Una pessima annata

La storia ovale azzurra ci insegna che l’ultima grande recita della generazione di Coste prima della vittoria contro la Scozia del 2000 – perché quella era davvero ancora la generazione di Coste – è datata 22 novembre 1998. In quel di Huddersfield, quel giorno, solamente un arbitro non particolarmente concentrato (passate l’eufemismo) ci vietò una vittoria meritata contro l’Inghilterra di Clive Woodward. Fu una partita epocale, una delle grandi incompiute azzurre. Ma ci mise tutti di buonumore, perché di lì ad un anno gli inglesi li avremmo affrontati ancora, e allora sì che avremmo potuto restituire al mittente arbitraggi un po’ troppo casalinghi e i monosillabi altezzosi dell’allenatore inglese. Sì, dicemmo tutti, alla Coppa del Mondo li batteremo. Anche perché, se continuiamo così, nessuno ci deve far paura.

In effetti la formula del Mondiale 1999 sembra fatto apposta per squadre come quell’Italia: cinque gironi da quattro squadre, le prime vanno ai quarti, le cinque seconde e la migliore terza si giocano quello che di fatto è un ottavo di finale. Se sei in girone con gli All Blacks, obiettivamente irraggiungibili, con quell’Inghilterra e con i tongani un pensiero ce lo fai, soprattutto se da un paio di anni te la giochi con tutte le migliori squadre europee. Basterebbe, tra virgolette, ripetersi per un altro anno.

Sembra così poco, in fondo. L’ultimo sforzo.

Quel che ancora non sappiamo è che quel novembre del 1998 è già iniziata la picchiata. Lo ha fatto quando la Federazione ha accordato un piano di premi personali suddividendo 24 giocatori per fasce di merito. Nella prima fascia ci sono Diego Dominguez, Alessandro Troncon, Capitan Massimo Giovanelli e Paolo Vaccari, poi tutti gli altri a scalare. A questo va aggiunta la decisione di non concedere il cap per quasi tutte le partite di qualificazione alla Coppa del Mondo: la presenza verrà notificata solamente per la trasferta russa di Krasnoyarsk, negli altri casi scenderà in campo la cosiddetta Italia A. Non tutti sono d’accordo, ma il 1998 si chiude con la qualificazione e, come detto, con l’attesa per una Coppa del Mondo che avrebbe sancito il nostro ingresso nel Gotha ovale.

Peccato che di mezzo ci sia il 1999, che comincia con la peggiore delle notizie: il 13 gennaio Ivan Francescato non riesce ad eludere il più violento dei placcaggi e ci lascia tutti un po’ più soli. È vero, Ivan non era più lo sgusciante fenomeno di un paio di anni prima, l’avvento del professionismo non sarà gentile con quel tipo di giocatore così naif e fuori dagli schemi, ma uno così in autunno ci sarebbe servito come il pane.

Se non altro per cementare un gruppo non propriamente unito.

