Una pessima annata

La storia ovale azzurra ci insegna che l’ultima grande recita della generazione di Coste prima della vittoria contro la Scozia del 2000 – perché quella era davvero ancora la generazione di Coste – è datata 22 novembre 1998. In quel di Huddersfield, quel giorno, solamente un arbitro non particolarmente concentrato (passate l’eufemismo) ci vietò una vittoria meritata contro l’Inghilterra di Clive Woodward. Fu una partita epocale, una delle grandi incompiute azzurre. Ma ci mise tutti di buonumore, perché di lì ad un anno gli inglesi li avremmo affrontati ancora, e allora sì che avremmo potuto restituire al mittente arbitraggi un po’ troppo casalinghi e i monosillabi altezzosi dell’allenatore inglese. Sì, dicemmo tutti, alla Coppa del Mondo li batteremo. Anche perché, se continuiamo così, nessuno ci deve far paura.

In effetti la formula del Mondiale 1999 sembra fatto apposta per squadre come quell’Italia: cinque gironi da quattro squadre, le prime vanno ai quarti, le cinque seconde e la migliore terza si giocano quello che di fatto è un ottavo di finale. Se sei in girone con gli All Blacks, obiettivamente irraggiungibili, con quell’Inghilterra e con i tongani un pensiero ce lo fai, soprattutto se da un paio di anni te la giochi con tutte le migliori squadre europee. Basterebbe, tra virgolette, ripetersi per un altro anno.

Sembra così poco, in fondo. L’ultimo sforzo.

Quel che ancora non sappiamo è che quel novembre del 1998 è già iniziata la picchiata. Lo ha fatto quando la Federazione ha accordato un piano di premi personali suddividendo 24 giocatori per fasce di merito. Nella prima fascia ci sono Diego Dominguez, Alessandro Troncon, Capitan Massimo Giovanelli e Paolo Vaccari, poi tutti gli altri a scalare. A questo va aggiunta la decisione di non concedere il cap per quasi tutte le partite di qualificazione alla Coppa del Mondo: la presenza verrà notificata solamente per la trasferta russa di Krasnoyarsk, negli altri casi scenderà in campo la cosiddetta Italia A. Non tutti sono d’accordo, ma il 1998 si chiude con la qualificazione e, come detto, con l’attesa per una Coppa del Mondo che avrebbe sancito il nostro ingresso nel Gotha ovale.

Peccato che di mezzo ci sia il 1999, che comincia con la peggiore delle notizie: il 13 gennaio Ivan Francescato non riesce ad eludere il più violento dei placcaggi e ci lascia tutti un po’ più soli. È vero, Ivan non era più lo sgusciante fenomeno di un paio di anni prima, l’avvento del professionismo non sarà gentile con quel tipo di giocatore così naif e fuori dagli schemi, ma uno così in autunno ci sarebbe servito come il pane.

Se non altro per cementare un gruppo non propriamente unito.

Poi cominciano i test-match: la Federazione ha concordato quattro partite contro Francia, Scozia, Galles e Irlanda in primavera, poi un tour in Sudafrica dove si sarebbero affrontati gli Springboks di Nick Mallett per due volte e un torneo a L’Aquila contro Spagna, Uruguay e Fiji. Sulla carta è una tabella di marcia dura, senza attimi di pausa, ma che potrebbe regalarci qualche soddisfazione. La Francia manda a Genova la selezione XV, ma per i primi quaranta minuti non ci fanno vedere palla. Solamente l’orgoglio di Dominguez e Troncon ci permetterà di limitare un passivo che non dice di un gioco a tratti irritante. È una botta durissima, se l’aspettavano in pochi. In Scozia reggiamo un tempo, poi cediamo per 30 a 12. Il peggio, però, lo diamo a Treviso contro il Galles: giochiamo praticamente venti minuti, poi il piede di Neil Jenkins e il postino di Sarn, all’anagrafe Gareth Thomas, ci mettono all’angolo. Il 60 a 21 di Monigo fa malissimo. La panchina di Coste, così salda e difficilmente scalfibile qualche mese prima, ora comincia a ballare. Poi si perde anche in Irlanda, Irlanda che negli ultimi tre anni ci aveva sempre e solo preso la targa. Segna due mete l’estremo dei London Irish, Conor O’Shea, che poi passerà pure da queste parti. La primavera che ci doveva vedere in prima linea ci restituisce ridimensionati, ma non è finita qui. A inizio giugno si parte per il tour sudafricano, in programma due sfide contro Eagles e Kavaliers e doppia sfida agli Springboks. Alla vigilia Dominguez dà forfeit per una distorsione cervicale, dobbiamo giocare quattro partite con il solo Mazzariol come apertura. Contro le province gioca una squadra sperimentale, contro gli uomini di Mallett va in campo la Nazionale vera e propria. Nel primo test teniamo dignitosamente per un’ora, poi crolliamo completamente sotto i colpi del debuttante Breyton Paulse (quattro mete), finisce 74 a 3. Per il secondo test Mallett e molti giornalisti buttano lì una frase ricorrente, “sarà peggio della settimana scorsa”. Coste non è che può far miracoli: la rosa a disposizione è ridotta, slegata, cotta dai postumi di una lunga stagione e da tre partite massacranti in meno di due settimane. Sposta Mauro Bergamasco tra i trequarti, cercando di contenere le folate di Paulse. Il problema è che a Durban, il 19 giugno del 1999, gli Springboks non vogliono far prigionieri. Scopriamo – se non l’avevamo fatto prima – che se Paulse gira a scartamento ridotto dall’altra parte c’è sempre Stephen Terblanche, che ce ne schiaccia cinque. Loro sono furenti, noi siamo il toro nell’arena. Un toro emaciato, sfinito dai banderilleros delle province e finiti senza pietà da un torero tra i più bravi nel suo mestiere. Qualche sudafricano applaude la nostra voglia di andare sempre e comunque in touche, almeno quattro calci erano piazzabili, ma gli applausi non fanno punti. Loro ci prendono e ci danno il giro, non ne usciamo più. Alla fine manterranno la promessa, ce ne daranno 101. È il capolinea di Coste, già ai ferri corti con qualche senatore, sollevato dall’incarico e spostato a direttore tecnico. La squadra viene affidata al suo vice, Massimo Mascioletti, leggenda aquilana e allenatore che a livello internazionale è tutto da verificare. E proprio all’Aquila si va a continuare la preparazione: per tre mesi i giocatori alloggiano nella Caserma della Guardia di Finanza. Gli allenamenti sono sfiancanti, Mascioletti per un periodo è quasi da solo a gestire il gruppo, se si esclude la presenza di Coste dietro qualche siepe a dar consigli. La Federazione  a questo punto si muove in due sensi: all’allenatore vengono affiancati Ascione e Donatiello, due risorse interne, mentre nel capoluogo abruzzese cominciano ad arrivare giocatori argentini, francesi, australiani, tutti accomunati dal fatto di avere, nel loro albero genealogico, alcune parentele italiane. Arrivano in due o tre, partono, ne arrivano altri, poi qualcuno torna, altri sbattono la porta. Tra gli altri rimangono alcuni argentini come Ceppolino, Moreno e Francesio, un paio di francesi (Cornella e Travini) e un australiano, Nick Zisti. Quest’ultimo viene dal Rugby League, come tanti altri giocatori europei e mondiali vuole fare lo switch e cambiare codice. Chi lo ha portato al raduno lo considera un vero fenomeno, ma insospettiscono le poche presenze in un club inglese. Viene messo sotto contratto dalla Rugby Roma, che lo potrà schierare nella stagione successiva, ma si fa male subito. Che poi il problema è questo: puoi far arrivare anche Campese, anche Dan Carter, ma se non lo metti nelle condizioni di giocare e di entrare nei meccanismi rischi sempre tantissimo.

Ad agosto, nel frattempo, arrivano Uruguay, Spagna e Fiji per il Trofeo della Perdonanza. Le prime due partite non sono nemmeno divertenti, vinciamo abbastanza facilmente senza rischiare né mostrare molto. Siamo imballati, ma a poche settimane dal debutto alla Coppa del Mondo è qualcosa che ci può stare. Contro gli iberici debutta ad estremo un diciottenne nato e cresciuto all’Aquila, segna pure una meta portandosi sulle spalle tre avversari che non avevano troppa voglia di scherzare, ma che non lo prenderanno mai. Si chiama Andrea Masi, ma per il momento la sua avventura azzurra si interrompe qui. Il match decisivo per il trofeo  contro i fijani, che sono allenati da un ex pilone degli All Blacks con poche parole, pochissime idee ovali, ma molti risultati. Si chiama Brad Johnstone, lo chiameremo in fretta e furia di lì a un paio di mesi, quando tutto sarà finito. Il match è combattuto, il risultato è un continuo braccio di ferro, anche perché a Diego dalla piazzola risponde il loro numero 10, Nicky Little, che poi farà una discreta carriera in Italia. a pochi minuti dal termine siamo avanti noi, 32 a 30, ma commettiamo l’errore di non placcare subito un loro trequarti, meta del sorpasso. Nella foga di recuperare subiamo pure un intercetto, finirà 50 a 32.

Ecco, questo ci sta molto meno.

Da qui al 2 ottobre, data del match contro gli inglesi, giocheremo solamente un Probabili contro Possibili. Finalmente alcuni naturalizzati si fanno vedere: Ceppolino e Francesio sono discreti, Zisti segna due mete, Moreno per essere un pilone è parecchio reattivo in campo aperto. Qualcuno ha voglia di prendersi la rivincita dopo la grande incompiuta di Huddersfield, e Twickenham sembra il posto giusto per prendersela. Perfino Mascioletti si lascia andare, dicendo che l’Inghilterra si può battere. A bocce ferme si può dire che fossero parole di incoraggiamento, frasi che avrebbero dovuto servire per dare morale alla truppa. Anche perché Woodward, nonostante ad Huddersfield abbia seriamente rischiato di finire nelle grinfie del compianto Carlo Bruzzone, ha capito benissimo che gli italiani si possono battere, ma la partita gliela devi levare di mano poco alla volta, con raziocinio. E toccando le corde giuste. Jonny Wilkinson mette il primo calcio dopo pochi secondi, poi una meta in bandiera, poi altri tre calci. Poi parte l’operazione Bergamasco: ad Huddersfield per lunghissimi minuti Mauro aveva messo costantemente in imbarazzo la terza linea inglese, che non aveva armi per fermarlo. Gli piazzano vicino Phil Vickery, professione pilone, la cui testa colpirà non troppo accidentalmente le costole del padovano, costringendolo ad uscire. La diga azzurra dura pochissimo, finisce 67 a 7, con Twickenham a cantare più volte di quel dolce carretto. Tra i nostri in tanti sarebbero da 4 in pagella, ma il compito in bianco di Zisti è da record: mai visto un giocatore così fuori contesto a questi livelli. Non è del tutto colpa sua, per debuttare in uno sport diverso da quello a cui sei abituato c’è bisogno di apprendistato, non si può fargli scalare l’Everest se è abituato alla Forcella Mostaccin. Tornerà per giocare contro gli All Blacks, ma di fatto la sua avventura azzurra finisce qui. L’unica chance per rimanere in corsa per un posto ai playoff è quella di sommergere di punti i tongani, che contro gli All Blacks non sono mai stati in partita. La squadra del 1998 non avrebbe grossi problemi a battere la meno forte delle compagini pacifiche, ma il 1999 è cominciato da un po’ e quel gruppo ha lasciato ormai solo un pallido ricordo. I tongani segnano due mete, noi puniamo costantemente la loro indisciplina e diamo segni di netto miglioramento rispetto al match contro gli inglesi, ma non riusciamo mai a scappare. E non riuscire a mettere della luce tra sé e una squadra isolana non è un bel viatico. Andiamo in meta con Moscardi, loro ci scavalcano con la terza meta a pochi minuti dalla fine. Il finale in quel di Leistecer è uno psicodramma: i tongani commettono l’ennesimo fallo e Dominguez pareggia. Poi però Tu’Ipulotu, estremo avversario, chiama la palla al suo mediano di mischia. Drop da quaranta metri, giusto in mezzo ai pali.

Peggio di così non poteva andare.

O forse sì, perché all’ultima giornata ci sono gli All Blacks, già sicuri di essere primi nel girone, meno certi di avere il migliore accoppiamento possibile ai quarti ed evitare un ottavo. Scendono in campo con gli occhi iniettati di sangue, ci fanno malissimo. Non è nemmeno questione di capire cosa fare, i neozelandesi ci girano costantemente attorno, sono almeno due o tre fasi avanti a noi. Lomu lo dobbiamo fermare in quattro, a volte in cinque, siamo palesemente in difficoltà fisica. Arrivano altri 101 punti contro gli unici tre firmati da Diego Dominguez, con la beffa di una meta avversaria, l’ultima di Osborne, palesemente da annullare, ma tant’è.

