Una pessima annata

La storia ovale azzurra ci insegna che l’ultima grande recita della generazione di Coste prima della vittoria contro la Scozia del 2000 – perché quella era davvero ancora la generazione di Coste – è datata 22 novembre 1998. In quel di Huddersfield, quel giorno, solamente un arbitro non particolarmente concentrato (passate l’eufemismo) ci vietò una vittoria meritata contro l’Inghilterra di Clive Woodward. Fu una partita epocale, una delle grandi incompiute azzurre. Ma ci mise tutti di buonumore, perché di lì ad un anno gli inglesi li avremmo affrontati ancora, e allora sì che avremmo potuto restituire al mittente arbitraggi un po’ troppo casalinghi e i monosillabi altezzosi dell’allenatore inglese. Sì, dicemmo tutti, alla Coppa del Mondo li batteremo. Anche perché, se continuiamo così, nessuno ci deve far paura.

In effetti la formula del Mondiale 1999 sembra fatto apposta per squadre come quell’Italia: cinque gironi da quattro squadre, le prime vanno ai quarti, le cinque seconde e la migliore terza si giocano quello che di fatto è un ottavo di finale. Se sei in girone con gli All Blacks, obiettivamente irraggiungibili, con quell’Inghilterra e con i tongani un pensiero ce lo fai, soprattutto se da un paio di anni te la giochi con tutte le migliori squadre europee. Basterebbe, tra virgolette, ripetersi per un altro anno.

Sembra così poco, in fondo. L’ultimo sforzo.

Quel che ancora non sappiamo è che quel novembre del 1998 è già iniziata la picchiata. Lo ha fatto quando la Federazione ha accordato un piano di premi personali suddividendo 24 giocatori per fasce di merito. Nella prima fascia ci sono Diego Dominguez, Alessandro Troncon, Capitan Massimo Giovanelli e Paolo Vaccari, poi tutti gli altri a scalare. A questo va aggiunta la decisione di non concedere il cap per quasi tutte le partite di qualificazione alla Coppa del Mondo: la presenza verrà notificata solamente per la trasferta russa di Krasnoyarsk, negli altri casi scenderà in campo la cosiddetta Italia A. Non tutti sono d’accordo, ma il 1998 si chiude con la qualificazione e, come detto, con l’attesa per una Coppa del Mondo che avrebbe sancito il nostro ingresso nel Gotha ovale.

Peccato che di mezzo ci sia il 1999, che comincia con la peggiore delle notizie: il 13 gennaio Ivan Francescato non riesce ad eludere il più violento dei placcaggi e ci lascia tutti un po’ più soli. È vero, Ivan non era più lo sgusciante fenomeno di un paio di anni prima, l’avvento del professionismo non sarà gentile con quel tipo di giocatore così naif e fuori dagli schemi, ma uno così in autunno ci sarebbe servito come il pane.

Se non altro per cementare un gruppo non propriamente unito.

