Dal rugby non si scappa

Poteva andare molto meglio, come ultima volta. Avrei potuto giocarmela meglio.

Appena quattro settimane prima avevo vinto il meeting di Dublino con un 19 e 93. Record nazionale irlandese, anche se solo per qualche giorno. Se avete un minimo di dimestichezza con il lancio del peso, anche solo televisiva, saprete che la soglia dei 20 metri divide i buoni atleti dai fenomeni. E io c’ero andato molto vicino, a pochi passi da casa mia. Mi avevano previsto un futuro importante nella disciplina, anche perché i pesisti, dicono, maturano più tardi. E i miei ventuno anni erano età da bambino, in mezzo a quei mostri. Eppure, nonostante un’età che a stento mi avrebbe permesso di comprarmi dell’alcool, il titolo nazionale irlandese l’avevo già vinto cinque volte. E, con quella palla da sette chili e duecentosessanta grammi, forse, avrei potuto costruire un avvenire sicuro. Una carriera da atleta professionista, a cominciare dai Giochi Olimpici di Barcellona. Eh, quei quasi venti metri mi hanno garantito il minimo olimpico e un viaggio in una avventura che non tutti i miei coetanei hanno avuto il privilegio di vivere.

Solo che i Giochi Olimpici, per me, sono stati la fine della mia avventura da pesista.

Certo, avevo il talento. Mi sono rivisto, di recente, in un riassunto video di un campionato studentesco irlandese a Belfield, poco distante dal centro di Dublino. Avevo diciotto anni e già due titoli nazionali nel curriculum, ma volevo far fare una bella figura alla mia scuola. Mi ricordo i miei avversari, quello che arrivò più vicino lanciò l’attrezzo a quattro metri dal mio. Mi ricordo l’inguardabile tuta in acrilico del giornalista, mi chiedo cosa gli sia venuto in mente quel giorno. E mi ricordo l’intervista all’allenatore, che non fece tanti nomi. Un paio, forse.

Il mio, Victor Costello, lo scandì bene.

Certo che mi ricordo quei giorni. E mi ricordo tutti i sacrifici fatti per costruirmi. Tutte le sessioni di allenamento, tutti i ritmi forsennati con i quali mi dovevo cimentare ogni giorno. Tutto suo padre, diceva mia mamma. Non che avesse tutti i torti del mondo, l’amore per il lancio del peso l’avevo preso da lui. E pure quello per il rugby, visto che Butch Costello era una signora seconda linea, con tanto di cap in Nazionale. Perché in Irlanda puoi fare tutti gli sport che vuoi, ma dal rugby non si scappa. D’inverno, quando le pedane non sono praticabili, gioco per la mia scuola. Terza linea. Ma quando esplode la primavera mi trovavate lì, tra polvere di magnesio e pedane da non pestare.

Poi la chiamata alle Olimpiadi. Io e Paul Quirke, che i 20 metri li aveva superati di quattro centimetri qualche giorno dopo di me, rubandomi il record nazionale. Due irlandesi nelle qualificazioni del lancio del peso.

Non è andata bene, quel giorno. Avrei dovuto tornare a lambire i 20 metri per qualificarmi per la finale, ma il mio peso superò di poco i diciassette. La tensione mi giocò un brutto scherzo, quel giorno.

Ero il più giovane tra gli iscritti, e tutti mi predicevano un grande futuro. Perché se a quell’età sei degno di gareggiare coi tedeschi con gli americani, con Alessandro Andrei, beh, significa che un minimo ci sai fare.

Eppure, in quei giorni, decisi che con l’atletica avrei chiuso.

In molti in federazione mi chiesero se fossi diventato matto, se avessi perso il senno, se avessi preso un colpo in testa, magari da un peso vagante. No, non ce la facevo più. Fare atletica in Irlanda è faccenda per pochi, e quei pochi sono seguiti fino ad un certo punto. Prendete Sonia O’Sullivan, una dei pochissimi a farcela. Ma solo perché quel giorno prese e se ne andò prima in Inghilterra e poi in America. Altri staff, altra cultura atletica.

Io non ce la feci, mollai il peso e mi ritrovai su un campo da rugby.

Perché se sei irlandese dal rugby non ci scappi nemmeno se ti chiami Eddy Merckx.

E perché quello che provavo in squadra, le sensazioni dello spogliatoio e le trasferte coi ragazzi non me le avrebbe potute restituire neppure Randy Barnes.