A pagare per tanti sarà Mascioletti, che verrà sostituito in fretta e furia da Brad Johnstone, l’allenatore delle Fiji che ci avevano castigato all’Aquila. Uno che rimuoverà abbastanza rapidamente il ricorso alle sessioni video e che tornerà al vecchio motto “con me si gioca in otto, forse nove”.

Il 1999 ovale italiano finalmente finisce, arriveranno anni migliori.

Non troppo migliori, per carità, ma non è che ci volesse poi molto.

Una pessima annata

Vite non rimborsabili

Douala, Camerun. Sulla costa, casa mia.

Poi Nigeria, Niger, Algeria.

Questa è la strada per arrivare in Marocco.

La strada per arrivare al rugby.

Ci gioco da quando ho undici anni. Non ve lo nascondo, chiesi a mio padre di giocare a calcio come tanti miei coetanei. Mio padre, però, non aveva i soldi per pagarmi l’iscrizione all’Accademia, e allora virai sul rugby, che era gratis.

Mai mancato investimento fu così redditizio.

Ero piccolo ma già robusto, e tutto quel combattere, tutto quel portare avanti una palla ovale, tutto quel correre ad aiutare compagni in difficoltà mi piacque da subito.

Mi bastò poco per capire che avrei voluto vivere di rugby.

Mi ci volle ancora meno per capire che, per vivere di rugby, avrei dovuto andare altrove.

Un giorno me ne andai, dissi a mio padre che sarei andato a giocare qualche partita di un non meglio precisato torneo in una città vicina. Perché avevo bisogno di una bugia bianca, di quelle che fanno meno male. E perché sapevo che sarebbe stata una bugia ancora per poco, a rugby ci avrei veramente giocato lì in Marocco.

O almeno, così credevo.

No, non andò così. Quando arrivammo a destinazione ci rendemmo conto che il rugby era solo una chimera. No, non il rugby professionistico. Il rugby, punto. Nessuna palla ovale in giro, niente che ricordasse qualcosa di legato ad un qualunque sport. Mio padre mi mandò dei soldi per permettermi di tornare a casa, ma io decisi di proseguire. Papà mi ha sempre lasciato giocare, ma non gli è mai piaciuto il rugby. Forse non gli è mai piaciuta l’idea che lo sport potesse essere una fonte di sostentamento. Avrebbe preferito avessi studiato, mi fossi laureato e, chissà, avessi ottenuto un lavoro rispettabile. Rispettabile per lui, s’intende, ossia magari dietro una scrivania, magari in uno studio legale o qualcosa del genere.

Lo so, non sono mai stato il figlio che avrebbe desiderato.

Il figlio che avrebbe desiderato sarebbe tornato e avrebbe cercato di rimediare a quella ragazzata.

Il figlio che aveva messo al mondo, però, il suo unico figlio maschio, aveva deciso che da quelle parti avrebbe vissuto a metà. E le vite a metà non sono rimborsabili.

Quel giorno ripartii e puntai a Nord.

Douala. Poi Nigeria, Niger, Algeria. Questa era la strada per arrivare in Marocco. La strada per arrivare al rugby.

Ma il Marocco, a quel punto, non poteva e non doveva essere l’ultima tappa del nostro cammino.

Puntai a Melilla, prima terra spagnola in mezzo all’oceano.

Da lì sarei arrivato in Europa.

Lì sì che c’è il rugby, lì sì c’è un’altra vita.

In Europa ha giocato Serge Betsen, che ha difeso i colori della Nazionale Francese, ma che è pur sempre nato a Kumba, due ore di strada da dove sono nato. In Europa gioca ancora Robins Tchale-Watchou, che è nato a Dschang.

E in Europa un giorno vorrei giocarci pure io, Thierry Feuteu.

Ma non è semplice.

La polizia marocchina mi respinge due volte, la terza è quella buona: siamo in quattrocentocinquanta a valicare il confine e a guadagnarsi una speranza in Spagna. Finisco a Madrid dopo un lunghissimo viaggio in autobus partito da Malaga e terminato a Miraflores de la Sierra, a una cinquantina di chilometri dalla capitale. Comincio a imparare lo spagnolo grazie ad una ONG, la “Movimiento por la Paz”, poi riesco a dire che mi piacerebbe giocare a rugby. Mi danno il contatto dell’Atlético Custodians Madrid RL, squadra composta in larga parte da poliziotti.

Ironia della sorte, in quel periodo non riuscii mai ad ottenere il permesso di soggiorno.

Più tardi passai ai Madrid Barbarians, squadra composta da altri giocatori stranieri nella mia stessa situazione. Poi fu la volta del Majadahonda, squadra di livello più alto, stabile nella terza serie spagnola.

Qui mi notò Tiki Inchausti, ex selezionatore della Nazionale di rugby a sette. O meglio, mi notò un suo collaboratore. Tiki vide in me margini che nemmeno io – diceva – sapevo di avere e, all’inizio della stagione successiva, mi portò ad Alcobendas, nella División de Honor, il massimo campionato spagnolo. Inchausti mi cambiò di ruolo, impostandomi come pilone sinistro. Aveva capito che, forse, la mia voglia di correre e la mia fisicità avrebbero potuto essere grandi risorse anche quando era il momento di spingere in mischia.

E mi trasformò in uno dei piloni più devastanti di Spagna.

Non solo in chiusa, non solo quando entro a contatto con fango e sudore di gente che vorrebbe arrotarmi per esigenze di contratto. Anche e soprattutto in campo aperto, quando è ora di sgranchire le gambe e portare avanti l’ovale. Con i ragazzi della Sanitas, appena neopromossi, arriviamo sesti senza mai rischiare la retrocessione. Poi, per tre anni arriviamo in semifinale, senza però riuscire a scalfire fino in fondo squadroni come El Salvador o il VRAC, che si sono spartiti tutti gli ultimi scudetti. Bello sfidare quei campioni, però, bello imparare da gente che in Nazionale ci gioca molto spesso.

A proposito, la Nazionale.

So per certo che Tiki ha fatto il mio nome a Santi Santos, il selezionatore della Nazionale. Appurato il mio non aver mai giocato per la nazionale camerunense, qualcuno fece partire la convocazione per il match contro la Germania.

Certo, so già cosa alcuni pensano dei giocatori come me. Dovremmo tenere alti i colori e i vessilli del nostro Paese d’origine.

Secondo alcuni avrei dovuto giocare per il Camerun.

Avrei dovuto stare a casa mia, non avrei dovuto provare la traversata.

Eh, dicono, facile far strada così, con il Camerun novantanovesimo nel ranking sì che avresti dimostrato il tuo valore.

Una vita vissuta a metà, però, non te la rimborsa nessuno.

E tra il vivere nel mio orticello e il rischiare di rendere i miei anni migliori al Creatore in cambio di un sogno, beh, ho scelto il rischio.

Ho attaccato la linea per rompere il placcaggio.

Chi non l’ha mai fatto nella sua vita non può capire cosa significhi.

Senza pensare, poi, che la Spagna mi ha dato una nuova vita, una nuova possibilità.

Mi ha dato sostegno, forza e coraggio, tutte cose che baratto volentieri per ottanta minuti alla volta su un campo da rugby.

Mi ha dato la possibilità di imparare una lingua, di inserirmi in una società che avrebbe potuto benissimo lasciarmi ai margini, ma che ha preferito tendermi la mano. Mi ha salvato, in un certo senso. E mi ha permesso di portare avanti il mio sogno di bambino fino ai limiti estremi della possibilità. Il giorno in cui mi chiamarono dalla Federazione la prima chiamata fu per mio padre, a cui devo soldi e magnanimità, non tutti mi avrebbero permesso di fare quel che lui ha concesso. Era freddo al telefono, impostato come al solito, ma è il suo modo di fare, so che in fondo è fiero di me.

La seconda fu per i ragazzi di Movimiento por la Paz, che mi accolsero dopo un viaggio estenuante e mi diedero nuova forza.

La terza per alcuni ex compagni nei Custodians, che appena hanno potuto mi hanno aiutato nell’ottenere la cittadinanza.

Nel passare dall’essere il semplice sognatore di Douala al pilone della Nazionale Spagnola di rugby.

E dello Stade Français, che mi ha ingaggiato la scorsa estate.

Sono il terzo giocatore nato in Camerun a giocare in Top14, dopo Betsen e Tchale-Watchou, giocatori che quand’ero piccolo vedevo come idoli assoluti, come fenomeni che ce l’avevano fatta per davvero.

Gente che ha dato tutto su un campo da rugby, vivendo giorni difficili di qua e di là dall’oceano.

Forse sono passati anche loro da Melilla, forse hanno dovuto anche loro dar prova delle loro competenze ovali fuori da un campo da rugby.

Non lo so, non mi è dato saperlo, per ora.

Ma so che in quei campi ora ci sono anch’io.

Ho rotto il placcaggio di poliziotti marocchini, ipocrisie e timori di vite vissute a metà.

Mi chiamo Thierry Feuteu, faccio il pilone.

E avere a che fare con gente desiderosa di arrotarmi per esigenze di contratto, ora come ora, mi spaventa fino ad un certo punto.

Vite non rimborsabili

Giubileo

Sul più bello Ford se ne va. Motivi familiari, deve tornare urgentemente a casa sua, in Sudafrica. Brutta tegola, perché Kenneth Ford era veramente uno degli uomini forti della Rugby Roma: un numero 10 dallo spiccato senso offensivo, ottimo nell’uno contro uno, sempre a ridosso della linea di difesa avversaria. Gran piede poi, come ogni apertura sudafricana che si rispetti.

Già, è proprio una brutta tegola, soprattutto perché a Roma si respirava aria di piazzamenti importanti: primi nel gironcino e non troppo distanti dal livello della Benetton Treviso, la vera favorita del torneo per pedigree, rosa e per il dominio perpetrato nell’altro girone. L’aria diversa è percepita anche in altri sport, visto che le compagini romane stanno volando anche nel calcio e nella pallavolo. La dirigenza, per non sbagliare, si muove subito e prende Gonzalo Camardon, utility back dei Pumas. Alla Coppa del Mondo inglese ha giocato prevalentemente all’ala, ma è in grado di giocare tranquillamente anche estremo, centro e apertura, ma si rendono conto subito che l’argentino non ha il piede da cassazione di Ford. Per giunta se ne va anche Cyril Schuwer, estremo già nazionale francese nel Seven. Mancherà meno del sudafricano, ma la coperta si accorcia quando tutto sembrava promettere bene.

È strano però, il campionato 1999-2000. Vero, la grande favorita rimane Treviso, grande serbatoio della Nazionale e unica squadra a potersi permettere uno straniero per le Coppe Europee, Jacques Benade. Però lì in vetta sta cambiando qualcosa: il Petrarca non riesce a ripetere le annate con Munari in panchina e si perde un po’. Fanno il colpo, i padovani, perché portano all’ombra del Santo un folletto aborigeno con troppi problemi disciplinari alle spalle, ma con gambe e cervello da fenomeno vero. Si chiama Brendan Williams, uno dei pochi giocatori del campionato italiano che negli ultimi vent’anni è valso da solo il prezzo del biglietto. Sì, ma se ne vanno Rolleston e Berry, due delle colonne portanti della squadra che non vengono rimpiazzate a dovere. Si fa vedere il Calvisano, che si affida a una solida colonia di italiani perfezionata dallo stesso Rolleston, da Gert Peens e da David Hill, ragazzino neozelandese che a lungo verrà corteggiato dalla Federazione per via della mamma italiana, ma che alla fine cederà alle lusinghe dei New Zealand Maori. Anche Viadana è una bella squadra, e pure il Rovigo di Scanavacca. Dalla lotta senza quartiere del girone 1 però, emerge a sorpresa l’Aquila. Non fraintendete, la piazza abruzzese è tradizionalmente nel gotha del rugby italiano, ma dopo lo scudetto del 1994 non aveva più brillato.

Per dire, la salvezza nel 1999 arrivò solo grazie ad una poule salvezza meno singhiozzante di un primo girone disastroso.

