Giubileo

Sul più bello Ford se ne va. Motivi familiari, deve tornare urgentemente a casa sua, in Sudafrica. Brutta tegola, perché Kenneth Ford era veramente uno degli uomini forti della Rugby Roma: un numero 10 dallo spiccato senso offensivo, ottimo nell’uno contro uno, sempre a ridosso della linea di difesa avversaria. Gran piede poi, come ogni apertura sudafricana che si rispetti.

Già, è proprio una brutta tegola, soprattutto perché a Roma si respirava aria di piazzamenti importanti: primi nel gironcino e non troppo distanti dal livello della Benetton Treviso, la vera favorita del torneo per pedigree, rosa e per il dominio perpetrato nell’altro girone. L’aria diversa è percepita anche in altri sport, visto che le compagini romane stanno volando anche nel calcio e nella pallavolo. La dirigenza, per non sbagliare, si muove subito e prende Gonzalo Camardon, utility back dei Pumas. Alla Coppa del Mondo inglese ha giocato prevalentemente all’ala, ma è in grado di giocare tranquillamente anche estremo, centro e apertura, ma si rendono conto subito che l’argentino non ha il piede da cassazione di Ford. Per giunta se ne va anche Cyril Schuwer, estremo già nazionale francese nel Seven. Mancherà meno del sudafricano, ma la coperta si accorcia quando tutto sembrava promettere bene.

È strano però, il campionato 1999-2000. Vero, la grande favorita rimane Treviso, grande serbatoio della Nazionale e unica squadra a potersi permettere uno straniero per le Coppe Europee, Jacques Benade. Però lì in vetta sta cambiando qualcosa: il Petrarca non riesce a ripetere le annate con Munari in panchina e si perde un po’. Fanno il colpo, i padovani, perché portano all’ombra del Santo un folletto aborigeno con troppi problemi disciplinari alle spalle, ma con gambe e cervello da fenomeno vero. Si chiama Brendan Williams, uno dei pochi giocatori del campionato italiano che negli ultimi vent’anni è valso da solo il prezzo del biglietto. Sì, ma se ne vanno Rolleston e Berry, due delle colonne portanti della squadra che non vengono rimpiazzate a dovere. Si fa vedere il Calvisano, che si affida a una solida colonia di italiani perfezionata dallo stesso Rolleston, da Gert Peens e da David Hill, ragazzino neozelandese che a lungo verrà corteggiato dalla Federazione per via della mamma italiana, ma che alla fine cederà alle lusinghe dei New Zealand Maori. Anche Viadana è una bella squadra, e pure il Rovigo di Scanavacca. Dalla lotta senza quartiere del girone 1 però, emerge a sorpresa l’Aquila. Non fraintendete, la piazza abruzzese è tradizionalmente nel gotha del rugby italiano, ma dopo lo scudetto del 1994 non aveva più brillato.

Per dire, la salvezza nel 1999 arrivò solo grazie ad una poule salvezza meno singhiozzante di un primo girone disastroso.

È cambiato qualcosa, però, da quelle parti. In panca è arrivato Mike Brewer, ex terza linea All Blacks ed ex giocatore neroverde negli anni ’80. Non è un arrivo da poco, perché l’ex flanker ha veramente voglia di far bene e lo dimostra sfoderando un piglio da marine: poco spazio a pizzi e merletti, i suoi ragazzi devono essere fisicamente pronti. Uno dei suoi allenamenti preferiti è il far abituare i suoi a tenere la palla per quaranta minuti effettivi consecutivi. Al primo errore il cronometro viene resettato. Non è un allenamento facile, sono in molti quelli che vorrebbero cedere, ma la squadra ad inizio stagione sembra veramente un’altra cosa rispetto all’annata precedente. Anche perché Brewer, a livello tattico, ha le idee molto chiare: da West Hartlepool per esempio, cittadina inglese nella quale allenava fino a qualche mese prima, si porta Mick Watson, gigantesca seconda linea, un trattore in spinta. Poi mette mano alla mediana: vuole un numero 10 fantasioso, elettrico ed elusivo, un qualcuno che gli ricordi il Frano Botica con cui ha diviso la maglia nera con la felce argentata e pure due stagioni abruzzesi negli anni ’80. La dirigenza lo accontenta e ingaggia Valentino Va’a, mediano di apertura della nazionale samoana: non arriva al metro e settanta, ma quelle gambe e quella velocità di pensiero danno una sferzata al gioco di squadra. Se a tutto questo si aggiunge una mischia che annovera gente del calibro di Totò Perugini, Maurizio Zaffiri e Antonello Comperti, beh, vien facile pensare che al Fattori non sarà semplice passare.