Mio padre annuì e comprese.

Mia madre disse: “Tutto suo padre”.

E, ironia della sorte, per fare il giocatore di rugby dovetti trasferirmi.

Me ne andai a Galway, sponda Connacht, il Leinster mi fece capire che in quegli anni le terze linee spuntavano come trifogli. Ma ritornai a casa quando capirono che non ero solamente il figlio di Butch, e che non ero più il pesista con un grande avvenire lanciato fuori settore. Al Blackrock College avevo sempre giocato numero 8 e non mi ero dimenticato come si faceva, né, secondo i miei allenatori, detti mai l’impressione di aver dimenticato il mestiere.

Debuttai in Nazionale nel 1996, poi giocai due Coppe del Mondo. Sono stato il primo giocatore di rugby a partecipare ai Giochi Olimpici e il primo lanciatore del peso a segnare una meta in Coppa del Mondo. Ho pensato tanto a quei giorni, a quanto mi sarebbe piaciuto ci fosse stato mio padre, ormai impegnato a contendersi una touche nell’alto dei cieli, per fargli capire che dal rugby non si scappa.

Nemmeno se sei un pesista fresco di Giochi Olimpici.

Nemmeno se sei nato a Dublino, dove le terze linee crescono come trifogli.

Nemmeno se Belfield, il tuo primo campo di atletica, è ormai diventato un parcheggio di un centro commerciale.

Io mi chiamo Victor Costello e non ce l’ho fatta.

Forse avrei dovuto chiedere in prestito quella tuta in acrilico, quel giorno. Forse con quella addosso il pallone da rugby se ne sarebbe rimasto a distanza.

Ma non ne sono così sicuro.