È cambiato qualcosa, però, da quelle parti. In panca è arrivato Mike Brewer, ex terza linea All Blacks ed ex giocatore neroverde negli anni ’80. Non è un arrivo da poco, perché l’ex flanker ha veramente voglia di far bene e lo dimostra sfoderando un piglio da marine: poco spazio a pizzi e merletti, i suoi ragazzi devono essere fisicamente pronti. Uno dei suoi allenamenti preferiti è il far abituare i suoi a tenere la palla per quaranta minuti effettivi consecutivi. Al primo errore il cronometro viene resettato. Non è un allenamento facile, sono in molti quelli che vorrebbero cedere, ma la squadra ad inizio stagione sembra veramente un’altra cosa rispetto all’annata precedente. Anche perché Brewer, a livello tattico, ha le idee molto chiare: da West Hartlepool per esempio, cittadina inglese nella quale allenava fino a qualche mese prima, si porta Mick Watson, gigantesca seconda linea, un trattore in spinta. Poi mette mano alla mediana: vuole un numero 10 fantasioso, elettrico ed elusivo, un qualcuno che gli ricordi il Frano Botica con cui ha diviso la maglia nera con la felce argentata e pure due stagioni abruzzesi negli anni ’80. La dirigenza lo accontenta e ingaggia Valentino Va’a, mediano di apertura della nazionale samoana: non arriva al metro e settanta, ma quelle gambe e quella velocità di pensiero danno una sferzata al gioco di squadra. Se a tutto questo si aggiunge una mischia che annovera gente del calibro di Totò Perugini, Maurizio Zaffiri e Antonello Comperti, beh, vien facile pensare che al Fattori non sarà semplice passare.

La stagione inizia senza grossi sussulti: Treviso non ha problemi a prendere la testa del suo girone, Rovigo e L’Aquila si dimostrano rocciose in casa, Viadana e Calvisano sono sul pezzo. Si decide tutto all’ultima giornata, con rodigini e calvini che cedono al fotofinish il terzo posto ai mantovani. Nell’altro girone Roma non ha problemi a prendere la testa, mentre il Petrarca crolla e resta fuori dalla lotta scudetto. Fanno bene invece Parma e Piacenza, che completano il gironcino a sei dalla quale usciranno le semifinaliste. Viadana e Treviso si piazzano ai primi due posti e guadagnano il fattore campo. Bella squadra, quella giallonera, rafforzata da quello che sarà il primo equiparato nella storia azzurra, Matt Philips, e dal centro inglese Glenn Bunny, grande attaccante. Al terzo posto si piazza la Roma, ma l’attesa è tutta per la lotta per l’ultimo biglietto disponibile. Piacenza e L’Aquila si affrontano in una agonica ultima giornata al Fattori, con i padroni di casa sotto di dieci punti a pochi minuti dal termine e in grado di sorpassare allo scadere grazie ad un calcio di Va’a. I neroverdi chiudono quarti e devono quindi affrontare la prima classificata della serie A2 in una sorta di quarto di finale. Chi vince si gioca la semifinale a Monigo. Al Fattori arriva il GRAN Parma, formazione giovane e talentuosa, ma non in grado di mettere in campo la stessa cilindrata dei ragazzi di Mike Brewer, che vincono per 45 a 18 lasciando a riposo molti dei titolari. Difficile comunque che la finale possa sfuggire a trevigiani e romani, le due squadre apparse più forti e attrezzate.

Anche perché la Roma non è solo Kenneth Ford e Luke Gross. C’è uno zoccolo duro di giocatori romani di talento quali Nanni Raineri, Carlo Pratichetti, Giampiero Mazzi, Flavio Siciliano, Fabio Roselli e Giampiero Mazzi, un pilone come Lo Cicero, l’aquilano Carlo Caione. È una squadra compatta, senza apparenti punti deboli, forse leggermente inferiore come organico alla Benetton ma perfettamente in grado di dire la sua in gara secca, anche perché il gioco plasmato da Gilbert Doucet, allenatore francese che passerà anche per Calvisano, è perfetto per mettere sabbia nei meccanismi degli avversari: è un gioco veloce, scanzonato, fatto di sventagliate veloci, solo apparentemente troppo leggero, perché fondato su una mischia granitica.

Solo che Ford, sul più bello, deve tornare a casa. Problemi familiari, si vocifera che debba prendere in mano l’azienda di famiglia il più presto possibile. Bel guaio, perché il sudafricano era uno che faceva realmente la differenza. La dirigenza pensa al colpo gobbo e contatta Diego Dominguez, ma l’apertura azzurra si defila, è impegnato fino al 2001. È lui a dire che Camardon è uno dei migliori colpi possibili per la squadra romana, e in effetti non ha tutti i torti: l’utility back dei Pumas è un giocatore veramente completo e di livello, dà un gran ritmo al gioco romano. Però non piazza così bene, cosa che in partite punto a punto potrebbe rivelarsi deleteria.

Qualcuno della dirigenza, molto probabilmente, ha richiamato Diego per avere qualche altra dritta. Diego risponde e manda nella Capitale un ragazzino di 22 anni appena diventato campione argentino a La Tablada. Con quell’ovale in mano, quando dice di attaccare, va sempre oltre. Ecco, non è un granchio in difesa, ma Doucet gli predispone una linea di centri difensivamente spietata, perché Camardon e “Tagliola” Raineri quando sono in giornata non fanno passare uno spillo. Ecco, nelle prime partite non gli entra bene il piede, ma poi Ramiro Pez registra le tomaie e la Roma spicca il volo. Anche in semifinale, perché i romani espugnano Viadana grazie ad un paio di invenzioni del nuovo numero 10 e lasciano lì i mantovani, traditi sul più bello da una brutta giornata di Grangetto e del pack. Roma va in finale e, cosa da non sottovalutare, la gioca in casa.

Si attende solamente l’esito dell’altra semifinale, quella tra Treviso e L’Aquila. Pronostici alla mano è una partita a senso unico: le due squadre si sono già affrontate quattro volte e i neroverdi non sono mai nemmeno andati vicino a giocarsi una singola patita. Se a questo aggiungiamo che si gioca a Monigo e che i biancoverdi andrebbero in finale anche con un pareggio, ecco, le probabilità di un passaggio del turno degli uomini di Brewer sono parecchio risicate.

Le partite, però, bisogna giocarle.

Treviso un po’ si sente già in finale e lascia in panchina Jaan Richter, sudafricano campione del mondo del 1995, professione seconda linea. Entrerà nel secondo tempo, a partita con ogni probabilità già incanalata dalla parte giusta, per salutare il suo pubblico. Ha le valigie pronte, Richter, si ritirerà a fine stagione, ma è comunque uno dei più forti della squadra, e la sua assenza si sente. Il fatto è che la passerella finale, quei dieci-quindici minuti concordati con lo staff, diventeranno trentacinque, perché la partita si sta mettendo meno bene del previsto. I frutti del lavoro massacrante di Brewer cominciano a farsi vedere e la partita è più equilibrata che mai: un calcio di Mazzariol di qua, un piazzato di Va’a di là. Si arriva sul 12 pari, poi il colpo di scena: sventagliata dei trequarti aquilani, la palla arriva al numero 13, Francesco Scipioni. Scipioni è uno di quelli che aveva mollato appena fu chiaro a tutti quale sarebbe stata la mole di lavoro da prendere in carico con il coach neozelandese. Mollò tutto ed andò ad aprire un pub in centro. Solo che qualcuno l’ha convinto a tornare, e leggenda vuole che Brewer lo abbia messo subito in campo per fargli vedere quanto dura sarebbe stata. Eh, si vede che Scipioni non se ne deve essere reso conto, visto che piazza un’internata che manda al bar i centri trevigiani e volta sotto i pali dopo quaranta metri di corsa solitaria. Diciannove a dodici, non se l’aspettava nessuno. E il bello è che i padroni di casa hanno palesemente finito la benzina, perché la lucidità viene meno. La partita la si potrebbe ancora girare, perché a tempo abbondantemente scaduto arriva la meta dei Leoni. Sono attimi lunghissimi per tutti, la trasformazione di Pilat è decisiva.

Il calcio però finisce fuori e in finale ci vanno gli aquilani.

E allora diventa divertente, perché si giocano il titolo una squadra seriamente intenzionata a ribadire che nel 2000 la Capitale sportiva non teme sconfitte e una squadra coriacea e che ha appena giustiziato la squadra da battere, seguita da un popolo altrettanto carico e orgoglioso delle sue origini, squadra che crede fermamente che lo scudetto del 1994 sia replicabile in tempi brevissimi. Una squadra che non è solo prima linea e mediana: da una stagione ha cominciato a brillare la stella di un estremo diciannovenne, già azzurro nella famigerata estate del ’99, duro come le montagne abruzzesi e talentuoso come pochi negli ultimi vent’anni. Si chiama Andrea Masi, laggiù giurano e spergiurano sul fatto che ne sentiremo parlare.

La finale, purtroppo, dura pochissimo: agli aquilani viene presentato il conto di una stagione e di una preparazione atleticamente durissime. A farne le spese per tutti è Va’a, fasciato e incerottato come una mummia. Dopo nemmeno due minuti riceve palla da Mazzantini e vorrebbe calciare, ma il fisico non va alla stessa velocità della mente: la difesa romana si alza e Pez alza le braccia, stoppando il pallone. Poi corre, lo scalcia ancora e si tuffa in meta, Roma è in vantaggio. È una mazzata durissima anche per il cuore aquilano, che perde in un colpo abbrivio e lucidità mentale. I romani si impossessano velocemente delle maggiori fonti di gioco grazie ad un Luke Gross monumentale in touche e a un Caione formato guerriero. Poi ci pensa la legione romana: Pratichetti e Siciliano, su tutti, chiudono una carriera giocando una partita commovente per dedizione e sacrificio. Al resto ci pensano i trequarti: per due volte Pez accelera, per altre due volte la cavalleria leggera sfonda con Roselli e Raineri. Mike Brewer è sconsolato, i suoi ragazzi non rispondono ai comandi e al cambio di campo il risultato è eloquente, 30 a 0. Il neozelandese però negli spogliatoi deve dire qualcosa di importante, perché la ripresa è tutta un’altra cosa: i neroverdi tengono meglio il campo e sembrano aver riacquistato la grinta e il furore agonistico volatilizzatisi nei primi quaranta minuti. La touche torna a funzionare e nei primi dieci minuti Mick Watson rende giustizia a due carrettini mastodontici. Va’a non centra i pali in nessuna delle due occasioni, si va sul 30 a 10. Roma ha un attimo di tentennamento, alcuni non hanno più la brillantezza del primo tempo, altri non riescono a reagire. Arriva anche la terza meta, quella di capitan Zaffiri,  si va sul 30 a 17 e mancano venti minuti alla fine. Non è ancora detta l’ultima parola. Il pubblico aquilano torna in vita e prende in spalla la sua squadra, manca veramente poco al ricongiungimento, basterebbe una meta per riaprire tutto.

La meta arriva. Ma la segnano i romani: un calcio di Pez rimane senza padroni finché non si presenta all’uscio Roselli, che ha ancora gambe per andare oltre. Adesso non c’è più veramente nulla da fare, 18 punti da recuperare sotto quel sole, tra quei garretti devastati da caldo e fatica, non li recuperi nemmeno se sei gli All Blacks. Zaffiri e compagni però ci provano: chiudono nei cinque metri i romani, provano fino all’ultimo a segnare una quarta meta che diminuirebbe il distacco ma aumenterebbe i rimpianti, poi l’arbitro fischia la fine. Roma torna campione d’Italia dopo 51 anni dall’ultimo scudetto. E resta campione d’Italia, perché il rugby, la pallavolo e il calcio (sponda Lazio) disegnano uno scudetto grande come l’ombelico del mondo e mandano in paradiso tutti, nell’anno del giubileo. Squadre solide, magari meno attrezzate di altre, ma vincenti grazie a gruppi irripetibili e – per ora – non ripetuti.

Non nel rugby, almeno. Perché la stagione 2000-2001 non ripeterà quei fasti, segnata da una campagna acquisti deficitaria e da un clima diverso. Di lì a poco se ne andrà anche Doucet, di lì a poco si retrocederà.

Ma questa è un’altra storia.

Da quelle parti si spera sempre di non dover aspettare un altro giubileo, per vedere tutta quella bellezza.

Giubileo

Io, Ian

Piove. È domenica mattina e piove. Bel clima se la prospettiva è quella di rimanere a ingrassare le coperte e a pensare a quanto si possa star bene là sotto, tra coperte, cuscini e federe. Diversa è la situazione se la sveglia ha già cominciato a cantare. Non sono mai stato un fan delle sveglie impostate a orari improponibili, ma allo stesso tempo non mi è mai pesato granché l’essere mentalmente e fisicamente attivo nelle prime ore del giorno. Oh, sono pur sempre uno sportivo, la domenica per me non è mai stato un giorno come gli altri. Nel giorno in cui qualcuno decise che sarebbe stata cosa buona e giusta riposarsi io avevo due alternative: o prepararmi per la partita, o recuperare dai postumi della partita del sabato. Dipendeva dalla categoria, dall’età e dai calendari che qualche buontempone ci rifilava. In nessuno dei due casi, comunque, riuscivo a collezionare ore su ore di sonno, vuoi perché l’attesa del match a volte era spasmodica, vuoi perché le botte e i placcaggi del giorno precedente si facevano vivi solamente quando gli occhi decidevano di spalancarsi. I placcaggi, a volte, sono matematica applicata alla vita.

