ‘900, ma siccome da quelle parti i soldi non erano mai abbastanza decise di partire. Trovò la sua nuova Cantabria a Maryport e divenne un fenomeno col fish and chips. Di lui mi sono rimasti un cognome, Cueto, che qui in Inghilterra è parecchio esotico, e qualche ben avviata attività di ristorazione. Sangue caldo poco, in un campo da rugby non è che te lo puoi permettere troppo. Ecco, forse un po’ di sangue freddo di quello che aveva lui in mare, quello forse sì. Da ala o da estremo devi saper stare calmo pure con il cuore in tempesta. Ricevere palloni alti quando con la coda dell’occhio vedi una muta di avversari puntarti non è semplice. Di solito ti dicono di fare una cosa per volta: guardare l’effetto del pallone, riceverlo in sicurezza e poi pensare a chi vorrebbe azzannarti caviglia o sterno. Di solito quelli che parlano così un buco non l’hanno mai fatto in vita loro. Difficile? Certo che lo è. Nessun allenatore, appassionato, compagno di squadra più anziano vi dirà mai che è semplice,  ma vi farà capire che tutto quel che vi capiterà lì dentro ne varrà la pena. Ci vuole sangue freddo per giocare trequarti, tanto. È capire se e come il tuo avversario ti lascerà un buco, se e come le sue gambe possono essere battute, se e come giocare in superiorità numerica, che è come giocare a scacchi. E viceversa, perché tutti questi calcoli li faranno pure su di te. No, nonno Antonio difficilmente avrebbe giocato a rugby, avrebbe mandato a cagare tutti dopo cinque minuti. A meno che qualcuno. Se si fosse giocato in acqua, forse. Quel che è certo è che quei sudafricani e quel loro pesce li avrebbe fiocinati per bene. Ci ha pensato soprattutto Jonny a portarci avanti nel torneo. No, non era questione di piede. Non solo. Chi dice che sia il miglior calciatore del mondo ovale si sbaglia di grosso. Lui è molto di più. Troppo superiore mentalmente, troppo avanti per tutti. Era avanti di dieci anni nel 2003, figuratevi con la squadra di quattro anni dopo, nella nazionale in cui giocavo pure io. È tenuto insieme con lo scotch, ma non lo dà a vedere.  Salta le prime due partite, noi perdiamo malamente contro gli Springboks e non prendiamo il bonus contro gli americani. Un disastro, se permettete. Poi cambia tutto. Prima della Coppa del Mondo ci avevo giocato insieme pochissime volte, era sempre infortunato. E, ma questo lo venni a sapere più tardi, stava combattendo contro un avversario più subdolo e pericoloso di una terza ala incazzata. Io ho debuttato con la Nazionale maggiore subito dopo il Mondiale vinto, nel 2004. Prima ero stato nei Saxons e nella nazionale Seven. Ero uno di quelli su cui, tra i trequarti, si puntava di più. Io, a Sale, e Sinbad, al secolo  James Simpson-Daniel, di e a Gloucester. Un fenomeno vero, perché uno che al debutto fa il giro attorno a Jonah Lomu e brucia Chris Cullen non lo puoi definire diversamente. Un fenomeno con le caviglie di cristallo, in Nazionale lo si è visto troppo poco. Non sono grandi anni per la nostra Nazionale, paghiamo un ricambio generazionale arrivato forse con troppo ritardo, una schiera di ragazzi ancora troppo fragili per prendersi certe responsabilità e l’assenza di quel fenomeno con la 10 sulle spalle. Alla Coppa del Mondo non siamo tra le favorite, e le prime due partite certificano qualcosa che già sappiamo. In patria veniamo paragonati ai ragazzi mandati allo sbaraglio da Woodward nel cosiddetto “Tour of Hell”. La differenza, dicono, sta nel fatto che quella Nazionale era chiaramente sperimentale, la nostra no. Poi arriva Jonny e cambia tutto. Nemmeno lui è quello del 2003, ma basta e avanza contro Samoa e Tonga. Ai quarti ci attendono i Wallabies, è la replica della finale passata. Hanno fatto un discreto girone, ma hanno perso Larkham dopo pochi minuti del primo incontro. Non è la stessa cosa. Li massacriamo in prima linea grazie a Dan Sheridan, uno dei piloni più sottovalutati della nostra generazione. Un mostro, soprattutto in palestra. A sorpresa in semifinale troviamo la Francia, sconfitta a sorpresa nel girone dai Pumas all’esordio e clamorosamente in grado di battere gli All Blacks ai quarti. Certo, ci sarebbero un paio di cose che non tornano sulla gestione arbitrale, ma mi hanno insegnato che l’arbitro non si tocca. C’è sempre la Francia, nel nostro cammino. La battemmo quattro anni fa, ci ripetiamo con una grandissima prestazione difensiva. E di Jonny, che con un drop dice a tutti che la finale ce la meritiamo.