Poi cominciano i test-match: la Federazione ha concordato quattro partite contro Francia, Scozia, Galles e Irlanda in primavera, poi un tour in Sudafrica dove si sarebbero affrontati gli Springboks di Nick Mallett per due volte e un torneo a L’Aquila contro Spagna, Uruguay e Fiji. Sulla carta è una tabella di marcia dura, senza attimi di pausa, ma che potrebbe regalarci qualche soddisfazione. La Francia manda a Genova la selezione XV, ma per i primi quaranta minuti non ci fanno vedere palla. Solamente l’orgoglio di Dominguez e Troncon ci permetterà di limitare un passivo che non dice di un gioco a tratti irritante. È una botta durissima, se l’aspettavano in pochi. In Scozia reggiamo un tempo, poi cediamo per 30 a 12. Il peggio, però, lo diamo a Treviso contro il Galles: giochiamo praticamente venti minuti, poi il piede di Neil Jenkins e il postino di Sarn, all’anagrafe Gareth Thomas, ci mettono all’angolo. Il 60 a 21 di Monigo fa malissimo. La panchina di Coste, così salda e difficilmente scalfibile qualche mese prima, ora comincia a ballare. Poi si perde anche in Irlanda, Irlanda che negli ultimi tre anni ci aveva sempre e solo preso la targa. Segna due mete l’estremo dei London Irish, Conor O’Shea, che poi passerà pure da queste parti. La primavera che ci doveva vedere in prima linea ci restituisce ridimensionati, ma non è finita qui. A inizio giugno si parte per il tour sudafricano, in programma due sfide contro Eagles e Kavaliers e doppia sfida agli Springboks. Alla vigilia Dominguez dà forfeit per una distorsione cervicale, dobbiamo giocare quattro partite con il solo Mazzariol come apertura. Contro le province gioca una squadra sperimentale, contro gli uomini di Mallett va in campo la Nazionale vera e propria. Nel primo test teniamo dignitosamente per un’ora, poi crolliamo completamente sotto i colpi del debuttante Breyton Paulse (quattro mete), finisce 74 a 3. Per il secondo test Mallett e molti giornalisti buttano lì una frase ricorrente, “sarà peggio della settimana scorsa”. Coste non è che può far miracoli: la rosa a disposizione è ridotta, slegata, cotta dai postumi di una lunga stagione e da tre partite massacranti in meno di due settimane. Sposta Mauro Bergamasco tra i trequarti, cercando di contenere le folate di Paulse. Il problema è che a Durban, il 19 giugno del 1999, gli Springboks non vogliono far prigionieri. Scopriamo – se non l’avevamo fatto prima – che se Paulse gira a scartamento ridotto dall’altra parte c’è sempre Stephen Terblanche, che ce ne schiaccia cinque. Loro sono furenti, noi siamo il toro nell’arena. Un toro emaciato, sfinito dai banderilleros delle province e finiti senza pietà da un torero tra i più bravi nel suo mestiere. Qualche sudafricano applaude la nostra voglia di andare sempre e comunque in touche, almeno quattro calci erano piazzabili, ma gli applausi non fanno punti. Loro ci prendono e ci danno il giro, non ne usciamo più. Alla fine manterranno la promessa, ce ne daranno 101. È il capolinea di Coste, già ai ferri corti con qualche senatore, sollevato dall’incarico e spostato a direttore tecnico. La squadra viene affidata al suo vice, Massimo Mascioletti, leggenda aquilana e allenatore che a livello internazionale è tutto da verificare. E proprio all’Aquila si va a continuare la preparazione: per tre mesi i giocatori alloggiano nella Caserma della Guardia di Finanza. Gli allenamenti sono sfiancanti, Mascioletti per un periodo è quasi da solo a gestire il gruppo, se si esclude la presenza di Coste dietro qualche siepe a dar consigli. La Federazione  a questo punto si muove in due sensi: all’allenatore vengono affiancati Ascione e Donatiello, due risorse interne, mentre nel capoluogo abruzzese cominciano ad arrivare giocatori argentini, francesi, australiani, tutti accomunati dal fatto di avere, nel loro albero genealogico, alcune parentele italiane. Arrivano in due o tre, partono, ne arrivano altri, poi qualcuno torna, altri sbattono la porta. Tra gli altri rimangono alcuni argentini come Ceppolino, Moreno e Francesio, un paio di francesi (Cornella e Travini) e un australiano, Nick Zisti. Quest’ultimo viene dal Rugby League, come tanti altri giocatori europei e mondiali vuole fare lo switch e cambiare codice. Chi lo ha portato al raduno lo considera un vero fenomeno, ma insospettiscono le poche presenze in un club inglese. Viene messo sotto contratto dalla Rugby Roma, che lo potrà schierare nella stagione successiva, ma si fa male subito. Che poi il problema è questo: puoi far arrivare anche Campese, anche Dan Carter, ma se non lo metti nelle condizioni di giocare e di entrare nei meccanismi rischi sempre tantissimo.

Ad agosto, nel frattempo, arrivano Uruguay, Spagna e Fiji per il Trofeo della Perdonanza. Le prime due partite non sono nemmeno divertenti, vinciamo abbastanza facilmente senza rischiare né mostrare molto. Siamo imballati, ma a poche settimane dal debutto alla Coppa del Mondo è qualcosa che ci può stare. Contro gli iberici debutta ad estremo un diciottenne nato e cresciuto all’Aquila, segna pure una meta portandosi sulle spalle tre avversari che non avevano troppa voglia di scherzare, ma che non lo prenderanno mai. Si chiama Andrea Masi, ma per il momento la sua avventura azzurra si interrompe qui. Il match decisivo per il trofeo  contro i fijani, che sono allenati da un ex pilone degli All Blacks con poche parole, pochissime idee ovali, ma molti risultati. Si chiama Brad Johnstone, lo chiameremo in fretta e furia di lì a un paio di mesi, quando tutto sarà finito. Il match è combattuto, il risultato è un continuo braccio di ferro, anche perché a Diego dalla piazzola risponde il loro numero 10, Nicky Little, che poi farà una discreta carriera in Italia. a pochi minuti dal termine siamo avanti noi, 32 a 30, ma commettiamo l’errore di non placcare subito un loro trequarti, meta del sorpasso. Nella foga di recuperare subiamo pure un intercetto, finirà 50 a 32.