Certo, nemmeno la notte prima della partita è facile dormire, pioggia o non pioggia. Prendo mamma e la porto a fare colazione. Si è fatta duemila e passa chilometri per venirmi a sostenere qui in Friuli. Qualche anno fa si sedeva comoda alla RDS Arena, immersa nel blu, nel bianco e nel nero di quello stadio e di quelle bandiere. Sono passati tre anni, ad accoglierla oggi ci saranno la pioggia, la balaustra e posti in piedi a sazietà. Nessuno si lamenterà di questo. Né lei, né il sottoscritto. No, non c’è niente di cui lamentarsi, quando di mezzo ci sono una palla ovale, un rettangolo verde e dei pali piantati all’estremità. Non dopo tutto quel che mi è successo, non dopo quel tacchetto nell’occhio. Non dopo quell’uscita con gli amici a Galway. Finché nella mia vita barcollerà un pallone da rugby non mi lamenterò. Piove ancora, il campo è fradicio e pesante. Stanno giocando i ragazzi dell’under 18. Ne conosco più di qualcuno, visto che li ho aiutati negli ultimi mesi. Allenati e aiutati. Sono arrivato qui qualche anno fa, stavo male. Non potevo giocare a rugby, né riuscivo ad estirparlo da me. Mai avrei voluto estirparlo da me, però, dissero, era il caso di cambiare aria. Giocare no, era tutto finito. Ma allenare sì, certo che avrei potuto farlo, dissero. Meglio se in un paese in cui il rugby non fosse stato tra gli sport più seguiti. Trovarono un accordo con una società del Nordest, il Leonorso Rugby Udine, quarta serie italiana. Avrei dovuto allenare gli under 16 e, nel frattempo, mi sarei cimentato con la lingua italiana. I primi tempi non sono stati facili, ma questo era preventivabile. L’anno scorso a sostenermi arrivò mio fratello, aveva intuito che in me c’era qualcosa da sistemare. Poi, parola dopo parola e allenamento dopo allenamento, sostegno dopo sostegno, sono migliorato. Nel dubbio, quando posso, dico “Mandi”. E i ragazzi mi seguono, qualcuno ha anche belle potenzialità. Chissà, sarebbe bello giocare con qualcuno di loro, un giorno. Arrivano anche gli altri. Nella quarta serie italiana non esistono giocatori professionisti. Ci sono impiegati, operai, studenti. In tutta la serie forse qualche giocatore con quarti di nobiltà ma ormai prossimo alla pensione, ma la maggioranza di chi calca questi campi gioca a rugby per passione. Negli spogliatoi si chiacchiera. Non necessariamente di rugby. io, nel frattempo, indosso i miei occhiali. Li hanno studiati e perfezionati a Bologna. Con questi, e con la collaborazione di World Rugby e della Federazione Italiana, sono riuscito ad avere la possibilità di tornare a giocare a rugby. Non li ho indossati molto, giusto in allenamento, oggi anche loro sono al debutto stagionale. A dire la verità la cosa mi impensierisce un po’. Certo, in settimana hanno fatto il loro lavoro egregiamente, ma la partita è tutta un’altra cosa. Altro ritmo, altra intensità, altra resistenza avversaria. Gli avversari, già.  I Grifoni sono gli unici ad aver vinto contro la Leonorso all’andata, c’è tanta aria di rivalsa qui dentro. Fuori, invece, continua a piovere. Attorno al campo sono arrivati anche parecchi giornalisti, molti più di quelli che si vedono da queste parti e a questi livelli. Hanno sentito dell’ex giocatore del Leinster che torna alle gare dopo un serio infortunio. Vogliono capire, vogliono filmare. Non li ferma neppure la pioggia, non li placca neppure il campo fangoso. Nel frattempo continuo la mia vestizione. Pantaloncini e calzoncini. La maglia numero 10. Quanto mi è mancata la divisa da giocatore in questi anni. È dura doverle distribuire ai ragazzi e sapere di non poter indossarla, prenderla in prestito per ottanta minuti. Oggi è mia. Poi gli occhiali, poi il caschetto. Si fa riscaldamento tutti insieme, poi arriva l’arbitro e si fa l’appello. McKinley, Ian, numero dieci.

E poi si scende in campo.

Sapete, ero preoccupato per i primi minuti. Non sapevo come avrei reagito in campo, come sarebbe stato il toccare un ovale sotto pressione dopo tutto questo tempo. Come sarebbe stato andare a contatto con l’avversario, come sarebbe stato passare la palla a compagni con cui non avevo mai giocato e dopo tutto quel che mi era successo. L’adrenalina però, il sostegno di tutti e una sorta di “richiamo della foresta” ovale, un essere già stato in queste dimensioni, in questi panni, mi hanno aiutato parecchio. Segno due mete, una con una cavalcata di una cinquantina di metri. I calci entrano, l’occhio e gli occhiali non mi danno mai fastidio. Vinciamo 65 a 5, ma la cosa che mi attira di più non è il tabellone. È mia madre, felice e sorridente, sotto la pioggia. Si è fatta duemila e passa chilometri per vedermi giocare e non credo che in questo momento stia rimpiangendo le tribune di Dublino. Sono le mie gambe, soddisfatte per aver corso a ritmi che non ricordavano da un po’. Certo, la difesa è da testare ancora, ho dovuto fare un solo placcaggio in tutto l’incontro, ma oggi questo non conta. E non conta neppure il terzo tempo, che questa volta salto a piedi pari. Sono stanco, anche se le gambe avrebbero voglia di sgranchirsi ancora. L’adrenalina del debutto, però, ha fatto il suo corso e mi ha prosciugato le energie. Ho solamente voglia di stendermi a letto e di ricordare una delle giornate più belle della mia vita. La giornata in cui ho capito che il rugby mi ha dato una seconda possibilità. Distante da casa, apparentemente distante dagli affetti, distante ma non distantissimo da quelle notti insonni tra botte e lividi. Felice di poter riposare sapendo che il rugby nella mia vita, da adesso in poi, non sarà più una giornata di pioggia.

Io, Ian

Dragoni senza fiato

Piovono sassi dalle tribune.

Qualche ragazzino, forse, o comunque qualcuno che l’educazione l’ha dimenticata a casa. Se però chiedete a qualcuno dei ragazzi in campo quel giorno con la maglia rossa,ecco,  probabilmente vi verrà detto che le botte più brutte quel giorno non arrivarono da chi stava comodamente seduto a “godersi” lo spettacolo. A dire la verità, forse, vi diranno che quel giorno non lo dimenticheranno nel giro di poche ore o pochi giorni, vero, ma che in fin dei conti quegli ottanta minuti erano stati solamente l’ultimo inciampo di un tour devastante, la diretta conseguenza di alcuni mesi bui. Chi però è abituato a maneggiare i numeri vi dirà che il 27 giugno del 1998 a Pretoria il Galles è entrato ufficialmente dalla parte sbagliata dei record ovali. Il punteggio è enorme, devastante, ma in pochi riuscirono veramente a stupirsi di quel che era successo. Altri dissero che quello era un classico caso di cronaca di una morte (sportiva) annunciata, perché quella Nazionale gallese era entrata in una terra di nessuno fatta di traghettatori, ammutinamenti e di ragazzi mandati allo sbaraglio.

Prendete il Cinque Nazioni di quell’anno, per esempio. Arrivano due vittorie risicate contro Irlanda e Scozia e due sconfitte pesanti contro Inghilterra e Francia. Quest’ultima, un 51 a 0 a Wembley, sancisce l’allontanamento dalla panchina di Kevin Bowring, ex allenatore delle nazionali giovanili gallesi. Non è un gran segnale, se alla Coppa del Mondo manca poco più di un anno. L’alternativa più immediata, proposta dal direttore tecnico Terry Cobner, vede in pole position Mike Ruddock, allenatore di Leinster. Non è di questo avviso Vernon Pugh, allora presidente della federazione, che ha già deciso che il suo nuovo selezionatore sarà l’allenatore degli Auckland Blues, Graham Henry.

Eh, colpetto mica da ridere, e infatti Pugh avrà ragione su tantissimi fronti. Già, ma c’è un problema: il neozelandese deve concludere la stagione nell’emisfero sud e non sarà disponibile prima di settembre.

E allora il tour africano lo dovrà condurre qualcun altro.

Viene scelto Dennis John, allenatore di Pontypridd, che avrà il poco ambito compito di rinserrare le file e di portare tra Zimbabwe e Sudafrica la miglior Nazionale possibile. Cosa non facile, se prima della partenza da Cardiff si conteranno già diciotto defezioni, tra cui alcuni tra i giocatori più rappresentativi. John deve fare di fatto le nozze coi fichi secchi, ma la rosa non è malvagia: il capitano sarà Rob Howley, con lui ci saranno alcuni veterani come Griffiths, Wayne Proctor Garin Jenkins, Scott Quinnell e Colin Charvis e altri giovinastri di sicuro avvenire: Stephen Jones, Martyn Williams e Ian Gough. I gallesi vincono senza grossi problemi contro lo Zimbabwe, poi però iniziano i problemi: alcuni incontri con le province sudafricane si rivelano più difficili e insidiosi del previsto, sia per quel che riguarda i risultati (arriveranno solamente sconfitte), sia per quel che riguarda gli infortuni. Viene messo fuori combattimento anche Howley, John è costretto a richiamare Kingsley Jones, in quel momento in vacanza in Nuova Zelanda, e affidargli la fascia di capitano. Altri giocatori saranno chiamati a partire dal Galles a meno di due giorni dall’ultimo match, quello contro gli Springboks, placcati di fatto in aeroporto e condotti in fretta e furia praticamente in spogliatoio. Senza contare l’aspetto logistico del tour: dimenticate le comodità e le comunicazioni del 2020, nel 1998 si viaggia per lo più in pullman. Per ore. Tra un hotel scalcinato e l’altro, valigie sempre in mano e scaricate sempre a mano dallo staff. È dura, durissima mantenere la concentrazione ed evitare problemi fisici.

Fino all’ultima tappa del viaggio. Pretoria, 27 giugno 1998, stadio Loftus Versfeld, si chiude contro gli Springboks, che hanno da poco promosso ad allenatore l’assistant coach di Carel du Plessis, Nick Mallett. È la squadra che arriverà a vincere diciassette partite consecutive, comprensive di un Tri Nations e di vari filotti di punti, soprattutto in Europa. Ci sono dei fenomeni assoluti come Montgomery, Joost van der Westhuizen, Honiball, Skinstad, capitan Teichmann, Franco Smith, Terblanche. Gente già in palla e che non avrebbe bisogno di grossi stimoli per aver ragione di quel Galles, ma che scende in campo come se davanti ci fossero i più forti All Blacks di sempre. I gallesi ci provano, perché un gallese non si arrende nemmeno al terzo gallone, quando la gravità diventa un’opinione. La partita di fatto dura dieci minuti, poi gli Springboks accelerano. Segnano quattro mete nel primo tempo, altrettante nei primi dieci della ripresa. Piovono sassi dalle tribune, sassi che fanno meno male delle botte prese in campo. Il Galles ha un sussulto di smisurato orgoglio e segna con Arwel Thomas, poi torna a grandinare. Perché gli infortuni e le defezioni hanno costretto John a convocare man mano ragazzi che conoscono sempre meno i sistemi difensivi di squadra. Per dirne uno, negli ultimi trenta minuti giocherà Darrill Williams, ala che a LLanelli in tutta la stagione aveva collezionato la bellezza di cinque minuti. Sono tosti, però, forse troppo, perché ad ogni meta subita vogliono ripartire velocemente, come se nulla stesse succedendo, tanto che capitan Jones, ad un certo punto, sgriderà tutti quelli che gli arriveranno vicino. Andate piano, cazzo, almeno quello.

Arriveranno in totale quindici mete sudafricane. L’onta dei cento punti non arriverà solamente perché Drotske, mitologico tallonatore dei Cheetahs, sbaglierà completamente un passaggio all’esterno vanificando clamorosamente un quattro contro uno che difficilmente avrebbe fatto prigionieri. Nick Mallett, famosissimo come allenatore, meno come diplomatico, dirà di non aver mai affrontato una squadra più debole di quel Galles. Poco  sarebbe cambiato, secondo lui, se fosse arrivata la squadra titolare, forse una trentina di punti in meno.