Poi cominciano i test-match: la Federazione ha concordato quattro partite contro Francia, Scozia, Galles e Irlanda in primavera, poi un tour in Sudafrica dove si sarebbero affrontati gli Springboks di Nick Mallett per due volte e un torneo a L’Aquila contro Spagna, Uruguay e Fiji. Sulla carta è una tabella di marcia dura, senza attimi di pausa, ma che potrebbe regalarci qualche soddisfazione. La Francia manda a Genova la selezione XV, ma per i primi quaranta minuti non ci fanno vedere palla. Solamente l’orgoglio di Dominguez e Troncon ci permetterà di limitare un passivo che non dice di un gioco a tratti irritante. È una botta durissima, se l’aspettavano in pochi. In Scozia reggiamo un tempo, poi cediamo per 30 a 12. Il peggio, però, lo diamo a Treviso contro il Galles: giochiamo praticamente venti minuti, poi il piede di Neil Jenkins e il postino di Sarn, all’anagrafe Gareth Thomas, ci mettono all’angolo. Il 60 a 21 di Monigo fa malissimo. La panchina di Coste, così salda e difficilmente scalfibile qualche mese prima, ora comincia a ballare. Poi si perde anche in Irlanda, Irlanda che negli ultimi tre anni ci aveva sempre e solo preso la targa. Segna due mete l’estremo dei London Irish, Conor O’Shea, che poi passerà pure da queste parti. La primavera che ci doveva vedere in prima linea ci restituisce ridimensionati, ma non è finita qui. A inizio giugno si parte per il tour sudafricano, in programma due sfide contro Eagles e Kavaliers e doppia sfida agli Springboks. Alla vigilia Dominguez dà forfeit per una distorsione cervicale, dobbiamo giocare quattro partite con il solo Mazzariol come apertura. Contro le province gioca una squadra sperimentale, contro gli uomini di Mallett va in campo la Nazionale vera e propria. Nel primo test teniamo dignitosamente per un’ora, poi crolliamo completamente sotto i colpi del debuttante Breyton Paulse (quattro mete), finisce 74 a 3. Per il secondo test Mallett e molti giornalisti buttano lì una frase ricorrente, “sarà peggio della settimana scorsa”. Coste non è che può far miracoli: la rosa a disposizione è ridotta, slegata, cotta dai postumi di una lunga stagione e da tre partite massacranti in meno di due settimane. Sposta Mauro Bergamasco tra i trequarti, cercando di contenere le folate di Paulse. Il problema è che a Durban, il 19 giugno del 1999, gli Springboks non vogliono far prigionieri. Scopriamo – se non l’avevamo fatto prima – che se Paulse gira a scartamento ridotto dall’altra parte c’è sempre Stephen Terblanche, che ce ne schiaccia cinque. Loro sono furenti, noi siamo il toro nell’arena. Un toro emaciato, sfinito dai banderilleros delle province e finiti senza pietà da un torero tra i più bravi nel suo mestiere. Qualche sudafricano applaude la nostra voglia di andare sempre e comunque in touche, almeno quattro calci erano piazzabili, ma gli applausi non fanno punti. Loro ci prendono e ci danno il giro, non ne usciamo più. Alla fine manterranno la promessa, ce ne daranno 101. È il capolinea di Coste, già ai ferri corti con qualche senatore, sollevato dall’incarico e spostato a direttore tecnico. La squadra viene affidata al suo vice, Massimo Mascioletti, leggenda aquilana e allenatore che a livello internazionale è tutto da verificare. E proprio all’Aquila si va a continuare la preparazione: per tre mesi i giocatori alloggiano nella Caserma della Guardia di Finanza. Gli allenamenti sono sfiancanti, Mascioletti per un periodo è quasi da solo a gestire il gruppo, se si esclude la presenza di Coste dietro qualche siepe a dar consigli. La Federazione  a questo punto si muove in due sensi: all’allenatore vengono affiancati Ascione e Donatiello, due risorse interne, mentre nel capoluogo abruzzese cominciano ad arrivare giocatori argentini, francesi, australiani, tutti accomunati dal fatto di avere, nel loro albero genealogico, alcune parentele italiane. Arrivano in due o tre, partono, ne arrivano altri, poi qualcuno torna, altri sbattono la porta. Tra gli altri rimangono alcuni argentini come Ceppolino, Moreno e Francesio, un paio di francesi (Cornella e Travini) e un australiano, Nick Zisti. Quest’ultimo viene dal Rugby League, come tanti altri giocatori europei e mondiali vuole fare lo switch e cambiare codice. Chi lo ha portato al raduno lo considera un vero fenomeno, ma insospettiscono le poche presenze in un club inglese. Viene messo sotto contratto dalla Rugby Roma, che lo potrà schierare nella stagione successiva, ma si fa male subito. Che poi il problema è questo: puoi far arrivare anche Campese, anche Dan Carter, ma se non lo metti nelle condizioni di giocare e di entrare nei meccanismi rischi sempre tantissimo.

Ad agosto, nel frattempo, arrivano Uruguay, Spagna e Fiji per il Trofeo della Perdonanza. Le prime due partite non sono nemmeno divertenti, vinciamo abbastanza facilmente senza rischiare né mostrare molto. Siamo imballati, ma a poche settimane dal debutto alla Coppa del Mondo è qualcosa che ci può stare. Contro gli iberici debutta ad estremo un diciottenne nato e cresciuto all’Aquila, segna pure una meta portandosi sulle spalle tre avversari che non avevano troppa voglia di scherzare, ma che non lo prenderanno mai. Si chiama Andrea Masi, ma per il momento la sua avventura azzurra si interrompe qui. Il match decisivo per il trofeo  contro i fijani, che sono allenati da un ex pilone degli All Blacks con poche parole, pochissime idee ovali, ma molti risultati. Si chiama Brad Johnstone, lo chiameremo in fretta e furia di lì a un paio di mesi, quando tutto sarà finito. Il match è combattuto, il risultato è un continuo braccio di ferro, anche perché a Diego dalla piazzola risponde il loro numero 10, Nicky Little, che poi farà una discreta carriera in Italia. a pochi minuti dal termine siamo avanti noi, 32 a 30, ma commettiamo l’errore di non placcare subito un loro trequarti, meta del sorpasso. Nella foga di recuperare subiamo pure un intercetto, finirà 50 a 32.