Affrontiamo di nuovo gli Springboks. Ma capiamo subito che non è la stessa cosa. Certo, sono più forti, più potenti, più efficaci, ma non sono l’armata poderosa e sfrontata che ci ha massacrato nei gironi. Sembra che abbiano paura, ammesso e non concesso che gente come Bakkies Botha,Viktor Matfield,  Schalk Burger e altri possa aver paura. Hanno brutalizzato tutto e tutti, ma contro di noi non riescono ad andare oltre ai calci di Montgomery. A fine primo tempo sono avanti di sei punti, 9 a 3, ma noi mica siamo fuori gara. Tait riceve un pallone strano, i sudafricani battezzano quel pallone come perso e per una frazione di secondo si bloccano. Tait tira dritto e taglia letteralmente a fette la difesa. Lo bloccano a centimetri dalla linea di meta. L’azione è velocissima, in due passaggi il pallone arriva da me, praticamente sulla linea di touche. È il mio habitat, quella linea. Il pallone lo prendo e mi tuffo. Sento che un sudafricano sta provando a buttarmi fuori, ma io quel pallone lo schiaccio a terra. Meta, è meta. Ci abbracciamo, Jonny prende il pallone e si prepara per trasformare, ma l’arbitro lo ferma. Vuole controllare con il TMO. Ecco, avete presente quegli attimi che in TV vi danno il tempo di aprire il frigo ed estrarre altra birra? Ecco, per noi sul campo sono interminabili. Lo sarebbero in un incontro “normale”, figuratevi in una finale di Coppa del Mondo. Qualcuno si scalda, altri si mangerebbero ben volentieri le unghie. Mai visti i sudafricani così silenziosi e morigerati. E attendiamo ancora. Sembra, ma questo lo scopriremo poi, che ci siano dei problemi di comunicazione tra francesi e inglesi, con i primi che non riescono ad esprimersi in corretto inglese. Fosse vivo mio bisnonno Antonio, uno che con l’inglese aveva più di un problema ma che si faceva capire eccome, li andrebbe a prendere e li solleverebbe come sogliole e merluzzi senza l’ausilio della canna da pesca.

Poi l’arbitro parlotta alla trasmittente.

Ringrazia.

“No try”

La mia gamba sinistra aveva oltrepassato la linea di touche prima che il pallone toccasse terra. Ve lo giuro, quella era una meta grande come una casa. Certo, non sapevo dove fosse la mia gamba sinistra in quel momento, ma mica era per terra. E di certo non sono Yuri Chechi. Poi, mesi dopo, rividi quel filmato. Prima che la mia gamba sinistra decollasse il mio stinco aveva toccato il bianco del gesso.

No try, hanno ragione loro. Avrei voluto vederli a inseguirci, gli Springboks. Vedere cosa sarebbe successo. Magari avrebbero ritrovato la forza dei giorni precedenti e ci avrebbero massacrato, chissà. O forse la frenesia avrebbe potuto impadronirsi di loro. Chissà. Finisce 15 a 6. Alla fine di quell’anno la EA Sports produrrà Rugby 08, il videogame basato su quella Coppa del Mondo e su altri tornei europei e mondiali. Quello disegnato in copertina vestito di bianco sono io, Mark Cueto. Ho giocato un altro Mondiale,ho vestito la maglia dei Lions, ho ad oggi il record di mete segnate in Premiership in carriera, me lo ricordo ancora l’abbraccio dei compagni quel giorno. Ho saputo discernere tra sangue caldo e sangue freddo come Antonio, mio bisnonno, faceva tra terra e mare, tra Cantabria e Cumbria, tra Spagna e Inghilterra. Porto avanti le sue attività di famiglia, o meglio, quello che sono diventate. Ho vinto un campionato con Sale, con gli Sharks, sono stato eletto Membro dell’Ordine Britannico.

Ma per quella meta, per quei centimetri tra terra e cielo, tra campo e area di meta, avrei scambiato tutto quel che ho.