Sorprenderà tutti, invece, Dennis John. Il traghettatore ha fatto il suo, ha preso un gruppo disgregato e di cilindrata forzatamente inferiore e l’ha portato a perdere in Sudafrica. A fine estate arriverà Graham Henry, che presto verrà affiancato dall’ex assistant coach dei Crusaders, Steve Hansen, il suo compito è finito, le valigie per tornare a Pontypridd sono già pronte. In sala stampa però lascerà la gente a bocca aperta dicendo che sì, alla fine ne è valsa la pena. E che i ragazzi che stanno per diventare titolari entro un anno batteranno quegli stessi Springboks. Avrà ragione lui, perché nel giorno della riapertura del Millennium Stadium i sudafricani si arrenderanno al piede di Jenkins e alle corse di Gareth Thomas, professione postino, che di lì a poco prenderà in mano e per mano la linea dei trequarti gallesi, che nel nuovo millennio risplenderà di nuova luce.

Nick Mallett, invece, verrà smentito due volte. Capita, quando attacchi la linea con troppa veemenza. Quel giorno a Cardiff, in primis. E qualche settimana, nel giugno di Pretoria, quando dovrà aggiornare la sua personale classifica di squadra più debole mai affrontata.

Ma questa è un’altra storia.

Dragoni senza fiato

Senza domani

Una doccia gelata.

Questo deve’essere stato l’effetto di quel comunicato della Federazione. Poche righe, due significati. Il primo: è stata infranta una regola sull’utilizzo dei giocatori extracomunitari. Il secondo, quello peggiore, quello che lascia veramente il segno: la classifica è compromessa. Ampiamente compromessa, se è vero che a otto giornate dal termine la Lazio ha sette punti di ritardo dai penultimi, i ragazzi del Valsugana, e undici dal Verona, squadra al momento salva e che ha appena beneficiato della sconfitta a tavolino laziale, avvenuta al termine dello scontro diretto.

E, cosa da non sottovalutare, squadra che sembra aver trovato il bandolo della matassa dopo un inizio di torneo all’insegna dei peccati di gioventù. No, non è facile.

Però si ritrovano tutti all’Acqua Acetosa, quel giorno.

Ci si guarda tutti in faccia, ci si parla, ci si confronta.

Chi non ci crede è libero di andarsene.

Non se ne va nessuno, restano tutti.

Se retrocessione deve essere, che lo sia senza rimpianti.

La Lazio si salva qui, ma ancora non lo sa.

O forse lo sa, certo che lo sa, ma non lo sa l’aritmetica.

C’è sempre un gusto particolare, quando si frega l’aritmetica.

Inizia una corsa contro il tempo. La rosa della Lazio non è eterna come quella delle grandi, non ha le risorse economiche di un Calvisano, né la piazza è più abituata alla lotta per i piani alti come Petrarca e Rovigo. Il cuore, però, non ha nulla da invidiare a quello di tutti gli altri. La squadra si ricompone, getta il cuore oltre l’ostacolo, ma a tre giornate dal termine ha ancora nove punti da recuperare al Verona e cinque al Valsugana. Su ventuno partite sono arrivate solamente tre vittorie, pochissime per scacciare tutti gli spettri e per non chiedersi, almeno una volta, almeno in silenzio, chi ce lo fa fare.

È una corsa disperata.

Non tanto per i punti da recuperare, quanto perché non potrà dipendere tutto da quel che succede quando in campo ci sono i colori biancocelesti. Prendete la terz’ultima giornata, per esempio. La Lazio espugna Firenze e si prende pure il punto di bonus offensivo, ma Verona vince in rimonta su Valsugana, i punti dalla salvezza restano otto. Poi prendete il derby, al Giulio Onesti arrivano le Fiamme Oro, squadra che all’alba del torneo sembrava in grado di poter bissare i playoff dell’anno precedente, ma che poi ha dovuto arrendersi alla voglia e alla grinta del Valorugby. È durissima contro i cremisi, a venti dal termine la Lazio è sotto per 31 a 17 e da Verona non arrivano grandi notizie, visto che gli scaligeri, pur perdendo, hanno segnato quattro mete a Rovigo. Sarebbe retrocessione aritmetica, senza se e senza ma. Solo che certe volte il pallone rimbalza strano, e allora Ercolani riporta sotto i suoi. Poi Bruno schiaccia in meta al settimo minuto di recupero e firma il sorpasso. Ancora quattro punti di distacco, mancano ottanta minuti alla fine. La Lazio va a Padova, bisogna battere il già retrocesso Valsugana. Arrivano cinque mete, ma l’attenzione va a Viadana, visto che il Verona è in vantaggio ad un quarto d’ora dal termine. Poi però arriva la meta di Pavan, e allora la classifica dice Lazio 30 punti, Verona 30 punti.

Spareggio.

E si riparte da quella quattordicesima giornata, da quella penalizzazione.

Da quel maledetto pomeriggio che avrebbe potuto mettere la parola fine alla lotta molto prima dei titoli di coda.

Di nuovo Verona, un’altra Verona.

No, gli scaligeri non sono più la squadra di inizio stagione. Sono più maturi, più squadra rispetto al composto poco amalgamato che aveva iniziato la stagione. Era del tutto preventivabile un inizio così, a dirla tutta. Perché sì, non è male mettere in campo gente che ha giocato in Pro12, in Nazionale Italiana, in Currie Cup o comunque di solito abituati a ben altri lidi del campionato italiano. Non è male avere un progetto importante alle spalle e un nuovo impianto di gioco.

Solo che per mettere insieme una squadra ci vuole del tempo, non bastano i curricula. Non basta avere un mediano di apertura già titolare con la maglia di Ulster, James McKinney, non basta Lorenzo Cittadini in prima linea, non bastano i tanti mestieranti di buon livello ingaggiati (Mortali, Bernini, Buondonno tra tutti). La squadra fatica, cambia allenatore in corsa, appare in molte occasioni slegata, poco corale, ma a due giornate dal termine le bastano due punti per salvarsi.

Per essere sicuri al cento per cento sarebbe meglio tre, ma quale squadra intrappolata in quelle zone limacciose della classifica può riuscire a mettere in saccoccia tutti i punti possibili?

La Lazio, appunto. Quindici punti su quindici a disposizione. Un allenatore, Daniele Montella, che prima di sedersi in panchina ha portato a spasso la maglia biancoceleste per un bel po’, e che quindi sa toccare le corde giuste in uno spogliatoio che avrebbe, ad un certo punto della stagione, tutte le ragioni e le scusanti per saltare in aria. Una squadra compatta e coraggiosa, che non gioca quasi mai a chi ne prende meno. Una rosa con minore qualità rispetto a quella avversaria, ma guai a pensare di aver già lo scalpo laziale in tasca. Per referenze chiedere al Petrarca, costretto ad andare per i pali a tempo quasi scaduto per portare a casa una partita ormai data per vinta già da molti minuti. O al Viadana, domato in rimonta. O alle stesse Fiamme Oro, che non hanno ancora capito cos’è successo negli ultimi venti minuti all’Onesti.

La Federazione decide che l’ultimo atto, quello decisivo, si deve giocare sul campo neutro di Padova.

Che, se proprio non avevate 2 in geografia, non è poi un campo così neutro.

Ma sono in tanti ad arrivare da Roma per sperare che il Santo stenda la sua mano su quel pezzo di periferia in cui sorge il Plebiscito.

La partita non è bella, difficilmente una partita così decisiva riesce ad essere anche bella. Le due squadre hanno qualche limite tecnico-tattico, dopo qualche fase le mini-unit si sfaldano, gli ovali scivolano a terra, i ventagli dei trequarti dopo qualche azione sono solamente un ricordo. Passa il Verona con un calcio di Mortali, replica subito Bonifazi. Le fasi statiche vedono un lieve vantaggio dei veneti, ma la Lazio risponde mettendo in maul pure l’estremo e i centri, con Buondonno che deve fare un miracolo per evitare che gli avversari vadano oltre. Il biondo ex giocatore della Benetton non può nulla qualche minuto dopo: fase su fase nei 22 veronesi, poi palla a Ceballos. Il numero 10 argentino attacca la linea e serve Guardiano, che si butta nell’intervallo e va oltre, 10 a 3. I tifosi laziali presenti allo stadio si fanno sentire forte, il Verona sembra accusare il colpo. Hanno battuto la Lazio due volte su due in campionato, ma oggi sembra mancare il centesimo per fare l’euro: i possessi ci sono, ma vengono sprecati appena si avvicinano alla linea di meta: vuoi perché qualcuno comincia a sentire il peso del match, vuoi perché la difesa della Lazio si attacca a tutto il mestiere del mondo.

Talmente tanto che arriva anche il cartellino giallo, ma il Verona non ne approfitta.

La ripresa non è che la fotocopia del finale del primo tempo: il Verona prende in mano il pallino del gioco, la Lazio soffre e riparte. Gli scaligeri, però, riescono ad andare in meta: Mortali spreca un tre contro uno, ma Pavan riceve palla, finta e schiaccia vicino alla bandierina. Sembra l’inizio della rimonta, ma la partita vive alcune fasi di stallo: Bonifazi allunga dalla piazzola, Mortali risponde. I cambi sembrano favorire i veneti, più lunghi in alcuni ruoli, ma Grant Doorey, che faceva parte dello staff di Kirwan in Nazionale e che ha sostituito Zanichelli in panchina a stagione in corso, decide di cambiare i piloni poco prima di una mischia poco fuori dai 22 laziali. Non è una gran decisione, visto che la mischia laziale arrota quella avversaria e fa rifiatare i suoi. Manca ancora tanto alla fine, la lucidità comincia a latitare da entrambe le parti. È come quando nei grandi giri ciclistici si deve affrontare una cronometro. Quella crono dovrebbe vedere favorito chi sa far andare le gambe contro l’orologio, ma non sempre va così. Spesso quelle gare le vince chi ne ha di più, non chi ha il blasone, e tra le due squadre in campo non è il Verona ad averne di più.

Sul terreno del Plebiscito ci sono due pugili sfatti di fatica e botte, ma che non hanno ancora abbandonato la voglia di rimanere nella massima serie e di ripetere questo esercizio di fatica per altri anni a venire.

Gli ultimi dieci minuti sono agonici. Si gioca poco, nessuno vuole veramente rischiare di perdere palloni sanguinosi. Il Verona si getta ancora in avanti, Mitrea allarga il braccio dopo un paio di difese che non troverete in alcun manuale del rugby. Mortali dalla piazzola non sbaglia, è sorpasso.

Una doccia gelata. Quasi come quel comunicato che sapeva tanto di condanna. E, cosa da non sottovalutare, contro una squadra che ha trovato il bandolo della matassa dopo un inizio di partita all’insegna dei peccati di gioventù. No, non è facile ora.

Non è facile perché quei quindici punti su quindici nelle ultime tre giornate, quel ritrovo all’Acquacetosa da cui nessuno si tirò indietro, quegli ultimi venti minuti del derby rischiano di finire ben riposti nel dimenticatoio. No, non può finire così.

E infatti la Lazio riparte. Fa una fatica dannata, quei raggruppamenti sono struggenti e devastanti, i palloni sono lenti, ma Verona fa fallo a metà campo. Fanno quasi 55 metri di calcio, Bonifazi si consulta e sceglie la touche. Manca poco, pochissimo. Il calcio è lungo, sembra uscire all’altezza dei cinque metri, ma Mortali lo abbranca a pochi centimetri dalla linea. L’estremo veneto può calciare tranquillamente dall’altra parte di Padova, è salito un solo avversario e non è nemmeno così vicino. Si prende tutto il tempo, ma il pallone prende in pieno la punta e vira, bassissimo, verso metà campo. Lo cattura Ceballos a metà campo.

E si riparte, centimetro su centimetro. Raggruppamento su raggruppamento.

Verona rallenta bene i palloni, ma poi Greeff, professione pilone di riserva, fa l’unica cosa che non deve fare.

Quella è una ruck destinata al tenuto, è un pallone che, nel giro di qualche secondo potrebbe tornare in mano ai veneti. Greeff, però, tenta di pulire entrando lateralmente. Mitrea, professione arbitro, fischia.

Linea dei dieci metri. E Bonifazi questa volta chiama i pali.

Dentro, controsorpasso.

I tifosi della Lazio piantano giù un casino che sembra siano dieci volte di più di quelli assiepati in tribuna.

La partita finisce praticamente qui.

Giocatori e allenatore si abbracciano in mezzo al campo. Forse, un giorno, ricorderanno quel campo neutro che neutro del tutto non era. Quel comunicato che sembrava la pietra tombale di una stagione nata male e proseguita peggio. O di quel gruppo che, all’Acquacetosa, si decise a chiudere la stagione senza rimpianti di sorta.