Ecco, questo ci sta molto meno.

Da qui al 2 ottobre, data del match contro gli inglesi, giocheremo solamente un Probabili contro Possibili. Finalmente alcuni naturalizzati si fanno vedere: Ceppolino e Francesio sono discreti, Zisti segna due mete, Moreno per essere un pilone è parecchio reattivo in campo aperto. Qualcuno ha voglia di prendersi la rivincita dopo la grande incompiuta di Huddersfield, e Twickenham sembra il posto giusto per prendersela. Perfino Mascioletti si lascia andare, dicendo che l’Inghilterra si può battere. A bocce ferme si può dire che fossero parole di incoraggiamento, frasi che avrebbero dovuto servire per dare morale alla truppa. Anche perché Woodward, nonostante ad Huddersfield abbia seriamente rischiato di finire nelle grinfie del compianto Carlo Bruzzone, ha capito benissimo che gli italiani si possono battere, ma la partita gliela devi levare di mano poco alla volta, con raziocinio. E toccando le corde giuste. Jonny Wilkinson mette il primo calcio dopo pochi secondi, poi una meta in bandiera, poi altri tre calci. Poi parte l’operazione Bergamasco: ad Huddersfield per lunghissimi minuti Mauro aveva messo costantemente in imbarazzo la terza linea inglese, che non aveva armi per fermarlo. Gli piazzano vicino Phil Vickery, professione pilone, la cui testa colpirà non troppo accidentalmente le costole del padovano, costringendolo ad uscire. La diga azzurra dura pochissimo, finisce 67 a 7, con Twickenham a cantare più volte di quel dolce carretto. Tra i nostri in tanti sarebbero da 4 in pagella, ma il compito in bianco di Zisti è da record: mai visto un giocatore così fuori contesto a questi livelli. Non è del tutto colpa sua, per debuttare in uno sport diverso da quello a cui sei abituato c’è bisogno di apprendistato, non si può fargli scalare l’Everest se è abituato alla Forcella Mostaccin. Tornerà per giocare contro gli All Blacks, ma di fatto la sua avventura azzurra finisce qui. L’unica chance per rimanere in corsa per un posto ai playoff è quella di sommergere di punti i tongani, che contro gli All Blacks non sono mai stati in partita. La squadra del 1998 non avrebbe grossi problemi a battere la meno forte delle compagini pacifiche, ma il 1999 è cominciato da un po’ e quel gruppo ha lasciato ormai solo un pallido ricordo. I tongani segnano due mete, noi puniamo costantemente la loro indisciplina e diamo segni di netto miglioramento rispetto al match contro gli inglesi, ma non riusciamo mai a scappare. E non riuscire a mettere della luce tra sé e una squadra isolana non è un bel viatico. Andiamo in meta con Moscardi, loro ci scavalcano con la terza meta a pochi minuti dalla fine. Il finale in quel di Leistecer è uno psicodramma: i tongani commettono l’ennesimo fallo e Dominguez pareggia. Poi però Tu’Ipulotu, estremo avversario, chiama la palla al suo mediano di mischia. Drop da quaranta metri, giusto in mezzo ai pali.

Peggio di così non poteva andare.

O forse sì, perché all’ultima giornata ci sono gli All Blacks, già sicuri di essere primi nel girone, meno certi di avere il migliore accoppiamento possibile ai quarti ed evitare un ottavo. Scendono in campo con gli occhi iniettati di sangue, ci fanno malissimo. Non è nemmeno questione di capire cosa fare, i neozelandesi ci girano costantemente attorno, sono almeno due o tre fasi avanti a noi. Lomu lo dobbiamo fermare in quattro, a volte in cinque, siamo palesemente in difficoltà fisica. Arrivano altri 101 punti contro gli unici tre firmati da Diego Dominguez, con la beffa di una meta avversaria, l’ultima di Osborne, palesemente da annullare, ma tant’è.