E sono sicuro che Antonio, da lassù, mi capirebbe.

Linea bianca

“Hoy les ganamos”

“Mira la cara de miedo de estos pibes, están petrificados. Hoy le ganamos”.

Agustín Pichot ha 33 anni, lunghi capelli fluenti e sta per intraprendere la sua quarta Coppa del Mondo. Per dire, lui c’era quando Diego Dominguez chiamò la palla nella sua lingua madre e marcò la meta più avvolta nel mistero della nostra storia ovale. Pichot conosce benissimo ogni centimetro dello stadio, gioca in Francia dal 2003, ci giocherà fino al 2009, i ciuffi d’erba di quello stadio non hanno segreti per lui. Li ha sognati, li ha vissuti. Ha sognato pure gli spogliatoi, forse si è ripetuto più volte, tra sé e sé, le parole e le frasi giuste da dire ai suoi compagni. È il capitano designato della squadra, ma non lo noti solo dalla fascia al braccio o dall’autorizzazione a parlare con l’arbitro. No, non è solo questo. Ha in mano idealmente i cuori di tutti i suoi compagni, dal più giovane al più vecchio. Tra questi ultimi, tra quelli che le cicatrici se le portano a spasso da un po’, c’è Mario Ledesma, tallonatore di Clermont e veterano di tre Coppe. Ha solamente un anno in più di Pichot, ma saranno i capelli radi, quella faccia cotta dalle collisioni delle prime linee o la bocca sottile e tirata come la corda di un violino, ma gliene daresti una decina in più. Pichot ha appena visto i francesi uscire dal loro spogliatoio, sono davanti a lui. Si gira verso Ledesma. Li conoscono bene, tanti sono loro compagni di squadra, qualcuno lo affrontano da anni. Non sono i soliti francesi, non sono quelli che si aspettano. Sono duri, rigidi. Non si parlano. “Hanno paura, sono pietrificati. Oggi la vinciamo”.

Ledesma incassa.

Eh, ti pare facile.

I francesi inaugurano il Mondiale a casa loro, è appena terminata la cerimonia d’apertura. Hanno già un bel cammino disegnato davanti, hanno già previsto tutto: i primi del loro girone continueranno a giocare in Francia, i secondi dovranno sudare in quel di Cardiff. Hanno vinto gli ultimi due Sei Nazioni facendo vedere un gioco spumeggiante, spettacolare, con trequarti che vedi quando partono e quando arrivano, ma in mezzo non li becchi mai. Con avanti che muovono bene le mani e che non li sposti nemmeno se ti metti a pregare. E come fai a batterli questi?

Hanno paura però. Puoi essere grande, grosso, velocissimo e sgusciante, ma se vedi gli spettri è un problema serio.

Pichot lo sa, sa che quel match lo vinceranno i Pumas. Forse perché sa da dove arrivano quei suoi Pumas.

Da un ritiro a Pensacola, Stati Uniti, a mettersi fisicamente in bolla. Allenamenti massacranti, senza mai vedere un pallone da rugby. Poi a Newman, primo test-match contro la nazionale cilena, 70 a 14 in scioltezza. Poi l’arrivo in Europa, la sconfitta col Galles e la perdita di Martín Gaitán, centro di Biarritz, vittima di una insufficienza cardiaca, salvato con uno stent in spogliatoio. Poi il passaggio in Belgio con annessa vittoria sulla nazionale locale. Pichot ha vissuto tutti i momenti del suo gruppo, sa che i suoi possono farcela. Sa che Gonzalo Longo tornerà, ne è certo, ma che contro i padroni di casa non ci potrà essere. Sa pure che quel coach, quel Marcelo Loffreda, forse ha avuto l’idea giusta al momento giusto. Al momento di scegliere il mediano di apertura titolare tra Federico Todeschini, eroe di Twickenham appena un anno prima, e Felipe Contepomi, numero 10 di Leinster e tra i più in forma della squadra, decide di puntare tutto su Juan Martín Hernández, estremo dello Stade Français. Ha intuito che quel cristone di quasi due metri, solitamente a suo agio come estremo baluardo della squadra, potrebbe fargli molto comodo nella stanza dei bottoni. No, non è solo questione di una spingardata ambidestra da minimo 50 metri ad ogni colpo di tomaia. E non è nemmeno quella sua capacità innata di disegnare drop che sembrano arabeschi. No, non solo. Hernández vede una partita diversa da quella dei suoi compagni, è come se avesse uno spartito tutto suo. Non è un caso che quando mette a lustro quelle due penne stilografiche solitamente coperte da scarpe tacchettate dalla tribuna il pubblico intoni “Maradò, Maradò”.