Si diranno che forse, quella stagione 2018-2019, non è finita proprio così.

Che non può essere andata veramente in quel modo.

Chi non ci crede è libero di andarsene.

Noi rimaniamo.

Senza domani

Vittoria

La principessa Anna d’Inghilterra non è donna di grandi sorrisi, né di grandi slanci di euforia. Ogni tanto riserva qualche occhiata di approvazione ai suoi, ai ragazzi della Nazionale scozzese, altre volte applaude. Stavolta però, forse,  non si aspettava di rimanere così irrigidita nel tiepido inverno romano. Non così a lungo, almeno. Prevedeva, forse, di dover soffrire un po’, perché magari gli avversari avrebbero venduto cara la pelle nel loro storico debutto, ma che poi tutto sarebbe andato per il meglio, tutto si sarebbe concluso con una vittoria e qualche pacca sulle spalle dei giocatori sconfitti.

Poche emozioni visibili, ma cavolo, almeno quelle!

No, non si scioglierà, la principessa, nel febbraio italiano. Non lo farà perché per la sua Scozia l’inverno proseguirà ancora per un po’, placcata non tanto dalle basse temperature (non paragonabili comunque con quelle delle Highlands) quanto da un manipolo di giocatori deciso a tornare, almeno per un pomeriggio, a rinverdire fasti che solo qualche mese prima sembravano non più raggiungibili.

Perché gli azzurri hanno interrotto di fatto le comunicazioni nel novembre del 1998 ad Huddersfield, ultima grande recita dei ragazzi di Coste, per poi lasciarsi andare per tutto il 1999, vero annus horribilis della nostra Nazionale. Un anno veramente devastante, iniziato con la morte di Ivan Francescato e finito con la peggior Coppa del Mondo mai disputata, passando per una serie di disfatte memorabili come il 101 a 0 subito in Sudafrica – ultimo atto di Georges Coste in panchina – al 101 a 3 subito dagli All Blacks in Inghilterra. Siamo allo sbando, più dal punto di vista mentale che da quello fisico. E non è un bel momento per crollare così, visto che il Sei Nazioni è alle porte e non ammette ritardi e/o controprestazioni. Massimo Mascioletti, vice di Georges Coste, non viene confermato. La Federazione si muove alla velocità della luce ed ingaggia Brad Johnstone, ex pilone degli All Blacks, che ha pilotato molto bene le Fiji alla Coppa del Mondo. Johnstone chiede e ottiene lo staff che lo aveva accompagnato a North Shore, nel campionato provinciale neozelandese, ossia Mark Harvey e Matt Vaea, quest’ultimo già in Italia sulla panchina del Rovato. Il coach neozelandese mette subito sotto gli azzurri, il tempo è poco e il lavoro da fare – soprattutto quello fisico – è tanto. Predispone una serie di allenamenti massacranti in quel di Tirrenia, coi giocatori che non hanno nemmeno il tempo di recuperare dagli impegni dei campionati che si ritrovano a dover ancora buttar fuori l’anima. I ragazzi visionati sono tanti: tornano i fratelli Cuttitta (anche se Marcello rinuncerà per impegni lavorativi), cominciano a farsi vedere i fratelli Manuel e Denis Dallan, messisi in luce a Treviso come Andrea Gritti, seconda linea che aveva già ottenuto un cap nel 1996, che aveva partecipato alle qualificazioni alla Coppa del Mondo senza che però fosse assegnato il cap. Johnstone non guarda solamente ai campionati italiani. Viene a sapere, per esempio, che nei London Irish gioca un centro genovese, padrone di una discreta carriera in serie B, emigrato per studiare e ben presto ritrovatosi in prima squadra in seguito a una serie di assenze e defezioni. Verrà convocato praticamente all’istante e inserito subito tra i 22 a referto.

Mettiamola da parte per un attimo questa, che ci tornerà utile più avanti.

Presentarsi a puntino, però, non è semplice. Il tempo è veramente poco e bisogna oliare alcuni meccanismi. La Federazione riesce ad organizzare in tempi record un test match a Livorno contro la Georgia, che non è nemmeno parente dei feroci Lelos di questi ultimi anni, ma che presenta vari elementi di stanza nei campionati francesi. Vinciamo 51 a 7 senza mai patire più di tanto. La vittoria rinsalda gli animi, si può affrontare la Scozia con maggiore serenità. Anche perché gli scozzesi di Ian McGeechan, monumento delle panchine scozzesi e britanniche, non arriva in Italia al meglio delle sue possibilità. Per dirne una, il capitano John Leslie non gioca da ottobre e non ha ancora recuperato pienamente da un infortunio, ma a Roma ci sarà. La sua convocazione è talmente sorprendente che il già programmato viaggio di nozze verrà recuperato proprio in Italia dopo la partita. Grossi dubbi li solleva anche Kenny Logan, che è un neozelandese, ala e calciatore dei London Wasps. Sono parecchi i neozelandesi nelle file scozzesi. Logan a detta di alcuni addetti ai lavori ha la catena giù, non è più tranquillo. Anche il piede è meno preciso di qualche mese prima, e quindi in settimana viene visto allenarsi molto più del solito nel fondamentale Greg Townsend, professione mediano di apertura. Che dalla piazzola non è e non sarà mai Jonny Wilkinson, ma che a livello di materia grigia ha ben poco da invidiare ai grandi interpreti suoi contemporani. Viene invece completamente ignorato un giovinastro di ventidue anni, tale Chris Paterson, in grado di giocare in tutti i ruoli dei trequarti a Edimburgo e che, da lì a qualche tempo, ci farà piangere in diverse occasioni.

Gli ultimi giorni di allenamento, però, ci tarpano le ali. Nel vero senso della parola, se è vero che Francesio e Vaccari si bloccano a poche ore dal match. Johnstone è quindi costretto a ridisegnare il triangolo allargato, con Stoica che si sposta all’ala e con i fratelli Dallan titolari, Manuel a centro insieme a Luca Martin e Denis all’ala. Dietro vigila Matt Pini, già nazionale australiano nel 1995, poi naturalizzato grazie a norme internazionali particolarmente allegre. In terza torna Mauro Bergamasco, al rientro dopo essere stato messo fuori combattimento dagli inglesi alla Coppa del Mondo, con lui Massimo Giovanelli e Wim Visser a numero 8, Gritti e Checchinato in seconda, Tino Paoletti e Massimo Cuttitta piloni e Moscardi tallonatore. In mediana una coppia di marziani, Troncon e Dominguez, chiamati tra i primi a dare l’esempio dopo una stagione particolarmente disastrosa.

Il Flaminio, stadio prescelto dalla Federazione per l’evento, sembra si trovi ad Edimburgo. Non tanto per il poco calore dei tifosi italiani – ancora scettici, a dirla tutta – quanto perché cornamusa e kilt sono veramente tanti. Flower of Scotland è un tripudio di brividi, Fratelli d’Italia un po’ ci ridesta ma sembra un brodino.

Poi si comincia.

Gli scozzesi vogliono alzare subito la voce: Townsend distribuisce gemme preziose per i suoi trequarti, l’estremo Metcalfe (anche lui neozelandese) ha tempi di inserimento che ci mettono in difficoltà, noi cominciamo ad essere fallosi. Logan, però, non ci punisce, sbagliando almeno due calci alla sua portata. A sbloccare il punteggio è Townsend con un drop di pregevole fattura.

Noi, in qualche modo, cresciamo.

E ci rendiamo conto che la nostra mischia è più forte e che in touche, anche grazie ad uno straripante Gritti, non soffriamo quanto si prevedeva alla vigilia. Dominguez sfrutta questa superiorità con due calci tra i pali, più uno, il primo, corto di poco (aveva calciato da quasi sessanta metri). Si può fare, anche perché a livello mentale non sembriamo minimamente l’accozzaglia di giocatori apparsa qualche tempo prima in azzurro: Giovanelli e Cuttitta sono due autentici capibranco, Checchinato dà l’esempio, Bergamasco sembra sia lì da una decina di anni per quanto è competente. Gli scozzesi, tanto baldanzosi nei primi minuti, capiscono ben presto che contro dei fondamentali così e senza un calciatore in giornata dignitosa diventa veramente durissima. Il pallone, però, è ovale, e non è semplice capirne i rimbalzi. Townsend trova un bel varco e serve Metcalfe. Lo placchiamo in tre, all’estremo scappa addirittura in avanti. Gli azzurri hanno un attimo di smarrimento, stanno aspettando un fischio arbitrale che a velocità normale sembra sacrosanto. Non arriverà mai. Il pallone rimbalza placido nei nostri 22, lo insegue solamente Bulloch il tallonatore, scozzese nato da genitori australiani, che lo scalcia e lo schiaccia in mezzo ai pali. Meta. Regolare per giunta, perché Metcalfe, a contatto coi suoi placcatori, ha involontariamente toccato il pallone con la tibia.

È una botta mica da ridere, perché se la prendi quando tutto sta girando per bene rischi di rimanerci sotto. E noi storicamente siamo molto bravi a rimanerci sotto.

Solo che stavolta non perdiamo né calma, né ferocia nei raggruppamenti. E alla prima occasione sorpassiamo di nuovo con altri due calci di Diego, con gli scozzesi a non capirci ancora nulla nei raggruppamenti e con molta meno veemenza in corpo rispetto ai primi minuti.

Mica se l’aspettavano così, la prima Italia dei Sei Nazioni.

E mica riescono a cambiare marcia, anche perché l’Italia comincia ad adottare una tattica tanto semplice quanto efficace: vende di fatto la sua metà campo, ricacciando ripetutamente gli scozzesi nei loro 22 e regalando loro pure un bel po’ di pressione. Ma siccome i due punti di vantaggio con cui eravamo andati al riposo sono tesoro troppo striminzito da portare in volata, ecco che la mediana di marziani che ci ritroviamo comincia a raccogliere quanto seminato: per due volte Troncon raccoglie palloni puliti, per due volte Diego glieli chiama.

E dare a Diego Dominguez anche il beneficio di una mischia avanzante non è cosa, se ci giochi contro.

Due drop, sei punti nel giro di cinque minuti.

Il Flaminio comincia a capire che quelli lì, quelli che si sono ricordati kilt e cornamuse, ma che si sono dimenticati a casa il sorriso della principessa Anna, dovranno affidarsi a ben altro che ai loro William Wallace per portare a casa la partita.

Perché lì davanti, tra gli italiani, nessuno cede. Tutti vogliono avanzare, mettere in croce l’avversario, buttarsi in ogni singola guerriglia urbana per portarsi a casa o tenersi  il pallone. Alessandro Troncon, che di questa Nazionale è il nuovo capitano, dà l’esempio e si butta nella lotta tanto quanto i suoi compagni di mischia. Vuole essere degno erede di Massimo Giovanelli, che ha abdicato e si sta godendo gli ultimi pomeriggi da leone azzurro in mischia. Non ha più la freschezza fisica dei giorni migliori, ma è sempre e comunque al posto giusto, sempre al servizio di compagni che per uno così darebbero pure qualche osso. Arriva un altro calcio di Dominguez, poi risponde Townsend.

Il 21 a 13 non ci mette al riparo dal ritorno avversario, anche perché la panchina scozzese è qualitativamente più lunga della nostra. E per quanto siamo letteralmente attaccati al match, qualche sfilacciamento si comincia a vedere. Il primo a infilarsi nel buco è Metcalfe, che però si trova improvvisamente a terra, gambe all’aria, come se avesse sbattuto contro un muro. Gli capiterà ancora un paio di volte, in altre zone del campo, ma sempre addosso allo stesso muro, composto di mattoni genovesi e londinesi. Si chiama Marco Rivaro, il rumore sordo del suo primo placcaggio all’estremo scozzese finirà registrato anche dai microfoni di bordo campo.

E appena andiamo di là, Dominguez dà l’ennesimo colpo di pennello ai suoi girasoli.

Altro drop, il terzo, record del Torneo eguagliato nei suoi primi ottanta minuti.