A pagare per tanti sarà Mascioletti, che verrà sostituito in fretta e furia da Brad Johnstone, l’allenatore delle Fiji che ci avevano castigato all’Aquila. Uno che rimuoverà abbastanza rapidamente il ricorso alle sessioni video e che tornerà al vecchio motto “con me si gioca in otto, forse nove”.

Il 1999 ovale italiano finalmente finisce, arriveranno anni migliori.

Non troppo migliori, per carità, ma non è che ci volesse poi molto.

Una pessima annata

Ne vogliamo ancora

Come fai a fermare l’inesorabile? Come è possibile gestire il ritorno dell’avversario sulla carta più forte, dosare le energie in vista di un finale probabilmente in riserva? Come si fa a spaccare la partita più importante della tua vita in meno di un minuto? Come si fa a regalare e a regalarsi una soddisfazione eterna in meno di 40 secondi? Succede, a volte. Poche qui da queste parti, poche a noi che l’azzurro del rugby lo sudiamo match dopo match. Una, forse. Bellissima. 40 secondi, brevi, brevissimi, infiniti. 20 anni, ora più ora meno. 100 metri, centimetro più centimetro meno. Facile a dirsi sbrodolando tra le righe di un blog, molto più difficile quando ti rendi conto che tra il dire e il fare c’è di mezzo molto più che “e il”. Provate a farlo. Fermatevi a 100 metri e preparatevi, che è il 1997 e tra Italia e Francia c’è ancora la dogana. L’agente in servizio ispeziona i documenti, poi si avvicina al più piccolo di tutti, capelli ormai argentati, un po’ tracagnotto. Parlano in francese.

“Tutto in regola, ma fossi in voi tornerei indietro, italiens. Non vale la pena”

“Staremo a vedere” Dice il piccoletto, voce baritonale e sguardo di sfida. Poi risale i gradini dell’autobus. Ecco, il piccolo Napoleone se li ricordava proprio così. Se li ricordava così, i suoi connazionali. Superiori, sempre e comunque, soprattutto quando a parlare è una palla ovale. Dalla disfatta di Tolone, anno di disgrazia 1967, quando i galletti decisero che gli italiani non meritavano più il loro cap. Squadre A, B, A1, militari. Addirittura una selezione di macchinisti. Che poi tra loro ci fosse ben più di qualche nazionale si sapeva, era il segreto di Pulcinella. Ma niente cap. Soprattutto quando davanti ci sono les Italiens, les Ritals. Troppe vittorie, facili o meno facili, troppe per poterci affrontare con un minimo di timore, sia fuori che dentro il campo. Facili ironie su pizza e maccheroni prima del match. Solo che dentro a quel pullman c’è un manipolo di uomini che ha voglia di cambiare registro. Alcuni incazzati, alcuni in attesa di vendetta. Il più incazzato di tutti è il piccoletto di cui sopra, catalano dal sangue caldo, irrefrenabile numero 9 da giovane, irrequieto allenatore da grande. Guida quegli uomini, la Nazionale Italiana, da ormai quattro anni. Li ha presi idealmente in un caldo pomeriggio di giugno, durante i Giochi del Mediterraneo del 1993. Bermuda, sandali, t-shirt e stecchino spianato in bocca. “Bella squadra, ma con una mischia del genere non potete tenere l’apertura così distante, perdete tutto l’abbrivio”. Giancarlo Dondi, che all’epoca era il vice di Mondelli in Federazione, è ipnotizzato dal personaggio, tutto fuorché convenzionale, che gli si para davanti. Chi gli aveva mandato lì davanti uno così, giusto nel momento in cui si stava discutendo su chi potesse essere il prossimo commissario tecnico azzurro? Sono in corsa Gajan e Aguirre, ma basta una telefonata a Pierre Villepreux, sommo rivoluzionario del rugby italiano, per prendere informazioni su quel catalano che sembra uno scappato di casa.  Fidatevi, le apparenze ingannano. Georges Coste, il padrone dello stecchino, è tutto fuorché uno sprovveduto. Matto un po’ si, ma quando mai avete visto qualcuno completamente “regolare” nel mondo ovale?