Già, un numero 10 con quella capacità al piede, con quella visione e con quei colori tatuati l’hanno già visto.

Solo che era un altro sport.

Il Saint-Denis, stracolmo, sembra portare in braccio i suoi giocatori. Applaude ad ogni possesso francese, spinge i suoi con un calore palpabile. Ne hanno tanto bisogno, lì in campo. Perché Pichot aveva ragione, i francesi sono pietrificati. Forse da un percorso che li vede favoriti obbligatori, o comunque obbligatoriamente sulla cresta dell’onda. Forse da un evento rivelatosi effettivamente troppo anche per loro. Non si sa, non è dato saperlo.

Sta di fatto che i Bleus, quando decidono di giocare a modo loro, non riescono a trovare breccia. Anzi, al primo possesso forzato vengono puniti, Contepomi calcia dentro i primi 3 punti. La tattica adottata dagli argentini non è ancora ben delineata in campo, ma bastano pochi minuti, giusto il tempo del pareggio di Skrela dalla piazzola. I Pumas non hanno la caratura dei francesi. Sono forti, in molti giocano a quelle latitudini, ma sulla carta non avrebbero il passo, soprattutto tra i trequarti, per reggere l’urto. Il French Flair, per dire, è qualcosa a cui non potrebbero resistere. Loffreda e il suo staff, allora, puntano tutto sulla pressione: una difesa asfissiante, una caccia all’uomo che per poco non mette nel sacco l’estremo Heymans. E poi Hernández, che deve aver ricevuto l’ordine di calciare ogni possesso. E, forse, anche quello di far fare un po’ di casino al triangolo allargato francese: il numero 10 argentino sciorina, uno dietro l’altro, una serie di up’n’under che mettono in estrema ambasce Heymans, Dominici e Rougerie. Certo, è una tattica rischiosissima, se questi ricevono bene e hanno due metri puoi solo dirgli ciao, ma se sotto il pallone si presentano sempre due terze linee argentine brutte, sporche e cattive, beh, di palloni puliti la Francia ne vede ben pochi. Al resto ci pensa la Bajadita, l’arte tutta argentina di spingere senza tallonare, ossia di trovarsi davanti la mega offerta della settimana, tre piloni al prezzo di due. Ledesma, Roncero e Scelzo fanno diventare matti gli avversari, stessa cosa nei raggruppamenti, dove Leguizamón e i due fratelli Fernández Lobbe fanno il diavolo a quattro. Contepomi infila due calci abbastanza defilati, lo stadio non fischia più come all’inizio. Sul 9 a 3 lo spartito non cambia: i Pumas hanno praticamente venduto la propria metà campo, la Francia non riesce ad uscire dall’impasse. Poi però, quando Traille riesce ad arpionare l’ennesima candela di Hernández, sembra che l’incantesimo si possa rompere. Traille attacca la linea e serve Martin. Il flanker transalpino ha come minimo tre compagni liberi all’estremo, ci sono tutti i crismi per la più comoda delle mete in mezzo ai pali. Lo passa quel pallone, ma sulla traiettoria si lancia Horacio Agulla, unico giocatore argentino nei paraggi. Agulla serve Manuel Contepomi, fratello di Felipe, anche lui centro. Siamo a metà campo. Potrebbe benissimo cercare un calcetto rasoterra per mettere pressione.

O per guadagnare tempo, una delle due.

Sente invece delle urla provenire da dietro, lui lascia andare l’ovale verso destra.

Dietro di lui si palesa, inaspettato, Ignacio Corleto, professione estremo, che disegna una curva da duecentista e va a schiacciare quasi in bandierina.