Dal rugby non si scappa

Cavalieriade

Ogni 9 ottobre, dal 2010 in poi, un ragazzo entra in un Irish Pub. Fidatevi, l’introduzione è importante. Entra e ordina una Guinness. Pinta, ovviamente, le birre piccole tendono all’immoralità. Affronta il bicchiere, sorso dopo sorso, e comincia a ricordare. Qualunque futuro tu abbia in mente, qualsiasi presente tu stia vivendo, in fondo ad un bicchiere di birra c’è sempre un bel ricordo da far riaffiorare. Amori, vite passate, cazzate con gli amici. E sport, tanto sport. C’è chi l’ha visto e vissuto comodamente dalla tv e chi non ha mai potuto fare a meno di entrare in campo e dire la sua. Il ragazzo di cui sopra, ogni 9 ottobre, brinda, armato di Guinness. Brinda a quel dolce pomeriggio di autunno, già segnato eppure ancora tutto da scrivere. Di un 9 ottobre 2010 mai più ripetuto a quei livelli, ma sempre abbastanza in alto nella lista di cose da ricordare se hai visto sfrecciare e messo mano su una palla ovale, qualche volta. Di una squadra italiana che per varie vicissitudini non si ripeterà più in Europa, ma la cui Prima, pur se non rappresentabile per motivi logistici alla Scala, avrebbe meritato palcoscenici simili. Superiori a quelli del Top 10, calcati con buon profitto a partire dal 2009. Una prima stagione brillante, con una mediana di livello superiore (Ugo Gori-Kris Burton), George Biagi in seconda linea, il capitano-allenatore Andrea De Rossi e una batteria di stranieri di ottimo livello: Justin Purll e Cameron Treloar, australiani, e Winston Churchill Mafi, centro tongano con un passato nei Waratahs. Arrivano tutti da Calvisano, arresasi in semifinale al Viadana e a una situazione economica non più sostenibile. Prato è una piazza rugbistica giovane e ambiziosa, nel 2010 arriva quinta in campionato e si guadagna la qualificazione alla Challenge Cup edizione 2010-2011. Il mercato estivo chiama, i migliori vengono ceduti a Treviso e Aironi, i due australiani trovano un contratto migliore in Francia. Restano parecchi ragazzi italiani, Mafi il tongano, Clemens von Grumbkow, fortissimo centro tedesco, e Rima Wakarua, cecchino azzurro dell’era Kirwan. Contro Connacht, Harlequins e Bayonne non possono bastare. Non basterebbe una squadra nuova,a dirla tutta, ma due o tre rinforzi bisogna portarseli a casa. I Cavalieri sistemano la mischia con Wouter Moore, gigantesca seconda linea dei Lions sudafricani, con Noah Soqeta, numero 8 di Southland e con Gabriel Bocca, pilone argentino dei London Wasps. La mediana viene rafforzata con l’arrivo del neozelandese Billy Ngawini, praticamente un Brendan Williams spostato all’apertura. Ecco, diciamo che definire questo giocatore un numero 10 atipico è quantomeno riduttivo: Ngawini ha fatto tutte le trafile del Seven e del League, ha una capacità quasi irritante di battere sul tempo il primo avversario, può giocare in qualsiasi ruolo dei trequarti, ma se vuoi dar ritmo a una squadra giovane, beh, incollargli il numero 10 sulle spalle è veramente cosa buona e giusta. Giovane, già. Sono tanti i “ragazzini” tra i Cavalieri: ci sono alcuni reduci della Nazionale under 20 come Rodwell, Majstorovic, Belardo e Petillo, i prodotti del vivaio come Niccolò Tempestini, il capitano Lorenzo Giovanchelli, Alessandro Lunardi. A livello italiano la squadra è tra le grandi pretendenti ai playoff, stante il passaggio di Treviso e Viadana, ora Aironi, in Pro12. A livello europeo si punta più che altro all’effetto sorpresa, visto che la differenza di cilindrata è veramente notevole. Prendete Connacht, per esempio. Gli irlandesi devono tenere a battesimo i toscani e sono visti in patria come una realtà di sviluppo dei giovani. Sì, sviluppo, certo, ma gente come Ian Keatley, John Muldoon e Brett Wilkinson da noi non l’ha mai vista nessuno. Troy Nathan e Miah Nikora, due habitué della maglia titolare pur senza essere necessariamente due messia al di là della Manica, quando arriveranno in Italia sposteranno parecchi equilibri. A questo si aggiunge l’infortunio alla spalla di Ngawini, talmente serio da dover ricorrere di nuovo al mercato. I dirigenti individuano il sostituto in Edward Lewis-Pratt, ventiduenne inglese dei London Welsh. Ecco, non proprio London Welsh, laggiù non lo hanno rinnovato. Il ragazzino sta giocando a Rosslyn Park, nella National Division One, la terza serie inglese, ma è più conosciuto per essere un fratello d’arte, visto che Cristian Lewis-Pratt è una stellina del Seven inglese. E amico d’arte, visto che è uno dei migliori compagni di sbronze di Danny Cipriani. A Prato si dà da fare, prova ad entrare in sintonia col gruppo. È parecchio estroverso, pure un po’ pazzo, la cosa non guasta. Ma al debutto in campionato contro Venezia, come da palmarés, non è che brilli molto: sta profondo, piatto, non attacca la linea. I calci sono perlopiù discutibili. Per carità, nessuno si aspetta di pescare un Jonny Wilkinson nella lotteria che è il mercato a settembre, ma il ragazzo ha tutti i crismi del giocatore mediocre. Dalla seconda giornata di campionato in regia si sposta Wakarua, con Majstorovic e Chiesa ad alternarsi ad estremo. Al ritorno di Ngawini Ed lascerà Prato, poi abbandonerà presto il mondo del rugby. Organizzerà la serata de I Cavalieri quando circa dodici mesi dopo i toscani giocheranno contro London Welsh, ma questa è un’altra storia. No, non è cosa, Connacht sembra veramente di un altro pianeta. La differenza è parecchio marcata, alcuni sperano di non prendere più di 40, forse 50 punti. Di segnare una meta.  Qualcuno si appella al calore del Lungo Bisenzio, lo stadio del calcio di Prato che ospiterà la partita. Altri, invece, si danno da fare. Prendete Andrea De Rossi, per esempio, coach de I Cavalieri ed ex colonna della squadra. Insieme a Fabio Gaetaniello, suo pari ruolo, contatta Gianluca Guidi, allenatore della nazionale A italiana e possessore di molti dati riguardanti il Connacht e altre squadre celtiche. Guidi viene ad allenare I Cavalieri per qualche seduta. Mostra più volte il derby tra Connacht e Ulster, di scena il 25 settembre a Galway. Keatley e soci non giocano un rugby molto vario: in attacco la squadra procede sempre nel senso, i cambi di fronte li decide solamente, a volte, la linea di fallo laterale. A questo Guidi fa capire un’altra cosa: gli irlandesi soffrono le fasi di non possesso. Quindi quell’ovale bisogna tenerselo in mano.

Nasconderlo, il più possibile.

E fare in modo di rimanere in partita il più possibile. Poi si vedrà.