A quei Giochi scherziamo con Croazia e Marocco, fatichiamo un po’ di più contro la Spagna, ma arriviamo in finale contro i francesi. Si gioca a Perpignan in un ambiente ostile, tra tifosi francesi che fischiano a pieni polmoni e arbitraggio quantomeno casalingo. Properzi si becca un cartellino rosso. Per un’ora teniamo il confronto, poi loro cambiano passo, segnano tre mete e ciao. La Nazionale Italiana è allenata fino al 1993 da Bernard Fourcade, per tutti “Mitou”, che riesce a dare una sferzata all’ambiente e a ringiovanire una Nazionale che aveva molto bisogno di anni verdi. Debuttano con lui tanti protagonisti degli anni d’oro azzurri, da Dominguez, scovato in Francia e portato a Milano, a Ivan Francescato, da Properzi a Vaccari, che gioca in serie A da quando ha 16 anni. Fino a Massimo Giovanelli, terza linea ala, gladiatore con l’aspetto di un capitano di ventura. Uno che il rugby proprio non lo voleva abbracciare e che se lo è visto appioppare da un carabiniere, Luigi Pascarelli, che stava costruendo dal nulla una squadra di rugby. Lo ferma ad un posto di blocco, lui sta guidando la sua moto smarmittata. “Se vieni a giocare non ti sequestro il mezzo”. Ci guadagniamo così un giocatore che non passa sempre nei nostri cieli: è sregolato, è in grado di stare tutta la notte a fare bisboccia anche il giorno prima della partita, ma in campo non te ne accorgi: è feroce, il primo a dare l’esempio e l’ultimo a mollare. Gli inglesi farebbero follie per un personaggio del genere. Fourcade intuisce perfettamente una cosa: Giovanelli sarà anche indisciplinato, ma dargli la fascia di capitano significherebbe responsabilizzarlo e ottenere un capobranco riconosciuto da tutti, ma proprio da tutti. Ha ragione lui, e lo vedremo nelle mani di Coste, che non si sogna nemmeno di toccare il capitano, anzi. Scoprirà in Giovanelli un fine psicologo dentro lo spogliatoio, e questo gli tornerà molto utile più avanti. L’allenatore catalano, per quanto possa sembrare solamente un forte appassionato appena un po’ fuori dagli schemi, ha idee che sono avanti di almeno dieci anni: decide di lavorare subito sulla difesa, sua roccaforte da cui far partire i contrattacchi. Con lui la difesa non si rischiera più per ruolo, metodo dispendioso e controproducente. Pretende poi che i punti d’incontro siano formati da soli due uomini, così da garantire una maggiore copertura al largo. Con questi primi rudimenti porta gli azzurri a vincere per la prima volta dopo anni contro una formazione francese, 16 a 9 a Monigo in una umida serata di novembre, e poi parte per un tour in Australia nel 1994. A sorpresa non convoca Umberto Casellato, mediano di mischia della Benetton. Al suo posto si porta dietro un ventenne, mediano di mischia del Mirano che in campionato ha fatto meraviglie. Si chiama Alessandro Troncon e lo fa debuttare a Darwin contro una selezione chiamata Northern Territory. Gli australiani improvvisano una caccia all’uomo su Diego Dominguez, lo placcano sistematicamente in ritardo. Coste chiama a sé Giovanelli e gli dà carta bianca. “Appena lo rifanno tutti in prima linea”. Ne nasce uno scontro delle proporzioni  Achei contro Troiani, con i media australiani a lamentarsi a ripetizione della rissa da saloon accesa dagli italiani. Coste invece ottiene quello che voleva, un branco unito e inscalfibile. Nei due test contro i Wallabies ce la giochiamo alla grande, con Troncon che perde il pallone della possibile vittoria ad un passo dalla meta. Nel primo dei due incontri si fa male Gabriel Filizzola, centro del Milan. Questa mossa porterà Coste a spostare dalla mediana Ivan Francescato e a metterlo nella cerniera dei centri per sfruttare i suoi placcaggi devastanti e i cavalli motore. Non è l’unico accorgimento tattico del francese: al suo fianco mette Stefano Bordon, che ha fatto tutta la gavetta da terza linea e che placca qualsiasi cosa. Coste sfrutta appieno il dualismo Benetton-Milan in campionato e propone grosso modo la mischia milanese, allenata da Manuel Ferrari sul modello delle più grandi mischie argentine. Pesca però due conigli dal cilindro: in seconda mette Walter Cristofoletto, arrivato tardi in Nazionale e alto “solamente” 192 centimetri, ma aggressivo e abrasivo quanto basta per stupire Coste. In terza si guadagna il posto Andrea Sgorlon, soprannominato “Ciro” da Franco Ascantini, uno dei maestri della palla ovale italiana. Lo chiama così perché in campo ha tutto del “mariuolo” che imperversa molte volte per le strade del Sud: nei raggruppamenti è sveglio, lucido, sa sempre come uscirne. E placca come un demonio. Con lui e Giovanelli terze ali Coste si può permettere il lusso di schierare Julian Gardner a numero 8, che è australiano e ha già caps con i Wallabies, ma che decide di giocare per noi. È un autoblindo, in corsa è dura resistere al suo impatto. Resta in corsa per il posto fino alla fine Orazio Arancio, difensivamente più consistente, ma uno che ti porta i palloni avanti così, se opportunamente spalleggiato, non puoi lasciarlo fuori. L’altro rebus di Coste è lo spot di estremo, lasciato vacante dall’addio di Gino Troiani: i due papabili sono Massimo Ravazzolo del Calvisano, una scheggia nei contrattacchi, e Javier Pertile della Roma, oriundo argentino, che ha una corsa caracollante, sembra impastato, ma ha tempi di affondo incredibili e un placcaggio terminale. Il titolare è lui.