La stagione inizia senza grossi sussulti: Treviso non ha problemi a prendere la testa del suo girone, Rovigo e L’Aquila si dimostrano rocciose in casa, Viadana e Calvisano sono sul pezzo. Si decide tutto all’ultima giornata, con rodigini e calvini che cedono al fotofinish il terzo posto ai mantovani. Nell’altro girone Roma non ha problemi a prendere la testa, mentre il Petrarca crolla e resta fuori dalla lotta scudetto. Fanno bene invece Parma e Piacenza, che completano il gironcino a sei dalla quale usciranno le semifinaliste. Viadana e Treviso si piazzano ai primi due posti e guadagnano il fattore campo. Bella squadra, quella giallonera, rafforzata da quello che sarà il primo equiparato nella storia azzurra, Matt Philips, e dal centro inglese Glenn Bunny, grande attaccante. Al terzo posto si piazza la Roma, ma l’attesa è tutta per la lotta per l’ultimo biglietto disponibile. Piacenza e L’Aquila si affrontano in una agonica ultima giornata al Fattori, con i padroni di casa sotto di dieci punti a pochi minuti dal termine e in grado di sorpassare allo scadere grazie ad un calcio di Va’a. I neroverdi chiudono quarti e devono quindi affrontare la prima classificata della serie A2 in una sorta di quarto di finale. Chi vince si gioca la semifinale a Monigo. Al Fattori arriva il GRAN Parma, formazione giovane e talentuosa, ma non in grado di mettere in campo la stessa cilindrata dei ragazzi di Mike Brewer, che vincono per 45 a 18 lasciando a riposo molti dei titolari. Difficile comunque che la finale possa sfuggire a trevigiani e romani, le due squadre apparse più forti e attrezzate.

Anche perché la Roma non è solo Kenneth Ford e Luke Gross. C’è uno zoccolo duro di giocatori romani di talento quali Nanni Raineri, Carlo Pratichetti, Giampiero Mazzi, Flavio Siciliano, Fabio Roselli e Giampiero Mazzi, un pilone come Lo Cicero, l’aquilano Carlo Caione. È una squadra compatta, senza apparenti punti deboli, forse leggermente inferiore come organico alla Benetton ma perfettamente in grado di dire la sua in gara secca, anche perché il gioco plasmato da Gilbert Doucet, allenatore francese che passerà anche per Calvisano, è perfetto per mettere sabbia nei meccanismi degli avversari: è un gioco veloce, scanzonato, fatto di sventagliate veloci, solo apparentemente troppo leggero, perché fondato su una mischia granitica.

Solo che Ford, sul più bello, deve tornare a casa. Problemi familiari, si vocifera che debba prendere in mano l’azienda di famiglia il più presto possibile. Bel guaio, perché il sudafricano era uno che faceva realmente la differenza. La dirigenza pensa al colpo gobbo e contatta Diego Dominguez, ma l’apertura azzurra si defila, è impegnato fino al 2001. È lui a dire che Camardon è uno dei migliori colpi possibili per la squadra romana, e in effetti non ha tutti i torti: l’utility back dei Pumas è un giocatore veramente completo e di livello, dà un gran ritmo al gioco romano. Però non piazza così bene, cosa che in partite punto a punto potrebbe rivelarsi deleteria.