Solo che quando la palla ovale decide di rimbalzare come vuole lei non c’è nulla da fare: la settimana del match inizia con l’infortunio di von Grumbkow. Non è un bel viatico, ma purtroppo non finisce qui: nel captain’s run, a formazione già annunciata, si ferma Mafi. E questo sì che è un brutto colpo, e non solo perché il tongano è uno dei pochi ad avere una discreta esperienza internazionale: De Rossi e Gaetaniello mettono a centro Majstorovic e il giovane Rodwell, con Tempestini e Vezzosi ali e Wakarua estremo. All’apertura va Chiesa, che sarebbe un centro, al suo fianco Patelli. Poi Soqeta, Cristiano, e Petillo terze linee, Moore e Beccaris seconde, Poloni e Bocca piloni, capitan Giovanchelli tallonatore. In panca, tra gli altri, Lewis-Pratt. La coperta è corta, serve un uomo in grado di giocare in regia. La consegna delle maglie è un momento toccante, in tanti sono al limite della commozione.

Alcuni sanno che momenti del genere capitano una volta nella vita, li vivono a tutta, non lesinando sulle emozioni.

Poi si scende in campo, tutti con la maglia viola.

Viola.

A Prato.

Ecco, se c’è una cosa con cui in Toscana non si può troppo scherzare è proprio l’arte del campanilismo. E portare a Prato una maglia viola, colore storicamente legato alla Fiorentina, non deve essere stato il massimo della vita.

Il match comincia con I Cavalieri che tengono palla il più possibile, nonostante Poloni tenti un calcetto a scavalcare nelle prime battute del match. Il Connacht è più forte, si vede, Keatley segna dalla piazzola e con una meta, ma fa l’errore di non accelerare. Wakarua accorcia, poi Keatley allunga per il 13 a 3 con il quale si chiudono i primi quaranta minuti. La ripresa inizia malissimo, con Upton che schiaccia a terra il 18 a 3. Nella storia del rugby italiano in Europa sono tantissime le partite spezzate dall’accelerata avversaria ad inizio ripresa. Tantissime. Il Lungo Bisenzio, per quanto caloroso ed encomiabile possa essere, non può fare il miracolo, né i rudimenti di Guidi possono poi molto, se le forze in campo sono impari. I padroni di casa hanno il fiatone, Connacht sembra poter chiudere il match da un momento all’altro.

Tra i padroni di casa non ce la fa Rodwell.

De Rossi guarda in panchina, chiama l’inglese.

Chiesa passa a centro, Lewis-Pratt si mette nella stanza dei bottoni.

Non è il migliore dei mondi possibili, lo sappiamo. Lo sa pure chi l’ha visto, timido e impacciato, contro Venezia. Solo che l’inglese entra in campo con l’incoscienza di chi non ha nulla da perdere. Con la pazzia che di solito lo accompagna fuori dal campo: al primo pallone attacca la linea, crea la superiorità al largo e passa. Nell’intervallo si buttano in due, Chiesa e Tempestini. Il primo va un po’ troppo in anticipo, il secondo cattura il pallone e si invola in meta. No, non deve essere male farsi la trafila delle giovanili, giocare in prima squadra e segnare una meta europea per la squadra della tua città.

Wakarua trasforma, 10 a 18.

Non se l’aspettava nessuno. Vuoi vedere che il punto di rottura del match, il tanto temuto momento in cui gli avversari scappano definitivamente, questa volta l’hanno firmato i padroni di casa?

Difficile da pensare, eh.

Sta di fatto però che I Cavalieri prendono coraggio, gettano il cuore oltre l’ostacolo. Gli irlandesi cominciano a capire che forse era il caso di chiuderla prima, la partita. E se resti a mezzo gas per la maggior parte del tempo è difficile poi cambiar marcia senza grossi problemi.

I toscani saranno pure alla prima esperienza, ma capiscono l’andazzo.

Si attaccano alle fasi statiche e mettono pressione con due piazzati di Wakarua, 16 a 18.

Keatley allunga ancora, 16 a 21.

Il Lungo Bisenzio è diviso: c’è chi quel match ora lo vorrebbe portare a casa, c’è chi si accontenterebbe benissimo del punto di bonus. Oh, alla fine mancano dieci minuti, con i chiari di luna europei un punto contro quei mostri è cosa da raccontare ai nipoti. Nel dubbio, lo stadio si fa sentire.