Gli azzurri scalano le gerarchie, si prendono quelle rivincite troppe volte sfiorate negli anni: il 4 gennaio 1997, nel bel mezzo dell’inverno britannico, gli azzurri hanno stroncano l’Irlanda con quattro mete. Due le segna Paolo Vaccari, che è il più in forma di tutti. Ma in quel pullman per Grenoble c’è, ovunque si guardi, gente fortissima. C’è soprattutto Massimo Giovanelli, e non è una ripetizione. Il fatto che il capitano e lider máximo della squadra sia ancora in campo nel 1997 è legato a qualcosa che sfugge ai calcoli di qualsiasi medico: tre anni prima in un incidente stradale si era fratturato il femore in quattro punti, ora era lì a battere il ferro in terza linea. Inspiegabile, o quasi. C’è Ivan Francescato, e per fortuna qualcuno gli ha tolto di mano la racchetta da tennis da giovane. Aveva i numeri per sfondare, dicevano, ma in generale ha una capacità psicomotoria che non si è mai vista in altri rugbisti italiani. Volendo avrebbe potuto eccellere in qualsiasi sport avesse voluto praticare. Per fortuna seguì i fratelli maggiori e si innamorò della palla ovale. Imprevedibile, elettrico, spavaldo. E pure devastante in difesa.

Solo che anche la Francia non è male. Non è male per niente, visto che ha appena vinto a mani basse il Cinque Nazioni. Ci sono personaggi come Merle, seconda linea, detto “l’uomo e mezzo” per la stazza e per la sua capacità di essere ovunque. Ci sono Fabien Pelous e Raphael Ibanez. Mostri sacri come Sadourny e Saint-André. Ne mancano parecchi, perché la Federazione ha dato loro il via libera dopo il Grande Slam. Pierre Villepreux, che allena i francesi in coabitazione con Jean-Claude Skrela,  conosce benissimo gli italiani ed è l’unico a cercare di raffreddare gli animi, a dire che giocare ad una settimana dalla fine del Cinque Nazioni non è un’agevolazione. Non lo ascoltano, o lo fanno in pochi. Guy Accoceberry, che è uno degli eroi decorati del 2 a 0 agli All Blacks nel 1994, racconterà qualche anno più tardi del fatto che in tanti avevano sottovalutato la partita: in molti marcheranno visita, altri si ritroveranno 2 giorni prima del match. Ma non è solo questo: i francesi acconsentono di far giocare il match a Grenoble, città vicina al confine e tra le più densamente popolate da italiani, soprattutto di seconda e terza generazione. Guantai, soprattutto, ma anche rugbisti, come Sergio Lanfranchi, ben presto rinominato Sergiò, che quando sei nelle loro grazie l’accento scivola alla fine che è un piacere. Coste e Giovanelli, che dicevamo essere mente fina in questi frangenti, lo sanno. E appena arrivati in città portano i ragazzi in giro per le strade. Incontrano friulani, siciliani, qualche pugliese. Tutta gente che crede, tutta gente che ha voglia di sorridere dopo anni di spocchia transalpina nei confronti dei Ritals, di ricerca di un barlume di dignità dopo gli oscuri tempi della guerra e dell’emigrazione. Tanti ce l’hanno fatta, ma vuoi mettere far loro uno sgambetto epocale? Cominciamo a vincerla qui la partita.