Ecco, questo ci sta molto meno.

Da qui al 2 ottobre, data del match contro gli inglesi, giocheremo solamente un Probabili contro Possibili. Finalmente alcuni naturalizzati si fanno vedere: Ceppolino e Francesio sono discreti, Zisti segna due mete, Moreno per essere un pilone è parecchio reattivo in campo aperto. Qualcuno ha voglia di prendersi la rivincita dopo la grande incompiuta di Huddersfield, e Twickenham sembra il posto giusto per prendersela. Perfino Mascioletti si lascia andare, dicendo che l’Inghilterra si può battere. A bocce ferme si può dire che fossero parole di incoraggiamento, frasi che avrebbero dovuto servire per dare morale alla truppa. Anche perché Woodward, nonostante ad Huddersfield abbia seriamente rischiato di finire nelle grinfie del compianto Carlo Bruzzone, ha capito benissimo che gli italiani si possono battere, ma la partita gliela devi levare di mano poco alla volta, con raziocinio. E toccando le corde giuste. Jonny Wilkinson mette il primo calcio dopo pochi secondi, poi una meta in bandiera, poi altri tre calci. Poi parte l’operazione Bergamasco: ad Huddersfield per lunghissimi minuti Mauro aveva messo costantemente in imbarazzo la terza linea inglese, che non aveva armi per fermarlo. Gli piazzano vicino Phil Vickery, professione pilone, la cui testa colpirà non troppo accidentalmente le costole del padovano, costringendolo ad uscire. La diga azzurra dura pochissimo, finisce 67 a 7, con Twickenham a cantare più volte di quel dolce carretto. Tra i nostri in tanti sarebbero da 4 in pagella, ma il compito in bianco di Zisti è da record: mai visto un giocatore così fuori contesto a questi livelli. Non è del tutto colpa sua, per debuttare in uno sport diverso da quello a cui sei abituato c’è bisogno di apprendistato, non si può fargli scalare l’Everest se è abituato alla Forcella Mostaccin. Tornerà per giocare contro gli All Blacks, ma di fatto la sua avventura azzurra finisce qui. L’unica chance per rimanere in corsa per un posto ai playoff è quella di sommergere di punti i tongani, che contro gli All Blacks non sono mai stati in partita. La squadra del 1998 non avrebbe grossi problemi a battere la meno forte delle compagini pacifiche, ma il 1999 è cominciato da un po’ e quel gruppo ha lasciato ormai solo un pallido ricordo. I tongani segnano due mete, noi puniamo costantemente la loro indisciplina e diamo segni di netto miglioramento rispetto al match contro gli inglesi, ma non riusciamo mai a scappare. E non riuscire a mettere della luce tra sé e una squadra isolana non è un bel viatico. Andiamo in meta con Moscardi, loro ci scavalcano con la terza meta a pochi minuti dalla fine. Il finale in quel di Leistecer è uno psicodramma: i tongani commettono l’ennesimo fallo e Dominguez pareggia. Poi però Tu’Ipulotu, estremo avversario, chiama la palla al suo mediano di mischia. Drop da quaranta metri, giusto in mezzo ai pali.

Peggio di così non poteva andare.

O forse sì, perché all’ultima giornata ci sono gli All Blacks, già sicuri di essere primi nel girone, meno certi di avere il migliore accoppiamento possibile ai quarti ed evitare un ottavo. Scendono in campo con gli occhi iniettati di sangue, ci fanno malissimo. Non è nemmeno questione di capire cosa fare, i neozelandesi ci girano costantemente attorno, sono almeno due o tre fasi avanti a noi. Lomu lo dobbiamo fermare in quattro, a volte in cinque, siamo palesemente in difficoltà fisica. Arrivano altri 101 punti contro gli unici tre firmati da Diego Dominguez, con la beffa di una meta avversaria, l’ultima di Osborne, palesemente da annullare, ma tant’è.

A pagare per tanti sarà Mascioletti, che verrà sostituito in fretta e furia da Brad Johnstone, l’allenatore delle Fiji che ci avevano castigato all’Aquila. Uno che rimuoverà abbastanza rapidamente il ricorso alle sessioni video e che tornerà al vecchio motto “con me si gioca in otto, forse nove”.

Il 1999 ovale italiano finalmente finisce, arriveranno anni migliori.

Non troppo migliori, per carità, ma non è che ci volesse poi molto.

Una pessima annata