Qualcuno della dirigenza, molto probabilmente, ha richiamato Diego per avere qualche altra dritta. Diego risponde e manda nella Capitale un ragazzino di 22 anni appena diventato campione argentino a La Tablada. Con quell’ovale in mano, quando dice di attaccare, va sempre oltre. Ecco, non è un granchio in difesa, ma Doucet gli predispone una linea di centri difensivamente spietata, perché Camardon e “Tagliola” Raineri quando sono in giornata non fanno passare uno spillo. Ecco, nelle prime partite non gli entra bene il piede, ma poi Ramiro Pez registra le tomaie e la Roma spicca il volo. Anche in semifinale, perché i romani espugnano Viadana grazie ad un paio di invenzioni del nuovo numero 10 e lasciano lì i mantovani, traditi sul più bello da una brutta giornata di Grangetto e del pack. Roma va in finale e, cosa da non sottovalutare, la gioca in casa.

Si attende solamente l’esito dell’altra semifinale, quella tra Treviso e L’Aquila. Pronostici alla mano è una partita a senso unico: le due squadre si sono già affrontate quattro volte e i neroverdi non sono mai nemmeno andati vicino a giocarsi una singola patita. Se a questo aggiungiamo che si gioca a Monigo e che i biancoverdi andrebbero in finale anche con un pareggio, ecco, le probabilità di un passaggio del turno degli uomini di Brewer sono parecchio risicate.

Le partite, però, bisogna giocarle.

Treviso un po’ si sente già in finale e lascia in panchina Jaan Richter, sudafricano campione del mondo del 1995, professione seconda linea. Entrerà nel secondo tempo, a partita con ogni probabilità già incanalata dalla parte giusta, per salutare il suo pubblico. Ha le valigie pronte, Richter, si ritirerà a fine stagione, ma è comunque uno dei più forti della squadra, e la sua assenza si sente. Il fatto è che la passerella finale, quei dieci-quindici minuti concordati con lo staff, diventeranno trentacinque, perché la partita si sta mettendo meno bene del previsto. I frutti del lavoro massacrante di Brewer cominciano a farsi vedere e la partita è più equilibrata che mai: un calcio di Mazzariol di qua, un piazzato di Va’a di là. Si arriva sul 12 pari, poi il colpo di scena: sventagliata dei trequarti aquilani, la palla arriva al numero 13, Francesco Scipioni. Scipioni è uno di quelli che aveva mollato appena fu chiaro a tutti quale sarebbe stata la mole di lavoro da prendere in carico con il coach neozelandese. Mollò tutto ed andò ad aprire un pub in centro. Solo che qualcuno l’ha convinto a tornare, e leggenda vuole che Brewer lo abbia messo subito in campo per fargli vedere quanto dura sarebbe stata. Eh, si vede che Scipioni non se ne deve essere reso conto, visto che piazza un’internata che manda al bar i centri trevigiani e volta sotto i pali dopo quaranta metri di corsa solitaria. Diciannove a dodici, non se l’aspettava nessuno. E il bello è che i padroni di casa hanno palesemente finito la benzina, perché la lucidità viene meno. La partita la si potrebbe ancora girare, perché a tempo abbondantemente scaduto arriva la meta dei Leoni. Sono attimi lunghissimi per tutti, la trasformazione di Pilat è decisiva.

Il calcio però finisce fuori e in finale ci vanno gli aquilani.

E allora diventa divertente, perché si giocano il titolo una squadra seriamente intenzionata a ribadire che nel 2000 la Capitale sportiva non teme sconfitte e una squadra coriacea e che ha appena giustiziato la squadra da battere, seguita da un popolo altrettanto carico e orgoglioso delle sue origini, squadra che crede fermamente che lo scudetto del 1994 sia replicabile in tempi brevissimi. Una squadra che non è solo prima linea e mediana: da una stagione ha cominciato a brillare la stella di un estremo diciannovenne, già azzurro nella famigerata estate del ’99, duro come le montagne abruzzesi e talentuoso come pochi negli ultimi vent’anni. Si chiama Andrea Masi, laggiù giurano e spergiurano sul fatto che ne sentiremo parlare.