Skrela e Villepreux schierano una formazione forte, pesantissima in mischia (Merle, Pelous e Miorin fanno quasi 400 chili in tre) e molto talentuosa fuori. Ci sono tanti assenti, due su tutti il capitano Benazzi e l’ala Leflamand, una vera iradiddio, ma sono sempre la squadra detentrice del Grande Slam. Noi siamo in formazione tipo, siamo pronti e abbiamo anche superato qualche screzio, prima di salire sul pullman per Grenoble. Prima di arrivare a Grenoble siamo di stanza a Chieri. Il primo campo adottato non è il massimo della vita, si va dieci chilometri più in là. Bene o male arrivano tutti, manca Properzi, trattenuto a lavoro e non avvertito del cambio di programma. Kino è fisicamente spaventoso, ma a detta di tutti è un pezzo di pane.

A patto non gli vada giù la tendina.

A Chieri gli si abbassa di un bel po’.

Ha uno screzio con capitan Giovanelli, i due vanno vicini a mettersi le mani addosso. E chi ci prova a separarli due del genere? Gli animi poco a poco si raffreddano, si sale in autobus. A Grenoble sono arrivati circa tremila italiani, tra residenti e non.

In spogliatoio è Giovanelli a parlare. Tocca le corde giuste, ricorda a tutti che là fuori c’è gente che cerca un motivo per sorridere e che oggi glielo si può dare. Dominguez e Pertile, che dell’emigrazione sono figli, sono forse i più toccati. Coste è compiaciuto, parla poco, “Dai che stasera si beve champagne”. “Dai ragassi che la vinciamo”.