Ecco, se già qualche secondo prima l’atmosfera non era quella auspicata per un giorno di festa come quello, ora la paura è parecchio palpabile. I francesi si guardano, poi guardano quegli alieni vestiti di bianco e azzurro. Non riescono a capire dove sia l’errore, dove abbiano sbagliato qualcosa. No, non così, non oggi. Skrela centra due volte i pali, tra i due tentativi Contepomi raccoglie tre punti praticamente dal garage di casa sua, a fine primo tempo i Pumas sono avanti per 17 a 9. Certo, non possono durare ancora per molto a quel ritmo, ma la Francia del Sei Nazioni, quella che si è disegnata una Coppa del Mondo vicino a casa, non può essere sotto. Non senza dare prova della forza dei propri muscoli, non senza uscire dal proprio guscio di paura, guscio bellamente arredato nei primi 40 minuti di partita. Qualche anno dopo proprio i francesi diranno che certe partite, certe situazioni, diventano una questione di uomini con la U maiuscola, e forse già all’inizio della ripresa danno modo di far capire che il vento è cambiato. I Pumas sembrano accusare il colpo, effettivamente non potevano durare troppo, ma i francesi per un quarto d’ora non riescono a far breccia. Poi, d’improvviso, parte una maul travolgente. Devasta tutto quel che si ritrova davanti, fa 30 metri prima che gli argentini, non si è mai capito come, la fermino in prossimità della linea di meta. Il Saint-Denis ruggisce, sostiene e porta avanti i suoi. L’arbitro leva il braccio, è vantaggio francese. Altro scossone del pubblico. I galletti provano a far uscire la palla, i Pumas si difendono stringendo i denti. Le fasi si susseguono, il vantaggio finisce. Poi Christophe Dominici, folletto francese, prova l’avventura solitaria. Viene placcato, poi Ledesma si abbassa, sembra una versione muscolata del Pio XII descritto da Francesco de Gregori in “San Lorenzo”. L’unica differenza però, oltre alle fedine penali, sta nel fatto che mentre il rampollo di casa Pacelli spalancò le ali, il buon tallonatore di Clermont cala le pale dello scavatore.

Tenuto grande come una casa.

Sipario.

“Mira la cara de miedo de estos pibes, están petrificados. Hoy le ganamos”.

Sì, la vincono loro, e la vincono qui. Pichot e le sue urla, Ledesma e il suo grugno da papà della morosa che mai vorreste incontrare(il papà, non la morosa). Tutti i Pumas piangenti durante l’inno, e fidatevi che sono tanti. La vincono loro, perché Parigi tutta, francesi e non, rimane ipnotizzata di fronte a cotanta resistenza, a tale abnegazione davanti alla sofferenza. Parigi tutta, figuratevi quelli in campo: Skrela e Michalak sbagliano un calcio a testa, calci facili, che sbagli solo quando si spegne la luce. Ci provano in tanti a suonare la carica, pure Chabal, l’orco cattivo, che tra tutte quelle facce bianche e azzurre sembra un capitano di ventura, ma finisce per essere il più ossequioso dei chierichetti. Skrela porta i suoi a meno 5, ma l’ultimo serrate muore lì, pochi metri fuori dai 22 francesi. I Pumas si abbracciano tutti, da capitan Pichot, che arringa tutti e che ha in mano idealmente i cuori dei suoi compagni, dal più giovane al più vecchio, da quello del Mago Hernández, a quello di Ledesma, a quello di Nacho Corleto autore della meta.

Di tutti quelli in campo.

Di Martín Gaitán, un cuore salvato in extremis e sempre con loro.

Dei tifosi sugli spalti, da quelli che ci credevano a quelli che sono usciti dal loro personale ateismo ovale.

Forse perché non sapevano da dove arrivassero quei Pumas.

E  forse perché non sapevano ancora dove sarebbero arrivati.

 

“Hoy les ganamos”

Il re taumaturgo

Guglielmo il Conquistatore divenne re d’Inghilterra nel 1066 dopo aver sconfitto l’esercito anglosassone nella battaglia di Hastings. Trattandosi il buon Guglielmo di un normanno abbiamo a che fare quindi con il Crunch più grosso e importante mai portato a casa dai francesi. Ma siccome siamo partiti da molto (troppo, forse) lontano, andiamo al sodo: tra i vari poteri annoverabili dal nuovo re d’Inghilterra, sin dalla sua nascita, figura quello della guarigione dalle scrofole. Abbiamo davanti quindi un re taumaturgo, signore e signori, in grado di guarire, in linea teorica, malattie e ferite infette. In linea teorica, perché poi nulla risulta dal personale score del re alla voce “guarigioni”. Dicono però la taumaturgia fosse ereditaria. E allora ci piace pensare che, nel corso degli anni, qualche parente alla lontana del vecchio normanno sia andato ad abitare nel Surrey, poco distante da Londra. E che questi parenti negli anni ’70 abbiano messo insieme il DNA e il sangue necessari per creare un altro erede in grado di guarire con la sola imposizione delle mani. Saremmo allora in grado di spiegare tante cose successe in questo pazzo mondo ovale negli ultimi 20 anni. Saremmo in grado di capire come nel 2007 una Nazionale spenta, abulica, senza una vera e propria guida sia riuscita ad arrivare ad una finale di Coppa del Mondo contro gli Springboks forse più forti di sempre. E a giocarsela per gran parte di quegli ultimi 80 minuti. Saremmo in grado anche di capire anche come questo nuovo taumaturgo sia riuscito in qualche modo a imporre le mani pure su sé stesso, prima di prendere in mano e per mano i suoi. Forse riusciremmo a capire qualcosa di questo biondino, che di nome fa Jonathan Peter Wilkinson e che nel 2003, a 24 anni, era sul tetto del mondo.