La finale, purtroppo, dura pochissimo: agli aquilani viene presentato il conto di una stagione e di una preparazione atleticamente durissime. A farne le spese per tutti è Va’a, fasciato e incerottato come una mummia. Dopo nemmeno due minuti riceve palla da Mazzantini e vorrebbe calciare, ma il fisico non va alla stessa velocità della mente: la difesa romana si alza e Pez alza le braccia, stoppando il pallone. Poi corre, lo scalcia ancora e si tuffa in meta, Roma è in vantaggio. È una mazzata durissima anche per il cuore aquilano, che perde in un colpo abbrivio e lucidità mentale. I romani si impossessano velocemente delle maggiori fonti di gioco grazie ad un Luke Gross monumentale in touche e a un Caione formato guerriero. Poi ci pensa la legione romana: Pratichetti e Siciliano, su tutti, chiudono una carriera giocando una partita commovente per dedizione e sacrificio. Al resto ci pensano i trequarti: per due volte Pez accelera, per altre due volte la cavalleria leggera sfonda con Roselli e Raineri. Mike Brewer è sconsolato, i suoi ragazzi non rispondono ai comandi e al cambio di campo il risultato è eloquente, 30 a 0. Il neozelandese però negli spogliatoi deve dire qualcosa di importante, perché la ripresa è tutta un’altra cosa: i neroverdi tengono meglio il campo e sembrano aver riacquistato la grinta e il furore agonistico volatilizzatisi nei primi quaranta minuti. La touche torna a funzionare e nei primi dieci minuti Mick Watson rende giustizia a due carrettini mastodontici. Va’a non centra i pali in nessuna delle due occasioni, si va sul 30 a 10. Roma ha un attimo di tentennamento, alcuni non hanno più la brillantezza del primo tempo, altri non riescono a reagire. Arriva anche la terza meta, quella di capitan Zaffiri,  si va sul 30 a 17 e mancano venti minuti alla fine. Non è ancora detta l’ultima parola. Il pubblico aquilano torna in vita e prende in spalla la sua squadra, manca veramente poco al ricongiungimento, basterebbe una meta per riaprire tutto.

La meta arriva. Ma la segnano i romani: un calcio di Pez rimane senza padroni finché non si presenta all’uscio Roselli, che ha ancora gambe per andare oltre. Adesso non c’è più veramente nulla da fare, 18 punti da recuperare sotto quel sole, tra quei garretti devastati da caldo e fatica, non li recuperi nemmeno se sei gli All Blacks. Zaffiri e compagni però ci provano: chiudono nei cinque metri i romani, provano fino all’ultimo a segnare una quarta meta che diminuirebbe il distacco ma aumenterebbe i rimpianti, poi l’arbitro fischia la fine. Roma torna campione d’Italia dopo 51 anni dall’ultimo scudetto. E resta campione d’Italia, perché il rugby, la pallavolo e il calcio (sponda Lazio) disegnano uno scudetto grande come l’ombelico del mondo e mandano in paradiso tutti, nell’anno del giubileo. Squadre solide, magari meno attrezzate di altre, ma vincenti grazie a gruppi irripetibili e – per ora – non ripetuti.

Non nel rugby, almeno. Perché la stagione 2000-2001 non ripeterà quei fasti, segnata da una campagna acquisti deficitaria e da un clima diverso. Di lì a poco se ne andrà anche Doucet, di lì a poco si retrocederà.

Ma questa è un’altra storia.

Da quelle parti si spera sempre di non dover aspettare un altro giubileo, per vedere tutta quella bellezza.

Giubileo