Oltre la linea

Avete mai creduto nelle seconde possibilità? Vi è mai successo di essere arrivati vicini ad un vostro personale traguardo e di esservi fermati lì, raggiunti e sorpassati da gente che nelle graduatorie stava dietro di voi?

A me è successo. Mi chiamo Juan Grobler, sono nato in Sudafrica nel 1973 e ad un certo punto ho giocato alla famosa Craven Week. Se non sapete cos’è, la Craven Week è una sorta di mondiale giovanile di rugby per club. Tantissimi dei campioni che vi piacciono o che vedete allo stadio oppure davanti allo schermo sono passati di là. Venni convocato da Eastern Province, ero forte, ben sviluppato. Un bel centro sudafricano della tradizione. Buon placcatore, bel senso della posizione, ottimo impatto, dicevano.

Ero lì, a poco dal trampolino, ma non mi tuffai. Perché di lì a poco, dissero, la mia maturazione era già terminata. Ero destinato a diventare uno dei tanti, uno di quelli che sì, certo, può provarci nelle categorie inferiori, ma poco di più. Magari una panchina di qualche club importante, magari in qualche gruppo allargato se proprio ti va di lusso. Ma niente di più.

Non in Sudafrica, almeno, Paese in cui i centri con le mie caratteristiche nascono come funghi. E allora, su consiglio di uno dei miei vecchi allenatori, nel 1994 me ne andai negli Stati Uniti. Non solo per il rugby, ovviamente, più che altro perché il rugby professionistico nel paese della torta di mele era ancora cosa molto difficile da concepire. Comincio a giocare con i Denver Barbarians, poi passo agli Aspen Gentlemen, altra squadra del Colorado. Nel 1996 debutto con la Nazionale Americana. Il gruppo è molto eterogeneo, ci sono parecchi naturalizzati (io e Dalzell siamo sudafricani, così come coach Viljoen) e tanti giovani. Fisicamente non abbiamo nulla da invidiare a nessuno, lo sport qui viene preso molto sul serio e le scuole sfornano ogni anno generazioni di sportivi fatti e finiti, ma mischie e touche non si mettono a posto solamente con i muscoli, ci vogliono tempo, storia, tradizione e pazienza. Un giorno forse ce la faremo, per ora sopperiamo con quello che possiamo.

Riusciamo a qualificarci per la Coppa del Mondo del 1999 e finiamo in girone con Australia, Irlanda e Romania. Puntiamo a vincere contro quest’ultimi, è la squadra che più si avvicina al nostro livello. Anche perché gli irlandesi, al debutto, ci fanno capire che per noi la strada è ancora lunga, finisce 53 a 8, per noi segna Dalzell, che è anche il piazzatore. La corsa agli “armamenti”, ossia la ricerca di qualche giocatore di livello che avesse qualche relazione col Paese,  gli ha affiancato in mediana David Niu, un australiano che ha giocato anche nel League e che nel 1987 arrivò ad un passo dal giocare la prima Coppa del Mondo della storia ovale. David è arrivato in America per amore, dopo aver incontrato la sua attuale moglie, una hawaiana, in aeroporto. È un giocatore completo, ci dà avanzamento e alcune sue giocate ci permettono di essere più pericolosi. Il nostro giocatore più forte però è una seconda linea, Luke Gross. Enorme, instancabile, farà una bella carriera in Europa. Solo che contro i romeni caliamo alla distanza e perdiamo di due punti, con Dalzell che fallisce la trasformazione del pareggio a due dal termine. Ventisette a venticinque, eravamo stati in vantaggio anche di dodici punti.

Ci resta l’Australia, una delle squadre favorite per la vittoria finale. Non hanno concesso alcuna meta né ai romeni, né agli irlandesi, ma contro di noi lasciano a riposo molti dei loro campioni. Intendiamoci, non abbiamo alcuna possibilità di restare minimamente in partita, ma nessuno di noi parte già sconfitto. Ci mettiamo tutto: anima, muscoli, cuore. A fine primo tempo siamo sotto 17 a 3, che non è neppure un brutto punteggio, e guadagniamo una touche sulla linea dei loro 22. Dalzell e Niu ci portano in avanzamento, vinciamo un paio di collisioni. Gli australiani resistono, faticano ma resistono. Hanno ingaggiato da un anno Joe Nuggleton, ex giocatore di rugby League, che ha insegnato ai Wallabies a difendere come nell’altro codice. È uno dei primi al mondo a fare questo passo, e i suoi uomini ne traggono tutti i benefici del mondo.

Solo che Dalzell, questa volta, è più veloce di loro. Palla fuori a Niu, poi a me. Il tempismo della nostra mediana ha bloccato le gambe di Staniforth, ala avversaria al debutto, io corro nell’intervallo. Corro e seguo la prima e utilissima regola del rugby: se non conosci la velocità del tuo avversario, corri in bandiera. Staniforth si avvicina, ma non mi prende mai, schiaccio in meta.

Avete mai creduto nelle seconde possibilità? Vi è mai successo di essere arrivati vicini ad un vostro personale traguardo e di esservi fermati lì, raggiunti e sorpassati da gente che nelle graduatorie stava dietro di voi?

A me è capitato. Mi chiamo Juan Grobler e quel giorno varcai la linea di meta dei Wallabies. Ancora non lo sapevo, ma nessun altro da lì alla finale riuscì a fare altrettanto. Non ci riuscirono i gallesi, per esempio. E nemmeno i sudafricani di Jannie De Beer, autore di cinque drop contro gli inglesi. Non ci arrivò nemmeno vicino un mostro come Jonah Lomu, sbattuto fuori in semifinale dalla vera kryptonite neozelandese, cioè i francesi. E non ci riuscirono nemmeno quest’ultimi in finale, sfatti da una partita risultata indigesta per i muscoli di Magne e compagni, dal piede di Burke e da un muro asfissiante di placcaggi.

Io quella volta riuscii ad andare oltre. A dimenticare gli anni in cui mi ero fermato mentre altri rimontavano, gli anni in cui rincorrevo un sogno in un Paese diverso dal mio in cui una delle poche cose che sapevo fare bene la facevamo realmente in quattro gatti. E a portare avanti un pallone che sarebbe rimasto nella storia. Poco importa se conterà solo per le statistiche e se le Aquile americane erano ancora distanti dagli standard mondiali, io il mio treno sono andato a riprenderlo molte stazioni più in là.

Laddove nessuno al mondo in quei mesi si spingerà mai.

Non male come seconda chance, non trovate?

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