Poi però qualcosa va storto. Più di qualcosa: una spalla, un ematoma al braccio, due volte i legamenti mediali del ginocchio, un attacco di appendicite, un’ernia, ancora una volta i legamenti del ginocchio, un rene, innumerevoli caviglie storte. Mancano giusto le cavallette. No, non è finita qui. Perché insieme a questa serie di infortuni, infortuni che avrebbero abbattuto chiunque, arriva anche la cosa peggiore che possa colpire un uomo nel ventunesimo secolo: Jonny cade in depressione, si avvicendano attacchi d’ansia che colpiscono più duro di un Brian Lima in volo e attimi di sconforto.  Ne prende coscienza in tempo utile ed ha il coraggio di ripartire, di farsi aiutare. E poi di tornare a giocare.

Il primo match con la maglia bianca e la rosa sul cuore dopo il Mondiale 2003 è la Calcutta Cup del 2007. 3 anni e mezzo senza incontri internazionali, se escludiamo il tour dei Lions del 2005 (e prima di andare in Nuova Zelanda troverà il tempo di salvare i britannici da una clamorosa sconfitta contro i Pumas). Era tornato a giocare un match in Premiership appena due settimane prima. Segnerà 27 punti, con tanto di meta in bandierina. Sette giorni dopo batterà quasi da solo una grande Italia, segnate altri 15 punti. Ma non è una grande Inghilterra, se dobbiamo dirla tutta. E siamo buoni. Scordatevi quella armata di filibustieri meglio conosciuta come Dads’ Army, quella che tra 2002 e 2003 mise a soqquadro il mondo del rugby, soprattutto a sud dell’equatore. Sono rimasti due o tre eroi decorati, c’è ancora Lawrence Dallaglio, ci sono ancora Mike Catt e Josh Lewsey, c’è l’eterno Simon Shaw, ma non è più la stessa cosa. L’emisfero Sud ha cambiato marcia, Springboks in testa. Nel 2004 questi ultimi cambiano ct. Al posto di Straeuli arriva l’ex allenatore della Nazionale under 21, si chiama Jacob Westerduin, ma il mondo lo conosce con un altro nome, meno boero e più inglese: Jake White. Il nuovo coach, tra le altre cose, comincia ad avvalersi di una eminenza grigia del rugby, uno che il Mondiale l’ha perso nel 2003 da allenatore e che nel 2015 proprio agli Springboks farà uno sgambetto di quelli da ricordare: si chiama Eddie Jones, uno a cui ogni amante del rugby dovrebbe come minimo una birra. Ne viene fuori una generazione di talento, forza fisica e cattiveria agonistica incredibili, irraggiungibili per gli standard dell’emisfero nord. Se ne accorgono subito, gli inglesi, che fanno l’errore di testare alcuni nuovi innesti negli incontri precedenti al Tri Nations. A questo aggiungete del cibo avariato e qualche notte in bagno, fanno 113 punti in due incontri, è un vero massacro. Jonny Wilkinson è in campo entrambe le volte, ma non è cosa. Poi si infortuna alla caviglia e deve saltare i primi due match del girone, che può andar bene se debutti contro gli Stati Uniti, meno se dopo qualche giorno ti ritrovi davanti ancora gli Springboks. Anche perché l’unica vera alternativa a questi livelli in cabina di regia si chiama Charlie Hodgson, ma è a casa infortunato. Le alternative non mancherebbero, ci sarebbe Andy Goode, ma l’opinione pubblica inglese storce il naso. Si punta tantissimo su Olly Barkley, che da ragazzino era un fenomeno e va in cerca di conferme. Contro gli americani è lui il 10 titolare, ma non convince fino in fondo. È diventato infatti nel tempo un primo centro con grandissime mani e grandissimi piedi, ma in cabina di regia non riesce a far fruttare al meglio le grandissime abilità di cui dispone. Finisce con una vittoria, ma non arriva il punto di bonus. Sommate: Barkley si infortuna. Con gli Springboks tocca al veterano Mike Catt. Non va a finire bene: i sudafricani sono ovunque, erodono il terreno, ogni volta che prendono palla sono pericolosi. Gli inglesi non ne vengono fuori, nella ripresa in regia va addirittura Andy Farrell, ma non segnano nemmeno con la matita.