I francesi cominciano fortissimo, vogliono risolverla subito, ma gli italiani entrano in ogni raggruppamento come fosse l’ultimo della loro vita: masticano terreno, polvere, grattano via palloni. Come quello che arriva a Ivan dopo pochi minuti, non c’è la seconda linea di difesa, passa in mezzo a Delaigue e Ogier e corre. Meta. Poi si fa male e deve lasciare il campo. Esce in lacrime, anticipando quelle che verseremo noi un paio di anni dopo quando l’avversario più tosto non abboccherà alle sue finte. Prima di uscire, però, si immola su Costes, terza linea di Montferrand. Soffriamo in touche, loro mettono sistematicamente Merle nel primo blocco, ce ne ruberanno quattro in 80 minuti. E soffriamo pure in mischia: i francesi schierano come pilone sinistro Marc de Rougemont, un comodino di un metro e 75 centimetri. Properzi, che ce l’ha davanti, è 13 centimetri più alto e fatica. I francesi passano con una meta tecnica dopo un suo crollo in mischia, l’arbitro non vede l’affossamento del dirimpettaio francese. Da qui in avanti loro cercheranno la via della testuggine più volte, ma non si passa più. Si sfidano al piede Dominguez e Aucagne, apertura di Pau. Poi Julian Gardner sfonda sugli sviluppi di un calcio battuto veloce da Troncon e ci riporta avanti. Placchiamo fortissimo, siamo ovunque, i francesi piano piano si rendono conto che il compitino auspicato non può bastare contro quelle furie. Non possiamo giocare così per 80 minuti, dicono. Sì, però intanto rincorrono. A Troncon si apre il sopracciglio già ferito la settimana precedente durante un decisivo Milan-Treviso. Ironia della sorte: a ferirlo sette giorni prima era stato Diego Dominguez in un raggruppamento. Esce a cavallo dei due tempi, entra Gianluca Guidi. nella ripresa i francesi crescono e cominciano a crederci: Bondouy pareggia i conti. Poco dopo Giovanelli perde un pallone in un raggruppamento e Accoceberry calcia malignamente nei nostri 22. È forse il nostro momento, considerato come istante, più difficile. È il momento in cui, di solito, i francesi accelerano e chiudono il match. Va sempre così, se si esclude la magica serata di Monigo. Ma come fai a fermare l’inesorabile? Come è possibile gestire il ritorno dell’avversario sulla carta più forte, dosare le energie in vista di un finale probabilmente in riserva? C’è Vaccari sulla palla, ma non la controlla, rimbalza due, tre volte. Quasi la tocca, e sarebbe mischia francese. Gli piombano addosso Benetton e Saint-André, ma non si sa come lui è oltre. Palla in mano. Serve Mazzariol che va oltre. Troncon, fuori per Dominguez, internata per Vaccari, ancora lui. È la famigerata giocata Springboks, dal nome della prima squadra che l’ha subita. Poi Bordon, Pertile, usciamo dai 22. Ancora Troncon, ancora Dominguez, ancora Vaccari. Ancora tre uomini davanti, sverniciati con un cambio di passo allucinante. Poi è il turno di Marcello Cuttitta, subito preso, ma l’offload per Troncon è da manuale. Il nostro numero 9 è nei 22, i francesi lo puntano, sono di più, lui cambia senso e passa ancora. Ti aspetti arrivi Vaccari, che la palla l’ha presa tre volte. Ti aspetti Pertile, infido e velenoso come pochi nel suo ruolo. Anche Dominguez, che sul breve non ha tanto da invidiare a trequarti ben più scafati. No, niente di tutto questo. A ricevere la palla c’è Croci Giambattista, classe 1965, da Ascoli. Professione seconda linea. Una chierica che gli affibbia più dei 32 anni che realmente ha. C’è anche lui in campo, non lo ha visto quasi nessuno, lo hanno sentito in tanti tra i francesi. Lavoro sporco, placcaggi, difesa, lui insieme a Cristofoletto a tenere su una mischia in carenza di chili. La prende lui la palla e la porta oltre la linea. Viene giù tutto. Eccolo l’attimo che cambia tutto, la soddisfazione eterna in pratico formato tascabile da 38 secondi, perché i francesi accusano il colpo. Dominguez centra i pali due volte, poi si accende Gardner, che sembra una versione in fast-forward dell’Ulisse Trevisin portato al successo da Marco Paolini: dove passa lui se pol semenare. Serve Vaccari ai 5 metri, quarta meta, 20 punti di vantaggio. Giovanelli e Properzi invitano a modo loro i più giovani a giocarla ancora, che non è finita. I francesi segnano due mete, ma è tardi, al fischio finale gli italiani presenti allo stadio invadono il campo. Sembra quasi la scena finale di Fuga per la vittoria, solo che qui non scappa nessuno. Tutti vogliono rimanere lì, a capire se tutto fosse stato solo un sogno o se veramente gli azzurri avessero spennato i galletti. Nessuno se ne va da Grenoble: ragazzi di Villorba preparano le griglie nei parcheggi e per la strada, spuntano salumi e vino, soprattutto prosecco. E chi vuole andarsene?

In verità una persona che vorrebbe essere lontano da lì ci sarebbe. È francese, ma oggi non ha perso. È piccolino, argento in testa, irrefrenabile nel suo modo di esprimere felicità e soddisfazione. Irrefrenabile numero 9 da giovane, irrequieto allenatore da grande. Vorrebbe essere alla dogana e avere di nuovo davanti quel gendarme irridente. E lo cercherà, nel viaggio di ritorno, invano. Gli lascerà un biglietto, poi salirà di nuovo a bordo dell’autobus, dove già aveva dato spettacolo con uno spogliarello. Gli altri se la ridono di gusto. Succede, a volte. A noi italiani meno che agli altri, ultimamente. 40 secondi, brevi, brevissimi, infiniti. Che sembrano lunghi anni. Decenni, quasi.

Fanno presto a passare quando si resta fermi e non ci si muove, come quel pullman che tanto ci fece sognare. Un pullman partito in un caldo pomeriggio del Midi francese, tra gente in bermuda e gendarmi quantomeno poco avveduti. Che certi viaggi sai (forse) dove ti portano ma mai quando iniziano realmente.

Viaggi di 4, 5, 20 anni, forse di più.

Viaggi per perdersi e ritrovarsi, il più possibile.

Bonne chance, Italie.

Quando volete, qui ne vorremmo ancora.

Ne vogliamo ancora