Connacht, invece, il match lo vuole chiudere a tutti i costi. La trasferta italiana era segnata col circoletto rosso, dovevano essere cinque punti belli e abbordabili.

Non volevano vincere, volevano stravincere. Solo che non si passa.

Qualcuno deve aver insegnato ai toscani come si difende contro di loro.

E allora forzano, gli atlantici, cercano lo spazio al largo. Due mete in dieci minuti non sono cosa impossibile.

Azzardano i passaggi.

E li sbagliano.

Uno di questi lo prende Wouter Moore, che peserà pure 120 chili, che sarà pure un lungagnone di 2 metri e 04, ma si fa 50 metri senza nessuno che sia in grado di prenderlo. Wakarua trasforma, è sorpasso.

Mancano due minuti. Il Lungo Bisenzio diventa una bolgia, tanto per far capire che un loro corregionale aveva già illustrato secoli fa, in una opera di discreta rilevanza mondiale, cosa fosse l’inferno. Due minuti sanno ghiacciare come nessun’altra sostanza, quando vuoi che scorrano veloci. Connacht accelera, erode il terreno. Due punti di ritardo, però, permette loro di non essere completamente fuori dai gangheri, concede loro il raziocinio per cercare un calcio di punizione da spedire tra i pali. Sì, ma per avere un calcio bisogna che I Cavalieri facciano fallo, e nessuno ha intenzione di farlo. Sono attimi che buttano fuori tutta l’essenza del rugby, tutta l’essenza della lotta uomo contro uomo, tutto il valore dei centimetri. Connacht avanza lentamente, i padroni di casa non concedono nulla alla disciplina.

Poi Murphy, mediano di mischia del Connacht, si guarda intorno e trova Keatley pronto per il drop.

È l’extrema ratio per gli irlandesi.

L’ovale è ben frustato, la parabola è di quelle buone, ma il calcio si infrange sul palo.

Lo stadio tira un sospiro di sollievo, poi esulta.

Se pure l’ultima cartuccia non è stata sufficiente vuol dire che è fatta.

Pino Patelli, il primo a impossessarsi del pallone, calcia fuori.

Sì, ma l’arbitro mica ha fischiato la fine, è touche irlandese.

E via, ancora alla mano. Ma ancora tutti nel senso, con i padroni di casa sfiancati sì, ma ordinati quanto basta. Poi Majstorovic mette le mani in un raggruppamento, l’ultimo degli irlandesi si è isolato.

L’arbitro fischia, è finita.

Prato, tutta la città di Prato, fa festa fino a tardi.

I Cavalieri festeggiano la vittoria, incrociano nella notte i tifosi irlandesi in gita, vincono alcuni giri di birra, ma più che vinti sono guadagnati. Portati a casa con merito da una squadra sì inferiore, ma mai fuori dalla partita. Da un gruppo di ragazzini con denominazione di origine controllata e pure protetta, da una batteria di stranieri magari non di altissimo profilo ma battaglieri e cattivi come la peste. Da un inglese pazzo che forse non sapeva neppure cosa stesse facendo, ma l’ha fatto di un bene..

Il 9 ottobre del 2010 molti tifosi ovali, irlandesi e non, di stanza a Prato ma anche no, hanno offerto qualche pinta ai Cavalieri. Vera e schiumante, ma anche virtuale. Tutte meritate. E da quel 9 di ottobre, ogni anno, un ragazzo entra in un Irish Pub. Entra e ordina una Guinness. Pinta, ovviamente, le birre piccole tendono all’immoralità. Il ragazzo, che di nome fa Niccolò e di cognome fa Tempestini, affronta il bicchiere, sorso dopo sorso. Brinda a quel dolce pomeriggio di autunno, già segnato eppure ancora tutto da scrivere. A un 9 ottobre 2010 mai più ripetuto a quei livelli, ma sempre abbastanza in alto nella lista di cose da ricordare se hai visto sfrecciare e messo mano su una palla ovale, qualche volta. A una meta, la prima di un pratese doc in Europa, immortalata di striscio dai fotografi. A quei Cavalieri che come squadra non sono più lì in alto, ma che forse un giorno torneranno a sognare.

Poi sorride.

La primavera, a ottobre, sa essere più vicina di qualche raggio di sole.

Cheers, Niccolò. Cheers, Cavalieri.

 

Grazie a Niccolò Tempestini, senza il quale questa storia non avrebbe mai potuto vedere la luce.

Cavalieriade