E ora che si fa?

Quattro punti in due partite per i campioni del mondo in carica sono pochi, troppo pochi. I giornali inglesi, che in caso di sconfitta sanno essere molto critici, associano questa Inghilterra a quella del Tour of Hell, quella che nel 1998 uscì dall’emisfero sud con le ossa rotte. Il ct Brian Ashton è subissato di critiche, ma finalmente Jonny è pronto a uscire dall’infermeria. Contro Samoa, in un mondo perfetto, se ne starebbe comodo in panchina, pronto magari a raddrizzare la barca nel finale, in caso stia andando tutto per il peggio. No, numero dieci titolare, in tanti hanno annusato che il XV della Rosa rischia parecchio grosso. Va subito in meta Corry, poi il numero 10 di bianco vestito si presenta: drop in mezzo ai pali, 10 a 0 dopo 6 minuti. Sembra una strada in discesa, ma i samoani stupiscono e fanno le formichine: a ogni infrazione inglese si va in piazzola, i fratelli Tuilagi, il cervello di Mapusua e il piede di Crichton (che a fine carriera passerà anche per l’Aquila) tengono a galla gli isolani. Solo che dall’altra parte Jonny ha preso già confidenza: calcia un grabber che è praticamente uno Swarovski, Paul Sackey raccoglie da terra e porta i suoi sul 23 a 6. Crichton ricuce, poi Schwalger brucia i trequarti inglesi e schiaccia il 26 a 22 ad inizio ripresa. È il momento più duro per gli inglesi, perché questi non si scollano dalla scia. Mancano 10 minuti al termine, ci pensa Jonny: altro drop, altro centro.

Capiamoci, però: questo non è il più grande Wilkinson mai apparso, dalla piazzola sbaglia cose che prima degli infortuni non avrebbe calciato fuori nemmeno da bendato. Però siamo davanti all’uomo giusto al momento giusto: è un leader, prende per mano tutti i suoi e li tira fuori dal baratro. E come fai a non seguire ciecamente uno che a 19 anni è uscito vivo e vegeto da un tour nell’Emisfero Sud, tour che ha stroncato carriere e che avrebbe ammazzato gente ben più navigata? Come fai a non farti guidare da uno così? I samoani si sciolgono, arrivano altre due mete e pratica chiusa. Per la qualificazione bisogna però giocarsi tutto con Tonga, la vera sorpresa del girone: ha battuto Samoa e Stati Uniti e messo in grossa difficoltà gli Springboks, perdendo solamente di 5 punti. Contro gli inglesi partono fortissimo, vanno avanti 10 a 3, poi subiscono 2 mete di Sackey e due calci di Jonny. Pierre Hola segna il calcio del 13 a 19, ma Wilkinson e compagni non sono più quelli dei primi due incontri e la chiudono col bonus.

Si va ai quarti contro l’Australia, segnate 12 punti per il numero 10 in bianco e una prestazione mostruosa della prima linea (per piacere, guardatevi cosa fa Sheridan a Shepherdson e a Baxter nel secondo tempo). Semifinale contro la Francia, e scusate se diciamo che non è mai uno scontro banale.

Anche perché Lewsey buggera Traille e segna la meta del vantaggio dopo soli 78 secondi.