Il Flaminio alza la voce. Perché i calci fanno vincere le partite, ma le mete sono quei frangenti che ti ricordi sempre volentieri. Non ci va troppo distante Gritti, che intercetta un calcio scozzese ma che non riesce a calciare in avanti l’ovale. Ci ritorneremo presto da quelle parti, complice un altro placcaggio pesantissimo di Rivaro e una presa difettosa di Logan, che forse il 5 febbraio del 2000 avrebbe fatto meglio a fare altro. Dominguez va vicinissimo a segnare, fintando e rientrando due volte nella giungla scozzese dei cinque metri, ma viene tenuto alto. È questione di minuti, poi viene servito Giampiero De Carli. È entrato nel secondo tempo al posto di Paoletti ed è un pilone che sarebbe moderno ora: tiene bene in mischia, ma è fuori che è incontenibile. I gallesi dell’Aberhavon si chiedono ancora chi fosse quello lì, quello vestito da pilone, che aveva segnato loro due mete scattando secco ed eludendo il ritorno di giocatori che sulla carta avrebbero dovuto sverniciarlo senza grossi problemi. Perché quello era vestito da pilone, non poteva essere realmente un uomo di prima linea. Ciccio riceve il pallone da Moscardi e prende l’abbrivio, non lo possono fermare nemmeno pregando.

Viene giù praticamente tutto, l’Italia mette la parola “fine” all’incontro. Perché, è vero, Leslie indorerà la pillola con la seconda meta scozzese, ma nessuno può più avere il tempo di riportarci a terra, almeno per ora. Il 34 a 20 finale ci porta in trionfo in una Roma più azzurra che mai, cosa inaspettata appena un paio di ore prima. Merito di una squadra rocciosa, con tanti interpreti che avevano voglia di cancellare la peggiore annata ovale della loro vita e di qualche giocatore alle ultime recite in azzurro, come Giovanelli, costretto al ritiro dal rugby internazionale dopo un duro colpo negli ultimi istanti di partita. Merito di Brad Johnstone, che non indovinerà più tante mosse da qui al suo esonero, ma che ha saputo dare una bella scrollata ad un gruppo sì talentuoso, ma ancora alla ricerca di qualcosa che non aveva trovato.

Non lo troveremo così in fretta, quel qualcosa.

Sarà una ricerca difficile, con qualche nota alta e altre note basse, tra qualche sabato pomeriggio che si rivelerà improvvisamente più glaciale di quanto potesse realmente sembrare.

Più o meno come è successo ad Anna e al suo sorriso.

Anche lei lo ritroverà, prima o poi.

Vittoria

Oltre la linea

Avete mai creduto nelle seconde possibilità? Vi è mai successo di essere arrivati vicini ad un vostro personale traguardo e di esservi fermati lì, raggiunti e sorpassati da gente che nelle graduatorie stava dietro di voi?

A me è successo. Mi chiamo Juan Grobler, sono nato in Sudafrica nel 1973 e ad un certo punto ho giocato alla famosa Craven Week. Se non sapete cos’è, la Craven Week è una sorta di mondiale giovanile di rugby per club. Tantissimi dei campioni che vi piacciono o che vedete allo stadio oppure davanti allo schermo sono passati di là. Venni convocato da Eastern Province, ero forte, ben sviluppato. Un bel centro sudafricano della tradizione. Buon placcatore, bel senso della posizione, ottimo impatto, dicevano.

Ero lì, a poco dal trampolino, ma non mi tuffai. Perché di lì a poco, dissero, la mia maturazione era già terminata. Ero destinato a diventare uno dei tanti, uno di quelli che sì, certo, può provarci nelle categorie inferiori, ma poco di più. Magari una panchina di qualche club importante, magari in qualche gruppo allargato se proprio ti va di lusso. Ma niente di più.

Non in Sudafrica, almeno, Paese in cui i centri con le mie caratteristiche nascono come funghi. E allora, su consiglio di uno dei miei vecchi allenatori, nel 1994 me ne andai negli Stati Uniti. Non solo per il rugby, ovviamente, più che altro perché il rugby professionistico nel paese della torta di mele era ancora cosa molto difficile da concepire. Comincio a giocare con i Denver Barbarians, poi passo agli Aspen Gentlemen, altra squadra del Colorado. Nel 1996 debutto con la Nazionale Americana. Il gruppo è molto eterogeneo, ci sono parecchi naturalizzati (io e Dalzell siamo sudafricani, così come coach Viljoen) e tanti giovani. Fisicamente non abbiamo nulla da invidiare a nessuno, lo sport qui viene preso molto sul serio e le scuole sfornano ogni anno generazioni di sportivi fatti e finiti, ma mischie e touche non si mettono a posto solamente con i muscoli, ci vogliono tempo, storia, tradizione e pazienza. Un giorno forse ce la faremo, per ora sopperiamo con quello che possiamo.

Riusciamo a qualificarci per la Coppa del Mondo del 1999 e finiamo in girone con Australia, Irlanda e Romania. Puntiamo a vincere contro quest’ultimi, è la squadra che più si avvicina al nostro livello. Anche perché gli irlandesi, al debutto, ci fanno capire che per noi la strada è ancora lunga, finisce 53 a 8, per noi segna Dalzell, che è anche il piazzatore. La corsa agli “armamenti”, ossia la ricerca di qualche giocatore di livello che avesse qualche relazione col Paese,  gli ha affiancato in mediana David Niu, un australiano che ha giocato anche nel League e che nel 1987 arrivò ad un passo dal giocare la prima Coppa del Mondo della storia ovale. David è arrivato in America per amore, dopo aver incontrato la sua attuale moglie, una hawaiana, in aeroporto. È un giocatore completo, ci dà avanzamento e alcune sue giocate ci permettono di essere più pericolosi. Il nostro giocatore più forte però è una seconda linea, Luke Gross. Enorme, instancabile, farà una bella carriera in Europa. Solo che contro i romeni caliamo alla distanza e perdiamo di due punti, con Dalzell che fallisce la trasformazione del pareggio a due dal termine. Ventisette a venticinque, eravamo stati in vantaggio anche di dodici punti.

Ci resta l’Australia, una delle squadre favorite per la vittoria finale. Non hanno concesso alcuna meta né ai romeni, né agli irlandesi, ma contro di noi lasciano a riposo molti dei loro campioni. Intendiamoci, non abbiamo alcuna possibilità di restare minimamente in partita, ma nessuno di noi parte già sconfitto. Ci mettiamo tutto: anima, muscoli, cuore. A fine primo tempo siamo sotto 17 a 3, che non è neppure un brutto punteggio, e guadagniamo una touche sulla linea dei loro 22. Dalzell e Niu ci portano in avanzamento, vinciamo un paio di collisioni. Gli australiani resistono, faticano ma resistono. Hanno ingaggiato da un anno Joe Nuggleton, ex giocatore di rugby League, che ha insegnato ai Wallabies a difendere come nell’altro codice. È uno dei primi al mondo a fare questo passo, e i suoi uomini ne traggono tutti i benefici del mondo.

Solo che Dalzell, questa volta, è più veloce di loro. Palla fuori a Niu, poi a me. Il tempismo della nostra mediana ha bloccato le gambe di Staniforth, ala avversaria al debutto, io corro nell’intervallo. Corro e seguo la prima e utilissima regola del rugby: se non conosci la velocità del tuo avversario, corri in bandiera. Staniforth si avvicina, ma non mi prende mai, schiaccio in meta.

Avete mai creduto nelle seconde possibilità? Vi è mai successo di essere arrivati vicini ad un vostro personale traguardo e di esservi fermati lì, raggiunti e sorpassati da gente che nelle graduatorie stava dietro di voi?

A me è capitato. Mi chiamo Juan Grobler e quel giorno varcai la linea di meta dei Wallabies. Ancora non lo sapevo, ma nessun altro da lì alla finale riuscì a fare altrettanto. Non ci riuscirono i gallesi, per esempio. E nemmeno i sudafricani di Jannie De Beer, autore di cinque drop contro gli inglesi. Non ci arrivò nemmeno vicino un mostro come Jonah Lomu, sbattuto fuori in semifinale dalla vera kryptonite neozelandese, cioè i francesi. E non ci riuscirono nemmeno quest’ultimi in finale, sfatti da una partita risultata indigesta per i muscoli di Magne e compagni, dal piede di Burke e da un muro asfissiante di placcaggi.

Io quella volta riuscii ad andare oltre. A dimenticare gli anni in cui mi ero fermato mentre altri rimontavano, gli anni in cui rincorrevo un sogno in un Paese diverso dal mio in cui una delle poche cose che sapevo fare bene la facevamo realmente in quattro gatti. E a portare avanti un pallone che sarebbe rimasto nella storia. Poco importa se conterà solo per le statistiche e se le Aquile americane erano ancora distanti dagli standard mondiali, io il mio treno sono andato a riprenderlo molte stazioni più in là.

Laddove nessuno al mondo in quei mesi si spingerà mai.

Non male come seconda chance, non trovate?

Oltre la linea

Fede negli uomini

Tana Umaga, bravo a sfruttare un Latham sfarfallante. Pita Alatini, che converge dopo la solita sgasata inarrestabile di Lomu. Chris Cullen, dopo che i centri All Blacks hanno letteralmente mandato al bar la prima linea di difesa. E ora c’è Lomu lanciato. Jonah Lomu. Fat Boy lanciato sul pianeta ovale, un ordigno che quel mondo l’ha sconvolto di brutto. Chi ha avuto onore e onere di giocargli contro dice che, lì vicino, non è consigliato pascolare. Si rischia come quando si oltrepassa la linea gialla in stazione. Corre, sfoga garretti che non avrebbero bisogno di diminutivi di sorta.

Dal calcio d’inizio sono passati sei minuti, meno. Quelli là, quelli vestiti di nero, hanno già segnato tre mete. Non una, tre. Ai campioni del mondo. Che è lunga da spiegare il perché quelli là, quelli vestiti di nero, è dal 1987 che non sollevano una Coppa del Mondo. Tre mete all’Australia, che nell’ultima edizione, di segnature pesanti, ne ha subita una. Da un americano sparito dai radar senza nemmeno, in precedenza, aver avuto l’onore di vincere un Sanremo. Tre. E Lomu cavalca, ribalta, getta avversari a destra e a manca.

Difficile da credere, ma ogni tanto nel rugby serve aver fede. Che non significa pregare o credere in qualcosa che ci assicuri un terzo tempo migliore altrove. Chi è in campo ha bisogno di credere in qualcosa. Di avere un lumicino di speranza bravo a non spegnersi mai, o almeno a provare a non arrendersi alle brezze che ti stroncano l’esistenza. Sono grossi, quelli in campo, ma sono tutti uomini. Umani, meglio. E allora devono aggrapparsi a qualcosa, soprattutto quando la giornata non promette niente di buono. A quel piccolo sprazzo di azzurro che separa nubi minacciose e cariche di pioggia, per esempio. All’orologio che ora sembra correre molto più del normale, come capita spesso quando ci si trova in svantaggio.

A tutto ci si può attaccare, in certi casi. L’unica cosa che potrebbe scoraggiare tale attaccamento all’esistenza sembra essere quella palla di cannone con il numero 11 sulla schiena. In difesa fa il compitino, a livello tattico è forse il vero punto debole delle squadre in cui milita, ma quando riceve palla e corre è la cosa più simile ad un bulldozer a cui muscoli e ossa si siano mai avvicinati.

Si trova davanti il più piccoletto dell’altra compagnia, nato in Zambia. Potrebbe metterselo in spalla e farlo giocare come un pargoletto, volendo. Ma mica vuole mollare, quella specie di fantino. Da qualche parte devono avergli insegnato che più grossi sono gli avversari e più fanno rumore quando cadono. Che pure loro, i giganti, hanno dei punti deboli. Logica vorrebbe che li si prendesse alle caviglie, di solito il punto più vulnerabile della specie. Lo rincorre, portandolo a ridosso della linea laterale. Poi lo prende per il braccio. Ci vuole coraggio per prenderlo lì, quell’arto è grosso come una sua gamba. Gamba e mezza.

Nessuno dei due vuole mollare.

Fosse ancora vivo Hemingway, tra un bicchiere e l’altro, due righe le butterebbe giù volentieri. Quello lì, quello nato in Zambia, punta i piedi a terra, lo costringe ad abbassarsi. L’altro, al colmo della tensione, va giù in piroetta. Il gioco prosegue altrove, ma rallenta. L’arbitro fischia un fallo, il biondino vestito di nero, uno che con sguardo timido e piedi d’oro il suo ruolo l’ha rivoluzionato, centra i pali. Tre punti sul tabellone, idealmente quattro punti pagati da George Musarurwa Gregan, mediano di mischia dei Brumbies e dell’Australia. Perché ad arrendersi, sotto di ventuno punti dopo soli 6 minuti, sono capaci tutti. Nessuno, in quei frangenti, pensa bene di fermare il camion mettendosi sotto le ruote.

Nessuno pensa di recuperare una partita.

Gregan, George Gregan, recupera partita e squadra.

Ringraziano in quattordici, inizialmente. Poi si aggiungono centomila e passa spettatori che stanno assiepando lo stadio e hanno già voglia di andare a casa.