I francesi si trovano davanti ad uno Stade de France improvvisamente muto. Dopo aver buttato fuori gli All Blacks tutto sembrava possibile, nonostante i Pumas li avessero spennati al debutto. Poco a poco però i padroni di casa tornano sotto con Beauxis e sorpassano prima della fine del tempo. È una partita dura, poco spettacolare, vincono a mani basse le difese. Beauxis allunga dalla piazzola, adesso è 9 a 5. L’apertura francese prova a più riprese il drop, vuole allungare, sa che portarsi in volata questi inglesi con quel biondino lì, quello che se scalda il piedino accende sono volatili per diabetici, diventa dura. Niente da fare, ne prova tre, nessun centro. Tra gli inglesi a dare la scossa è Jason Robinson, in vero e proprio stato di grazia per tutto il Mondiale, tra i pochi a predicare nel deserto dall’inizio. E poi c’è Jonny: butta dentro due calci nei momenti più duri e riporta avanti i suoi, 11 a 9. Poi al 75′ riceve palla da Richards, biondo come Matt Dawson, prende la mira e spara il drop che assicura la vittoria ai suoi. Come 4 anni prima, ma senza tutta quella bellezza e quella facilità nel percorso. Ma forse per questo ancora più bello nel suo essere all’improvviso costretto all’umanità, tra aliti caldi e nient’affatto angelici e ovali che non filano più lisci come un tempo. È finale, davanti ancora gli Springboks, che hanno dato 37 punti ai meravigliosi Pumas di Loffreda. Sembra già tutto scritto, ma l’abbiamo detto, è una finale, e allora ci sta che sia una partita diversa sotto tanti aspetti. Gli inglesi non sono più quelli timidi e impacciati di inizio torneo, ma in touche contro Matfield e Bakkies Botha è sofferenza vera. E quello Schalk Burger in terza linea sembra quel mostro che pensavamo si nascondesse nei nostri armadi quando eravamo bambini: grosso, cattivo, tremendamente efficace. Montgomery passa, pareggia Wilkinson, poi ancora Montgomery, due volte. Il Sudafrica ne ha di più, si vede, ha ancora qualche carta da giocarsi, ma all’improvviso Tait recupera un brutto passaggio di Gomarsall a metà campo e si invola. Si mangia 50 metri di campo, si beve tutti, pure Montgomery. Poi appare Matfield, quasi dal nulla. Palla fuori immediata, Cueto riceve in bandierina e schiaccia. Solo che il piede tocca la linea bianca, rimessa sudafricana. Gli Springboks per qualche minuto sbandano, si rendono conto che il Mondiale lo possono anche perdere. Wilkinson centra i pali di nuovo, solo tre punti di ritardo. I bianchi però finiscono la benzina, soprattutto davanti, e allora Montgomery allunga ancora. Poi Frans Steyn dà una spolverata alla catapulta che si trova sotto la caviglia e sigilla la vittoria. Vincono loro, giusto così, le ultime testate inglesi sono i colpi del pugile in difficoltà, i colpi di chi sa già che sta perdendo incontro e lucidità, ma che metti mai che lo prendo bene per una volta.

Non succederà.

La Coppa va ai più forti, com’è giusto che sia.

Gli inglesi, dietro agli sguardi delusi e corrucciati, nascondono una discreta contentezza. Non lo diranno mai, anche perché arrivare secondi brucia sempre e comunque, a tutti i livelli, ma sono quasi sollevati dopo un inizio a dir poco traumatico. Neanche ci speravano alla finale dopo quel 36 a 0 sul groppone. Si sentono come guariti da qualcosa, da qualcuno.

Ma in fondo dicono che la taumaturgia fosse ereditaria. Dicono che l’ultimo regnante ad attribuirsi poteri di guarigione e di taumaturgia al di là della Manica sia stata Anna Stuart, passata ad altra dimensione nel 1714. Dicono che il buon Guglielmo il Conquistatore, vincitore del più grosso Crunch tra Inglesi (Anglosassoni) e Francesi, non avesse mai manifestato questi poteri in terra inglese, ma solo portato ad Hastings e dintorni i lasciti delle sue radici, oltre che a quel che è praticamente la nonna della lingua inglese che conosciamo. Al resto ci penserà un suo omonimo, bardo nativo di Stratfod-upon-Avon, ma questa è un’altra storia.

Ci piace pensare però che, nel corso degli anni, qualche parente alla lontana del vecchio normanno sia andato ad abitare nel Surrey, poco distante da Londra. E che questi parenti negli anni ’70 abbiano messo insieme il DNA e il sangue necessari per creare un altro erede in grado di guarire con la sola imposizione delle mani sé stesso e una Nazionale lontana dai fasti di quattro anni prima.

Con la sola imposizione delle mani.

E dei piedi. Possibilmente su un pallone ovale.

 

God Saves their gracious Wilko.

Il re taumaturgo