Poi tutto il resto degli appassionati, quelli seduti sul divano di casa, ormai convinti che una birra sia durata più di un incontro sulla carta vibrante e combattuto e invece già finito. Scettici del fatto che, da lì in poi, australiani e neozelandesi, inglesi e francesi, isolani e continentali si sono goduti la più bella messa cantata che il rugby abbia mai proposto. Difficile da credere, ma ogni tanto nel rugby serve aver fede. Che non significa pregare o credere in qualcosa che ci assicuri un terzo tempo migliore altrove. Ma credere che un placcaggio, anche quello che sulla carta sembra meno probabile, anche quello di un normotipo di 173 centimetri sul Golia più performante che si sia mai visto tra quelle righe bianche possa cambiare le sorti di una trentina di energumeni tra i più forti nella loro specialità.

Nel rugby servono muscoli, furbizia, materia grigia. Ma la fede, quella negli uomini fatti di carne e placcaggi, quella che a volte risiede nel più piccolo tra voi, non scordatela mai negli spogliatoi. A volte, come in quella notte, riesce a tracciare meraviglie da dove ormai sembrava potersi depositare solamente la polvere.

Abbiate fede, quando scendete in campo. Nella vostra seconda linea bolsa e sfiatata, nel ragazzino al debutto. In George Gregan. In chi volete. Ma non mollatela mai, che nessun arbitro in buonafede vi dirà mai di rotolar via da lei. Casomai vi regalerà una notte come quella del 15 luglio del 2000, decisa poi da quel Lomu che qualche dio invidioso, qualche anno più tardi, ha deciso di rapirci pezzo per pezzo. Casomai, che siate credenti o meno, sarete spettatori non paganti della più bella messa cantata che uno stadio ovale possa mai ospitare. Che si vinca o che si perda.

La vostra.

Ma pure quella tra All Blacks e Australia non fu male.

Fede negli uomini

Dalla parte sbagliata

Prima meta dopo nemmeno due minuti, punto di bonus dopo dodici, sessantanove punti nel carniere a fine primo tempo, cento punti quando la ripresa deve ancora scollinare. Cronaca di una morte annunciata? Certo, se masticate un po’ di rugby.

Ma se è vero l’assunto per cui lo sport ovale è tra i più crudi e veritieri in termini di forze in campo, allora il match tra Australia e Namibia andato in scena alla Coppa del Mondo del 2003 dovrebbe essere una delle pietre miliari del rugby. Dovrebbe star lì a ricordare che certi giorni è durissima stare su un campo di gioco. Che certe giornate, se cominciate col piede storto, non si metteranno mai in piedi da sole. E, dulcis in fundo, che quando decidi di non giocartela fino in fondo rischi seriamente di finire dalla parte sbagliata della storia.

Perché la Namibia, il 25 ottobre del 2003, ha deciso di entrare nella storia dall’ingresso sul retro. E ci arriva con una selezione zeppa di amatori, qualche professionista senza troppi minutaggi nelle gambee un allenatore con un buon futuro alle spalle e una ars diplomatica non troppo sviluppata. Avevano debuttato in Coppa del Mondo nel 1999 collezionando due durissime sconfitte da Canada e Fiji e una meno severa dalla Francia. Messa la nazionale nella cartina geografica ovale, si pensa a mettere le basi per una prima storica vittoria mondiale. D’altronde nel Paese i presupposti fisici ci sono: non è un problema trovare una prima linea di 120 chili, né una seconda di due metri, né un trequarti con le fibre giuste. D’altronde nel loro primo anno da nazione indipendente i namibiani sbaragliarono tutti: tra tutti due volte l’Italia, l’Irlanda, la Scozia. Ecco, si rivelò un po’ meno facile trattenere i giocatori veramente forti, come Percy Montgomery, finito nelle trafile giovanili sudafricane prima del 1990, anno di nascita della repubblica. Ci riescono con Kees Lensing, pilone molto strutturato, convocato dagli Springboks under 21, ma trattenuto a casa da un infortunio e dalla malcelata voglia di rappresentare la sua Nazionale. i Welwitschias si qualificano abbastanza agevolmente per la finale continentale, ma per strappare il biglietto per l’Australia devono prima vedersela con la Tunisia. Andata e ritorno, due partite agoniche. Alla fine dei 160 minuti il confronto è pari, vittoria tunisina di 7 punti a Tunisi, vittoria namibiana a Windhoek con lo stesso scarto, ma passano quest’ultimi grazie alle quattro mete spalmate nei due incontri.

Non è un bel segnale, non dominare il torneo di qualificazione africano.

Si Ci sono tante cose da fare, tanto su cui mettere le mani, anche perché il girone è veramente tosto. Nel giro di due settimane, infatti, si dovranno affrontare Argentina, Irlanda e i campioni del mondo australiani. Poi, cinque giorni dopo, la Romania, squadra più abbordabile delle altre, ma con trecentoventi minuti di fuoco nelle gambe. È un calendario che farebbe tremare i polsi a squadre molto più quotate, figuriamoci se la cosa non spaventa i namibiani. Namibiani che nel frattempo riescono a raccattare i due o tre giocatori più forti del loro movimento. Heino Senekal, per esempio, seconda linea di stanza a Cardiff, ottimo saltatore e buon lettore degli schemi avversari. Hakkies Husselman, solido mediano di mischia di Western Province, dotato di buon ritmo e di discrete gambe. Kees Lensing, pilone di cui sopra. Stop, altri di quel livello non ce ne sono. Poi si pesca nel campionato locale e nelle panchine della Currie Cup. Il materiale umano non è tantissimo, spicca fra tutti la storia di Willie Van Vuuren, medico umanitario che nel 2003 parteciperà sia ai Mondiali di rugby che a quelli di cricket, ma poco altro.

Se escludiamo l’allenatore.

Dave Waterston, neozelandese che ha fatto fortuna come assicuratore in Sudafrica. È stato il video analyst degli Springboks alla Coppa del Mondo del 1995 ed ha allenato Tonga nel 1999. Dirà di aver smesso di fumare nel 1985, ma verrà pizzicato con sigaretta spiegata in mano nella sua cabina durante il match contro l’Irlanda, che se permettete è uno dei cinque aneddoti della Coppa del Mondo. Non è esattamente un diplomatico, se deve dirti una cosa non ci pensa due secondi, cosa buona se lo fai con i tuoi giocatori, meno se parli degli arbitri. Ma questo lo riprendiamo dopo.

Waterston organizza tre partite di preparazione alla Coppa del Mondo: arrivano due vittorie contro Kenya e Uganda e una sconfitta casalinga contro Samoa. La squadra è volenterosa, ardimentosa, ma i fondamentali sono carenti: non si contano i palloni persi, né i placcaggi lisciati. Per non parlare della disciplina, troppo carente soprattutto tra le terze linee.

Il tempo però è poco, si fa quel che si può, i Pumas sono alle porte. I ragazzi di Waterston non cominciano nemmeno male. Sì, d’accordo, prendono due mete quasi subito, ma lottano e danno battaglia agli argentini. Husselman è intraprendente, ma predica nel deserto. Di solito la sua spinta e le sue idee durano lo spazio di due, massimo tre fasi, poi si disuniscono tutti. Ricevere l’ovale diventa affare di chi è più vicinoo di chi ha più dimestichezza nel controllarlo. Logico che la benzina prima o poi finisca, con Ledesma e compagni a far breccia spesso e volentieri nelle voragini difensive namibiane. Contro l’Irlanda il copione non cambia, ma Waterston sbotta: viene ammonito Senekal per un fallo di gioco, ma viene graziato O’Connell per uno stamping mai veramente fatto passare per altro. L’allenatore della Namibia perde il controllo, verrà multato per frasi tipo “Se quello fa il dentista come arbitra, i miei denti li vedrà da molto distante” (ironizzando sulla prima professione del l’arbitro australiano Cole) e per dire che sì, certi arbitri preferiscono leccare il sedere (letterale, dice proprio “licking the back side”)alle grandi squadre che arbitrare in modo equo. O’Connell non verrà nemmeno citato.

Nel frattempo però manca poco alla sfida contro l’Australia. I Wallabies sono campioni del mondo in carica, giocano in casa e hanno deciso di onorare il torneo schierando una squadra ancora più forte rispetto a quella di quattro anni prima. Contro gli africani restano a riposo fenomeni come George Smith, Wendell Sailor, la mediana Gregan-Larkham, ma Eddie Jones non è tipo da perdere nemmeno a scopone scientifico al bar sotto casa, figuriamoci se vuol fare brutta figura ad un Mondiale: manda in campo gente come Tuqiri, Latham, Giteau, Mortlock, Rogers, Lyons e, più in generale, una squadra che arriverebbe in semifinale, contro altri avversari, senza mettere la quarta. Waterston, invece, si ritrova a fare i conti con un calendario diventato tiranno e un’infermeria riempitasi sempre di più: sul suo calendario personale c’è un circoletto rosso in corrispondenza col giorno della sfida con la Romania, in programma solamente qualche giorno più tardi, ma sa benissimo che scendere in campo con i rincalzi contro l’Australia significa mettere in scena una vera carneficina, perché la panchina lunga da quelle parti la otterrebbe solamente con dell’altro legno.

E carneficina sia, ci si gioca tutto a Launceston.

Quel che succede ad Adelaide non è nemmeno divertente: prima meta dopo nemmeno due minuti, punto di bonus dopo dodici, sessantanove punti nel carniere a fine primo tempo, cento punti quando la ripresa deve ancora scollinare. I namibiani ci provano pure a placcare tutto quel che si muove, ma almeno la metà di quelli che sono in campo ha al massimo fermato qualche madascio, qualche tunisino. Al limite un argentino. Come fai, con un background risicato come questo, a fermare uno come Latham o Tuqiri lanciato in corsa? O come fai a prendere Giteau se non riesci non tanto a seguire, quanto nemmeno a prevedere il cambio di direzione? I Welwitschias tengono palla per ventisette minuti senza costruire più di un paio di fasi alla volta, arrivano sì e no due volte nei 22 australiani sotto gli scroscianti applausi del pubblico, lisciano 81 placcaggi.

Cronaca di una morte annunciata? Certo, se masticate un po’ di rugby.

Ma se è vero l’assunto per cui lo sport ovale è tra i più crudi e veritieri in termini di forze in campo, allora il match tra Australia e Namibia andato in scena alla Coppa del Mondo del 2003 dovrebbe essere una delle pietre miliari nella storia del rugby. A ricordarti che quando la differenza è molta e per di più decidi di non giocartela fino in fondo rischi seriamente di finire dalla parte sbagliata della storia. I Wallabies rendono onore ai namibiani fino all’ultima azione e varcano la linea di meta per ventidue volte, finisce 142 a 0.

Si cerca di provare il tutto per tutto contro la Romania, quarta forza del girone, battuta sonoramente da tutte le altre squadre del girone. Quelli però saranno pure molto più deboli di irlandesi, Pumas eWallabies, ma sono comunque un gruppo con pochi atleti amatoriali, giocano quasi tutti in Francia. Waterston mette in campo chi aveva riposato ad Adelaide e tutti quelli risparmiati da botte e infortuni. In alcuni ruoli non c’è più nessuno da schierare, sta di fatto che ad estremo gioca un mediano di mischia e Wessels, che sarebbe l’apertura titolare, gioca primo centro. In mediana ci finisce Schreuder, che ha il brutto primato del peggior calcio di punizione in touche contro gli australiani (0 metri guadagnati). Su di lui aleggia la triste sensazione che ogni calcio tattico provato finirà molto distante dal punto in cui avrebbe dovuto spiovere il pallone.

Non finisce bene, a fine primo tempo i romeni sono avanti 32 a 0, Husselman e compagni hanno già lisciato 27 placcaggi. Gli ultimi quaranta minuti del mondiale namibiano e romeno sono un ballo in cui nessuno segue i passi e tutti si pestano i piedi. Arriverà una meta per parte, per gli europei segna Sauan, in forza al Rovigo, poi si va a casa a pensare sugli errori commessi.

Che non sono pochi, e nemmeno leggeri.

Di coach Waterston non si è più saputo nulla. Non risulta abbia allenato altre squadre dopo quella Coppa del Mondo, né che abbia proseguito sulla sua strada ovale. Forse è tornato nel suo mondo delle assicurazioni, forse è tornato a fumare con costanza.

I Welwitschias, invece, qualche progresso da allora l’hanno fatto: devono ancora cancellare lo zero dalla voce “vittorie in Coppa del Mondo”, perdono ancora nettamente contro le grandi potenze, ma poco a poco il rugby namibiano è entrato nel mondo del professionismo dalla porta giusta.

Quella sbagliata, purtroppo, l’avevano già aperta ad Adelaide.

E non fu un gran spettacolo.

Dalla parte sbagliata